Proposta Radicale 4 2022
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Il processo ad Aldo Braibanti

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Processo al processo

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Un’unica battaglia politica, giornalistica, giudiziaria

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Guarnera e Falco ovvero la giustizia come violenza

di Marco Pannella

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Vi racconto che cosa fu il “caso” Braibanti

di Giuseppe Loteta

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Il processo ad Aldo Braibanti

Il processo ad Aldo Braibanti

Non è vero che si stava meglio quando si stava peggio. Quando si stava peggio, si stava peggio. È che molte cose non si sanno, o si dimenticano. Gianni Amelio con il suo “Il signore delle formiche”, non ha solo il merito di riprendere un filone cinematografico che sembrava smarrito: quello del cinema “civile”, dei Marco Bellocchio e dei Damiano Damiani, dei Carlo Lizzani e dei Nanni Loy, degli Elio Petri e dei Francesco Rosi, dei Giuliano Montaldo, per citare solo alcuni nomi di grandi registi di cui le televisioni sembrano incapaci di offrire “rassegne” organiche e ben presentate (ah! Averne di Gianluigi Rondi, di Claudio G. Fava, di Ernesto G. Laura, “maestri nell’introdurre” in una manciata di minuti film anche complessi come quelli di Michelangelo Antonioni, dei fratelli Taviani, e quelli “leggeri” di Steno).

Amelio (“Colpire al cuore”, “Porte aperte”, “Lamerica”, “Hammamet”…) con “Il signore delle formiche  ci riporta alla fine degli anni Sessanta, quando si celebra un processo che fa scalpore: un intellettuale, Aldo Braibanti, viene condannato a nove anni di carcere, accusato di “plagio”: di aver sottomesso alla sua volontà, in senso psicologico e fisico, un suo studente e amico da poco maggiorenne. La famiglia del ragazzo fa in modo che sia rinchiuso in un manicomio (allora esistevano e Franco Basaglia ancora non aveva cominciato la sua lotta per il superamento di quelle terribili istituzioni), sottoposto a un incredibile numero di elettroshock, allo scopo di “guarirlo” dall’influsso malefico e diabolico di Braimanti. La “colpa” vera dei due è quella di essere omosessuali e di volersi bene. La vicenda è il pretesto per imbastire un processo politico e una vera e propria caccia alle streghe. Pochi hanno l’ardire e il coraggio di opporsi a quella deriva clerical-reazionaria: Piergiorgio Bellocchio, Umberto Eco, Franco Fortini, Vittorio Gassman, Giovanni Jervis, Dacia Maraini, Elsa Morante, Alberto Moravia, Cesare Musatti, Pier Paolo Pasolini, Marco Ramat… “l’Astrolabio” di Ferruccio Parri e Mario Signorino, con i puntuali articoli di Giuseppe Loteta; e Marco Pannella, già allora leader e anima del Partito Radicale. Pannella poi con la sua campagna su “Notizie Radicali” non solo segue passo passo le udienze dei processi nei confronti di Braibanti; opera perché i magistrati, pesantemente chiamati in causa, lo citino in giudizio, e così ha luogo un ulteriore processo che, come da miglior tradizione radicale, “processa” non tanto gli inquisiti, quanto gli inquisitori. 

Il film di Amelio prende spunto da questi fatti, e racconta una storia corale, in cui, accanto all’imputato, “siedono” i familiari e gli amici, gli accusatori, i sostenitori del “reato” e i difensori, con un’opinione pubblica che fa fatica a prender coscienza di quello che accade. Nel film solo un giornalista si impegna per ricostruire la verità, e affrontare gli ostacoli e le ostilità che questa ricerca comporta. “Un film”, lo definisce Amelio, “sulla violenza e l’ottusità della discriminazione. L’amore sottomesso al conformismo e alla malafede. Uno spaccato della provincia italiana nei cruciali anni Sessanta, quando il benessere economico non andò di pari passo con l’intelligenza delle cose, con l’apertura dei sentimenti. La famiglia come luogo chiuso, dove i contrasti tra le generazioni restano accesi e conflittuali. Lo spettatore si potrà domandare: come è stato possibile, come è potuto succedere? Anche se in apparenza oggi non ci si scandalizza più di niente, l’odissea del ‘signore delle formiche’ è di quelle che sanno di inquisizione, e ne abbiamo le prove ogni giorno. Perché nella sostanza non è cambiato molto. Dietro una facciata permissiva, i pregiudizi esistono e resistono ancora, generando odio e disprezzo per ogni ‘irregolare’. Ma non è più tempo di subire né di tollerare nessuna forma di sopruso verso gli individui meno protetti. E questo film vuole infondere il coraggio di ribellarsi”.

Nel parlare e nello scrivere di questo film il ruolo e l’azione svolta da Pannella e dal Partito Radicale è come un inciso. Con il “dossier” che segue si cerca di recuperare un po’ di memoria; serve anche a noi. Soprattutto a noi (Pr.Ra.)   

Processo al processo

Processo al processo

Il 16 febbraio 1972 Marco Pannella, Giuseppe Loteta e Mario Signorino vengono processati dal tribunale dell’Aquila per due articoli pubblicati nel 1968 da “Notizie Radicali” e da “l’Astrolabio” sul “caso Braibanti. Imputati di diffamazione, di calunnia e di oltraggio, ribadiscono le accuse contro gli autori dell’incredibile processo per plagio che si concluse in primo grado con una sentenza a 9 anni, e successivamente dimezzata in appello. Pubblichiamo di seguito un articolo che rievoca la battaglia condotta dal Partito Radicale contro questo “affare” giudiziario. L’articolo incriminato di Marco Pannella su “Notizie Radicali”; una testimonianza di Giuseppe Loteta.

Un’unica battaglia politica, giornalistica, giudiziaria

Un’unica battaglia politica, giornalistica, giudiziaria

Giustamente è stato fatto notare che il giudice che giudicò Aldo Braibanti e tanto contribuì a farlo condannare, il dott. Orlando Falco, ha il compito, nei prossimi giorni, di giudicare un altro anarchico: Pietro Valpreda. Entrambi erano e sono poveri. L’uno viveva in un torrione, l’altro aveva un “covo”, una catapecchia, assieme ai suoi compagni. Quello che ha dovuto “confessare”, il carattere della sua vita e delle sue idee, sul piano sessuale, questo s’è già visto accusare di aver scritto “bombe, droga, anarchia”…

Per Valpreda, conosciamo ormai quali e quanti complotti fascisti e polizieschi abbiano portato alla possibilità della incriminazione. Per Braibanti, cominciammo a intuirlo solo dopo la prima condanna. Che, fra i due “imputati”, le analogie siano in realtà arbitrarie, non importa. Che la ricerca, l’opera di Braibanti e la vicenda umana di Valpreda, siano profondamente diverse, e in gran parte opposte, è irrilevante; perché non dissimili, non estranee almeno, sono le forze che si sono mosse e dovranno giudicare l’uno, dopo aver condannato l’altro.

Quando ci accorgemmo, a processo iniziato, dell’affare – l’affare Braibanti, non v’era traccia si quei due “fronti” che si sarebbero poi effettivamente creati a proposito della vicenda di cui sono state vittime Braibanti e Giovanni Sanfratello. Se si eccettua un manifesto firmato da molti amici ed intellettuali non v’era ancora che accusa e linciaggio, cui facevano eco doglianze e paure per le “speculazioni” su quella che veniva definita, dai giornali democratici, “null’altro che una squallida vicenda”. Subito, la stessa difesa giudiziaria ci apparve esitante e paralizzata. Conniventi sembravano perfino l’imputato ed i pochi attivi suoi amici, quasi rassegnati a giocare il ruolo delle vittime, in uno spettacolo dalle parti già prestabilite e assegnate.

Piombati in quell’aula della Corte d’assise di Roma, udimmo – in poche ore – chiedere all’imputato se egli fosse “monista o dualista”; se con i suoi interlocutori s’intrattenesse anche a discutere del sesso delle formiche, della cui vita era uno dei rari studiosi in Italia; se avesse avuto o no rapporti sessuali con questo o con quello; se avesse o meno accusato un amico d’avergli masturbato il cane; e così via. Ad alcuni testimoni, se fossero omosessuali; se era vero che loro congiunti fossero conosciuti come pederasti. Udimmo poi una requisitoria allucinante, allucinata: storie di “giuramenti del sangue” resi di notte, a luna alta, dinanzi alle tombe profanate di genitori, per ottenere che ignari e buoni giovani ripudiassero fino al ricordo del padre defunto; di miracolosi suoni di campane; di “sacri bronzi” che con il loro richiamo – notturno, beninteso – salvavano ragazzi dalla perdizione, dalla morte spirituale, dalla più assoluta schiavitù, e ne liberavano l’anima di cui il loro compagno s’era impossessato.

Fummo martellati dalle ossessionate invettive contro i giacigli, sempre turpi e squallidi, dell’imputato; contro la sua miseria, o la sua povertà, contro la sua bruttezza, i suoi “ghigni” (retaggio di altre più antiche torture: naziste, quelle, anche ufficialmente; contro i suoi immondi voleri; contro il suo odio per la famiglia, l’amore, la libertà, la dignità, la giovinezza; contro la sua sete di distruzione e la sua demoniaca capacità di soddisfarla. Leggevamo, su un settimanale romano, un informatissimo giornalista affermare che nelle prigioni l’imputato non avrebbe potuto gioire e proliferare proseliti: che manna i 14 anni chiesti dall’accusa per quell’anarchico!

Una distinta collega, ingannata dall’apparenza fisica di qualcuno di noi, alla fine d’una udienza, lasciando posare il suo sguardo di gentildonna intellettuale e di scrittrice della domenica prima sull’imputato, poi sul pubblico: “È proprio vero, basta guardarli” – ci sussurrava, con tono complice – “non è che una storia di giudei!”.

A porte chiuse, ma non troppo, si contavano gli orgasmi, gli exploits sessuali attribuiti – da un povero sottoproletario, prostituto e procacciatore di incontri secondo alcune testimonianze in fondo senza grave colpa se non quella d’aver seguito il miraggio di guadagno e promesse, goduto di qualche mese di inaspettata e sconvolgente promozione sociale – all’uomo che da più di un anno aspettava in galera di venir giudicato per…plagio.

Vedemmo un giovane consunto e febbrile deporre a favore di colui che avrebbe dovuto essere il suo torturatore, l’assassino morale, malgrado che l’avessero, anni prima, già ventiquattrenne, rapito con la violenza, internato in manicomi, trattato con 40 elettroshock e sette coma insulinici, interrogato e minacciato senza requie, liberato a condizione di continuare la “cura” sotto uno psicanalista a scelta dei suoi rapitori, di non leggere libri editi da meno di cent’anni, di non rientrare a casa dopo il tramonto, di non incontrare mai i suoi amici, di obbedire e rispettare i suoi genitori, e infine di essere riconosciuto dai periti del tribunale di Roma sano di mente, com’egli si era sempre protestato. Colpevole solo di non credere più nel Dio della Controriforma, nel mondo clericale, nella famiglia che aveva dinanzi, nella laurea che volevano imporgli, nel terrorismo e nella violenza come sostanza della morale, nella ricchezza e nella carriera.

Leggemmo, negli atti, il crescere d’una violenza, della menzogna, del linciaggio. Udimmo, da ogni parte, l’insulto ed il sarcasmo contro l’intellettuale, l’artista, la scienza, la sinistra, il comunismo, l’anarchia: Braibanti diveniva il nome del male, la prova del demonio; la privata accusa, affidata ad un vecchio clericale del sotto-governo e ad un clerico-fascista tanto per cambiare “annullato” della Sacra Rota e presidente dell’Unione Monarchica Italiana (e, in appello ad un ex ministro della giustizia di Mussolini) tuonare una sera in nome della santità della famiglia e dell’infanzia contro “gli intellettuali di merda”. Scoprivamo, dapprima increduli, un castello d’illegalità pubbliche, e “private”, tutte volte ad inchiodare l’imputato al reato di plagio perché – si affermava – il plagio era ormai moneta corrente nella corrotta società moderna, e si doveva finalmente individuarlo e perseguirlo.

Imparammo delle legge, in quei giorni, più che in anni di “studio” e di obbligata attenzione. Scoprimmo che la legge è certo uguale per tutti ma, in genere, “ordinatoria” per l’accusa e i giudici e “perentoria” per gli imputati. Apprezzammo l’oceano che divide l’illegalità e nullità di una procedura. Misurammo anche, senza soverchio stupore, il poco coraggio di tanti intellettuali rivoluzionari e giuristi democratici.

Commentammo quotidianamente, e pubblicamente, il processo.

Denunciammo quel che vedevamo, non occupandoci di difendere quel che non conoscevamo, o di piangere sulla sventura dei deboli: attaccammo i potenti che li aggredivano. La condanna a nove anni, in prima istanza, sorprese quasi tutti, non noi. Sapevamo, ormai, che i giochi erano fatti. Pensiamo d’aver contribuito, comunque, già in quei giorni, al formarsi di quel fronte di persone civili, tolleranti, democratiche e laiche che ritenevamo necessario perché la gravità e la complessità di questo affare fosse compresa. Alcuni parlamentari, con i quali eravamo in contatto per la battaglia in corso sul divorzio, Ballardini e Spagnoli, presentarono un progetto di legge per l’abolizione dell’art. 603 del codice penale, creazione del guardasigilli fascista Rocco. I commenti della grande maggioranza della stampa furono negativi e spesso violenti.

Si trattava ora di organizzare davvero un’azione giudiziaria e politica che consentisse di sperare in un giudizio d’appello di riparazione. Sarebbe stato possibile, nello sdegno e nell’allarme di quei giorni, trovare le energie sufficienti per chiedere alle diverse istanze giudiziarie interessate di fare piena luce sulle eventuali responsabilità dei rapitori del giovane Sanfratello, dei medici e dei magistrati che lo avevano per anni tenuto rinchiuso ed annichilito nei manicomi; per portare alla luce il ferreo ma anche evidente ingranaggio messo in moto da un gruppo di individui per arrivare alla condanna di Braibanti; per indagare a fondo sulla funzione avuta da una serie di prelati, preti, ordini religiosi, collitorti e torquemada di provincia; per inchiodare l’operato e la funzione assolta dai periti, su commissione del giudice istruttore… A condizione che l’appello fosse stato, come pareva, imminente. Ma, con Braibanti in carcere da più di un anno, il presidente Falco violò una decina di volte il termine prescritto per depositare i motivi della sentenza. Il processo d’appello non fu quindi fissato che molto tardi, gli animi e le belle anime si smobilitarono. Vorremmo ricordare che il Partito Radicale, in questi anni, era impegnato, con le sue scarse energie, nella battaglia per il divorzio, in quella contro il Concordato, nella polemica contro l’assistenza clericale e l’OMNI (che doveva portare all’arresto del sindaco Petrucci), per la promozione dell’obiezione di coscienza, nelle iniziative antimilitariste, nella difesa di provos e di nuove minoranze giovanili, nei convegni e nelle manifestazioni per la libertà sessuale…Utilizzammo il tempo a meglio conoscere gli aspetti meno evidenti e quelli più tecnici e giuridici dell’affare Braibanti.

Noi ci occupammo del castello giudiziario, dell’ingranaggio che sembrava dover necessariamente stritolare, in conformità con la legge (cioè con l’esistenza dell’art.603 del c.p.) Sanfratello in manicomio, Braibanti in carcere, una morale ed idee diverse da quelle attribuite00 alla maggioranza e predominanti nella classe dirigente, nella coscienza popolare.   

Attraverso pubblici dibattiti (al primo, nella sede del Partito Radicale, intervennero molte centinaia di persone, come liberate da un incubo), lo studio degli atti processuali, colloqui non prevenuti anche con gli altri accusatori (non escluso il dott. Lojacono e il principale organizzatore del linciaggio, il non banale, lucidissimo, oltranzista clericale Agostino Sanfratello), ricerche con psicanalisti e giuristi, indagini – dovunque affioravano ipotesi di interessi convergenti, anche se apparentemente estranei – a Firenze, nel piacentino, a Roma, cercammo di comprendere e di far comprendere come fosse accaduto che il primo reato di plagio aveva così clamorosamente preso corpo in Italia.

Acquisimmo lentamente la convinzione che senza una serie di falsi e di menzogne dolose da parte della privata accusa, senza un clima di terrorismo ideologico e di volontà di persecuzione politica e culturale, senza le solidarietà che in tal modo s’erano venute preparando ma, soprattutto, senza una serie precisa di violazioni di norme procedurali e senza l’intimidazione e il soffocamento della difesa, il sequestro di persona di Giovanni Sanfratello e le vessazioni cui era stato sottoposto, senza l’invenzione di un personaggio come il Toscani, mera “cosa” nelle mani dei familiari del Sanfratello, il plagio sarebbe restato quel che era sino a quel momento: un tentativo (non portato a termine per mancanza di necessità immediata) di fornire al regime fascista un ulteriore strumento di controllo e di violenza contro i suoi oppositori.

A questo punto, la legge e la giustizia apparivano in contraddizione, in contrasto. V’erano dei probabili “delinquenti” certo, nella vicenda, ma non dove s’erano cercati e trovati fino ad allora. Non ci restava che affermarlo, assumendoci la responsabilità di provare quel che sostenevamo – o comunque – di esprimere quel che ritenevamo ormai essere la verità. Una volta di più la “politica” ci apparve il modo migliore per impegnarci civilmente e umanamente: culturalmente disattenti e disinteressati, ideologicamente inconsistenti (almeno nel senso che al termine viene correntemente conferito) riconducemmo nel quadro generale della nostra contestazione della giustizia antidemocratica, classista, funzionante o disfunzionante a seconda degli interessi e delle convenienze, i motivi e gli obiettivi d’impegno in questo “affare”.

Su “l’Astrolabio”, con gli interventi e i servizi dei nostri compagni Spadaccia e Loteta, su “Notizie Radicali” diffuse a molte migliaia di copie iniziammo quel “processo al processo, quella risposta accusatoria al fronte dell’accusa e del linciaggio, che non poteva non tradursi, almeno per chi scrive, nella ricerca consapevole e responsabile di un nuovo scontro, o di nuovi scontri anche giudiziari. Che di tutta questa vicenda dove, da tante parti, contestatrici e potentemente democratiche, s’erano uditi sottili squilli di trombe e fatti visi d’arme, oggi non resti viva che l’azione del Partito Radicale, è un segno da non sottovalutare, e che ci conforta. Al di là delle mode e delle rassegnazioni, delle fiammate d’odio e delle rabbie distruttrici, dei pietismi e dei lirismi letterario-giacobini, l’umile nostra impresa di costruire, senza sosta, con rigore, nella durata, moduli e metodi politici rinnovati e alternativi, mostra d’essere valida e solida.

(da “Prova Radicale” n.2, inverno 1972)

Guarnera e Falco ovvero la giustizia come violenza

Guarnera e Falco ovvero la giustizia come violenza

di Marco Pannella

Le pagine, le accuse e le osservazioni che seguiranno sono certamente gravi. Ma non vengono proposte ab irato: se sono stato mosso a scrivere da sentimenti, da stati d’animo, tengo qui ad affermare che quanto di emotività può avere concorso alla loro stesura è ora pienamente superato dal vaglio della riflessione e della serena e consapevole assunzione di una necessaria responsabilità: perché non voglio ricorrere, dinanzi a qualsiasi evenienza, nemmeno alla ipotesi di attenuanti (giuridiche o umane) per l’esistenza (indubbia) di provocazioni gravi o di particolari valori sociali ed umani da difendere.

Sono pagine anche prudenti, almeno nel senso in cui questa è virtù e non una furbizia, fatto interiore prima che calcolo e istinto di conservazione. Ho dalla volontà di nuocere, per malanimo, a chicchessia e nemmeno per eccesso di difesa, legittima o no, mia o d’altri. Ritengo che sia urgente spezzare una catena di violenza che abusa della giustizia e del suo nome, mentre ne constato l’istituzionalizzarsi e il progredirsi in dolorose, intollerabili conseguenze.

Opero ancora una volta, con i miei compagni, da radicale per imporre e reintegrare almeno una logica formale di giustizia lì dove mi sembra che la prevaricazione e l’iniquità si affermino senza nemmeno più un’ombra di pudore, senza nemmeno quelle ipocrisie che restano, pur sempre, estreme forme di omaggio al principio della verità, se non al suo concreto manifestarsi.

Questo “affare Braibanti” (che in realtà è l’“affare Sanfratello” o l’“affare Lojacono”) sta divenendo ogni giorno di più un “affare di stato”; il tacerlo, letteralmente, una mancanza di coscienza; il non temerlo una mancanza di coraggio e di semplice intelligenza.

Quando dalle più “prestigiose” sedi della giustizia l’attendibile e severa tensione puritana rovina nella devastazione grottesca del filisteismo; quando contro le insuperabili acquisizioni della civiltà laica, si ripropone retoricamente e miseramente il cammino a ritroso della pretesa sacralizzante d’una funzione dello Stato (Guarnera ai magistrati contestatari: “…la più nobile delle professioni umane”) e dei suoi interpreti; quando le leggi – che si presumono per ciascuno – diventano per prassi “meramente indicative” e misteriosamente violabili ab libitum da coloro che ne sarebbero (e non lo sono: lo è il popolo) custodi e ne diventano i padroni all’ombra di interpretazioni alienate, alienanti, capziose, mendaci; quando questo accade – e accade – è l’ora di ricordare che chiunque pensi di porsi nei fatti “al di sopra” delle leggi, per ciò stesso si pone “al di sotto” di queste e dello stesso vivere civile.

E se, per avventura, lo Stato mostrasse di far “corpo” (o corporazione) con loro, il “delinquere” del ribelle e del rivoluzionario, dell’uomo libero e democratico e socialista di fronte e contro il potere totalitario diviene “norma” e legge esso stesso (Ed è “delinquere” ben diverso da quello che attribuirò qui di seguito al presidente Falco).

Ultima e non superflua precisazione: chi scrive è e si ritiene un “privilegiato” della giustizia. In ormai lunghi anni di professione giornalistica e di militantato radicale; di azioni e campagne politiche e pubblicistiche in genere rivolte per necessità di idee e di giudizi e – perché tacerlo? – gusto e tendenza contro i maggiori e più protervi potentati, contro istituzioni, vecchie o rinnovate, “neo” o “paleo-capitalistiche” e “clericali”, le più disavezze e intollerabili di semplici critiche o di pur tenui contestazioni; di accuse le più gravi, a volte le più infamanti, sempre le più precise e motivate, e sempre (come oggi) affermate e non furbescamente evocate con quel malcostume del dire non-dicendo, dell’uso accorto e inflazionato del condizionale e della negazione retorica che sono la regola del nostro giornalismo prostituito a cui siamo abituati (anche se non rassegnati); di pratica sociale “costituzionale” ma “illegale” cioè fondata provocatoriamente sul rifiuto di attendere che dai cieli della Corte Costituzionale calasse nel nostro paese la “grazia” di “diritti” e di sbirraglie non fascisti – in questi ormai lunghi anni, dicevo – ho sempre incontrato, puntuale, una giustizia profondamente equa, “amica” direi, se questo termine non consentisse speculazioni opposte a quelle che intendo esprimere.

Non ho mai avuto una sola querela, non una sola condanna o un solo procedimento – a mia conoscenza – per l’attività pubblicistica. Di fronte a una cascata di denunce di tipo chiaramente persecutorio degli uffici e dei sicari politici delle peggiori Questure italiane, mai una condanna, mai – fin’ora – un semplice rinvio a giudizio, con una sola eccezione risoltasi con piena e definitiva assoluzione perché il fatto non costituiva reato. Ogni volta che ho fatto ricorso alla via giudiziaria per tutelare i miei interessi che ritenevo offesi da qualche fatto di stampa, ho avuto – senza composizioni giudiziarie o extra giudiziarie – piena soddisfazione. Quando, per caso, sono venuto a conoscenza di proscioglimenti per le certo numerose denunce delle quali non ero nemmeno stato portato a conoscenza, ho preso visione di sentenze democratiche ed avanzate almeno rispetto al potere politico e alla giurisprudenza filo-autoritaria, della Cassazione. Ho dei procedimenti (politici) in corso passabili di amnistia: vi rinuncerò perché credo nella possibilità di confronti seri, non truccati.

Il caso ha anche voluto che, di regola, mi trovassi dinanzi a magistrati le cui personali idee erano e sono profondamente diverse, in genere opposte, a quelle che professo: precisazione ed omaggio ora imprevedibilmente doverosi.

Altro, molto altro potrei aggiungere, ma devo già scusarmi per aver ritenuto di dover dedicare tanto spazio, sia pure dopo tanti anni, a fatti e cose che personalmente mi riguardano. Vale forse la pena di aggiungere che, fino all’altro giorno, in piazza Cavour, per la “controinformazione” dove ci siamo incontrati e conosciuti nel migliore – e questo sì – più nobile dei modi, da cittadini democratici impegnati civilmente, non ho mai frequentato o solo conosciuto personalmente magistrati.

I miei sodalizi, è noto, sempre più mi portano ad appartenere a quella fetta di umanità fatta di diseredati e di erranti, di colpevoli e di carcerati, di pazzi e di internati, di offesi e di perversi, di manifestanti e di protestatari le cui strade sono in genere diverse da quelle dove potrei sostare anche con i migliori – od i peggiori – dei giudici. Forse anche per questo, se Guarnera, o Velotti o Falco, dovessero già oggi ritenere giunto il momento o l’occasione per inviarmi il loro capitano Varisco, sarà naturale e logico, se non giusto. Non tutti e non sempre avranno – lo so – la “forza” di carattere d’attendere che più proficui e “disonoranti” linciaggi – da tante parti inutilmente preparati e tentati – giungano a conclusione. Alla fine, tanto meglio.

Declino la mia condizione di “privilegiato”: o libero con tutti gli aventi “diritto” o altrimenti meglio “dentro”, poiché troppi e sempre più numerosi sono coloro cui appartengono solo “torti”. Non ho risentimenti, dunque rispondo parola per parola di quanto affermo o narro, o piuttosto, ricordo disordinatamente e approssimativamente (per difetto) riassumo. Buona coscienza a buon mercato? Insidia di quello stesso filisteismo che ho riscontrato nelle parole e nell’operato del procuratore generale dott. Guarnera? I fatti lo diranno (M.P.)

Il dr. Orlando Falco, neo consigliere di Cassazione, ha violato la legge, in modo continuato, per oltre cinque mesi: avendo infatti l’obbligo di depositare le motivazioni della sentenza di condanna contro Aldo Braibanti pronunciata dalla Corte di Assise da lui presieduta il 14 luglio entro 20 giorni, non ha ottemperato a questa tassativa prescrizione di legge se non il 30 dicembre. Chi viola la legge, delinque. Falco ha violato la legge. Falco è stato dunque un delinquente.

Per una normale, minima, esigenza di equità, questo sentiamo di dover dire e scrivere (sottoponendolo alla particolare attenzione del dr. Falco stesso, della Procura e della Procura Generale romana).

Centinaia di migliaia di pagine di dottrina volta ad approfondire il carattere diverso delle leggi e delle disposizioni ordinatorie e perentorie non ci convinceranno mai, infatti, ad accettare certe distorsioni – nemmeno e innanzitutto sul piano semantico – per le quali, in definitiva, si è o non si è delinquenti a seconda della classe, del ceto, della parte cui si appartiene e non a seconda di quel che si è fatto e si fa. Non si tratta di questione secondaria, come vedremo, né di “mero” principio: sia perché apparteniamo a quella ristretta categoria di suburmani per i quali i principi non sono mai né meri né sublimi ma solo, una volta accertati e accettati, vincolanti e concreti, sia perché questo episodio riassume e ribadisce una caratteristica fondamentale – cioè costitutiva – dell’“affare Braibanti”. Vediamo perché.

1) Il compito di Falco era quello di esporre i motivi che sono effettivamente stati espressi e determinati in Camera di Consiglio, non già tutti quelli che avrebbero potuto motivare la condanna di Braibanti o che potrebbero motivare una condanna per plagio. Non era suo compito fornirci una requisitoria migliore di quella che dovremmo ascoltare dal dr. Lojacono. Né quello di usare violenza alla collegialità della sentenza, attribuendo al dibattito in Camera di Consiglio caratteristiche che non può avere avuto ed alla coscienza dei giurati e della Corte conoscenze, motivazioni, obiettivi, valutazioni che non gli erano appartenute.

2) Non certamente a caso la legge affida e prescrive gli stessi termini ai giudici ed all’imputato per illustrare rispettivamente i motivi della sentenza e quelli di appello (20 giorni). Ora gli avvocati Rejna e Sotgiu, e Braibanti, dovranno invece, pena il decadimento della richiesta di appello, in 20 giorni leggere, vagliare, infirmare, controbattere il volume scritto da Falco (340 pagine). Sarà (per loro!) impossibile avvalersi dell’aiuto di consulenti, di esperti: trovare il tempo per risalire alle fonti, abbondantemente citate dal magistrato; confrontare seriamente i fatti processuali e gli enunciati del documento…Ancora una volta sarà così impossibile un effettivo, adeguato, serio, uso del diritto alla difesa per il proseguirsi delle consapevoli, dolose illegalità che sono la regola del Processo a carico di Braibanti.

3) Il dr. Falco ha dichiarato che solo le pressioni della stampa lo ha costretto a depositare finalmente i motivi della sentenza (cfr. dichiarazioni al giornalista Mario Cartoni su “La Nazione”). Le “pressioni” della stampa possono essere ricondotte, a nostra conoscenza, in queste ultime settimane a tre episodi:

a) La pubblicazione di un appello a favore di Braibanti e del suo diritto ad una “giustizia” legale e non prevaricante e repressiva, firmato da un centinaio di cittadini.

b) La pubblicazione su “Men” di lettere dal carcere di Braibanti a sua madre.

c) La pubblicazione su diversi quotidiani di alcuni passi di una lettera dell’avv. Rejna a Braibanti, nella quale il difensore spiegava al suo cliente i motivi per i quali si trovava praticamente disarmato degli strumenti di difesa previsti dalla legge, ad opera del dr. Falco.

Ciò precisato, veniamo, per questo punto, all’essenziale.

Il dr. Falco, apertamente, indica non già nella necessità di rispettare finalmente la legge, ma nelle pressioni di una certa parte dell’opinione pubblica ciò che lo ha determinato a deporre i motivi della sentenza. Egli avrebbe – infatti – secondo quanto ha dichiarato, ritenuto di trovarsi ancora, sì e no, alla metà dell’opra…Non s’avvale nemmeno più, dunque, di quell’alibi che sta portando fitte schiere di magistrati ad una illegalità sistematica in tema di redazione delle motivazioni delle sentenze: il superlavoro, cioè, cui sarebbero (ed a volte effettivamente sono) costretti dalla disfunzione e dalla crisi della giustizia.

È dunque chiaro: se egli non ha rispettato la legge è perché l’argomento del plagio, le vicende di Giovanni Sanfratello (non dimentichiamolo troppo, signori giudici e magistrati, anche se sarebbe molto comodo), e di Braibanti sono “affascinanti”, di estrema importanza, si è in realtà in sede di de jure condendo, pongono in essere una delle più delicate ed urgenti situazioni tipiche della nostra società corrotta, e il “plagio” diventa sempre più necessario per inquadrare la zona in cui “lo spirito” e “le anime” vengono imbastigliate, corrotte, possedute dal demone moderno, ecc. ecc.

Quindi non è un caso – vero, dr. Falco? – di farsi impastoiare in considerazioni legalistiche e formali dinanzi a cotanto compito ed a tanta occasione! Ma che legge è allora mai questa, dr. Falco, che vale solo dinanzi alle inezie ed alle abitudini, che non afferma – come probabilmente direbbe il dr. Guarnera, la sua maestà e la sua nobiltà proprio nei momenti e nelle situazioni più gravi? Che vale solo per il debole e non per il potente?

Vien a pensare, dr. Guarnera, a quei protestanti che alcuni anni fa, a dei correligionari che si rammaricavano per certi andazzi disinvoltamente neo-ecumenici per cui a Roma preti e pastori avevano celebrato culti comuni in alcune chiese della Capitale, rispondevano: “Ma in fondo non si tratta mica di accordi organizzativi politici, ma solo di culti”…”. Solo. Alla faccia della preghiera dei credenti o del Tempio di Dio! Anche qui si tratta solo di prescrizioni legislative ed è stato detto bene chiaro che queste valgono assai meno di qualche nostro strillo o ammonimento. Ma andiamo oltre.

Prima ancora che gli avvocati di Braibanti ricevessero la notifica della deposizione della sentenza, due “fughe” consentivano a due quotidiani “indipendenti” della Capitale, “Il Messaggero” e il “Tempo”, di presentarne, essi, le caratteristiche e il valore. Roba d’ogni giorno, e apparentemente tale da dimostrare che noi giornalisti italiani sappiamo fare in certi settori il nostro mestiere meglio di quanto normalmente non si riconosca. Non si tratta di questo.

Il dr. Guarnera se l’è presa pubblicamente e fors’anche un po’ indebitamente e illecitamente (il processo è in corso, la presunzione di innocenza pure, l’intervento del procuratore generale nel momento più “solenne” dell’Anno Giudiziario che s’apre peserà sicuramente) con quegli ambienti intellettuali e giornalistici che hanno tentato di difendere Sanfratello e Braibanti dalla violenza e dal linciaggio di cui sono stati vittime. Il dr. Guarnera ci ha additati al pubblico ludibrio perché, in tal odo, avremmo eccitato le “strane” (sic) persone che assisterono al processo ad aggredire i giurati, la sera della sentenza.

È l’ora, a questo punto, di porre qualche domanda e di fare qualche altra puntualizzazione sui rapporti “affare Braibanti”-stampa.

L’opinione pubblica italiana venne informata dell’“affare Braibanti” (da una “fuga” durante l’istruttoria) in modo clamoroso e del tutto aderente alle tesi rivelatesi poi spesso false o errate, della pubblica e privata accusa. Fu scatenata una campagna e realizzato un linciaggio: “Il Tempo”, “Lo Specchio”, un giornale di Piacenza della rete confindustriale, ed un altro giornale siciliano, mostrarono di non ignorare nulla dei fatti e della situazione giudiziaria. Sorpresi, gli altri giornali tacquero.

Di che “dovere di informazione” si trattasse, quanto tale informazione fosse obiettiva, quanto “giudiziaria”, quanto preoccupata di difendere la giustizia, la legge, la morale pubblica, lo dimostra il fatto che non un rigo venne speso per segnalare (se non per denunciare) l’illegalità o almeno un’anomalia patente, scandalosa, puntuale dell’istruttoria, evidente anche per uno studente del primo anno di diritto, non giustificata da nulla, gratuita, incredibile. Per tacere della sua parzialità, dell’incredibile massacro del giovane Sanfratello, delle miserabili astuzie (anche se abituali) che portarono a mascherare perfino il nome e non solo la personalità di uno dei due “plagiati”, dell’unico che accusasse e sul quale si è fondato il castello dell’istruttoria prima e del processo e della condanna poi.

Sono cose che siamo venuti scoprendo al processo, e solo al processo. Dove ne accaddero di cose strane, dr. Falco, dr. Guarnera! Perché, per esempio, vorrete concederci di raccontare – finalmente – che venne richiesto da lei, dott. Falco, presente il dott. Lojacono, ad un difensore sospetto di essere “radicale” (anche se la sua dignità, il suo prestigio e la sua moralità erano grandi!) di sconfessare e di criticare, pubblicamente in aula, queste nostre “Notizie Radicali” ciclostilate, ree di aver attaccato senza ipocrisia e senza falsi rispetti l’istruttoria, l’istruttore e il clima del processo. Gli venne richiesto di fare questa inconsueta, superflua, umiliante dichiarazione, esplicitamente in relazione con la…non rituale “concessione” fatta alla difesa, di intervenire con quattro arringhe, anziché due, a condizione che fossero “brevi”, “essenziali”.

Olimpica serenità della giustizia, ineffabile correttezza delle procedure, uguaglianza dei cittadini e di tutti dinanzi alla legge! Chi vi ha dunque turbato? Uguaglianza in particolare – vero dr. Lojacono? Vero dr. Falco? – di “Notizie Radicali” e della stampa di estrema destra e di destra; di giornali e di giornalisti che i fatti e la verità ed i servizi hanno dovuto andarseli a cercare in giro per l’Italia, direttamente ricostruendo dalle prime e più lontane battute, ogni fase della vicenda, con giornali e giornalisti che hanno “saputo” già e subito “tutto”, grazie…già, grazie a chi, dr. Lojacono?

Basterebbe, per oggi. Ma forse per il dr. Guarnera, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma, per il Consiglio Superiore della Magistratura, non escluso il suo presidente, per l’Associazione Nazionale dei Magistrati; per il Ministro della Giustizia; per l’Ordine degli avvocati di Roma; per qualche parlamentare che annetta importanza al fatto che rappresenta quel popolo italiano in nome del quale viene ridicolizzata la giustizia, varrebbe ancora la pena di aggiungere qualcosa.

Varrebbe la pena di richiamare ancora, oltre a quanto già scritto, la loro attenzione sull’istruttoria, che ha portato al carcere e alla condanna Braibanti, e che è anticostituzionale, illegale perfino secondo il codice Rocco e qualsiasi altro codice degno di questo nome.

Un’istruttoria durata tre anni e mezzo; condotta con il rito sommario nonostante che la legge lo consenta solo nei casi in cui questa si presenti come “breve e facile”: – e si trattava invece fin dall’inizio della denuncia di un reato che praticamente non aveva avuto precedenti; mantenuta sommaria anche quando, dopo un anno, si decideva di far ricorso a tre periti per accertare elementi essenziali al giudizio; mantenuta sommaria ancora quando si doveva richiedere a costoro un ulteriore approfondimento delle loro ricerche, evidentemente non brevi né facili, riconfermata come sommaria di nuovo, quando si apprendeva che uno dei plagiati, sottoposto trattamenti annichilenti per anni, riconosciuto ormai di nuovo sano e pienamente capace di intendere e di volere negava recisamente il plagio e le presunte responsabilità del Braibanti; e quando era evidentemente necessario mascherare la vera identità del secondo plagiato per evitare che le sue caratteristiche e alcuni fatti notori apparissero e risultassero – come sono – tali da rendere in radice viziata di falso la sua denuncia e quanto meno torbida e inattendibile la sua personalità.

Un’istruttoria nella quale non un solo atto, in tre anni, venne compiuto per acquisire formalmente informazioni sul principale denunziante, mentre già dopo pochi giorni si mobilitavano le “autorità” competenti per acquisire, a carico dell’intero ambiente di Braibanti, le prove di un delitto del quale ci si dichiarava pressoché convinti… Un’istruttoria (e un processo) con aspetti da pochades, nella quale magistrati, periti, difensori, non disdegnavano di discutere convivialmente del “caso” e in cui, sulla pelle di un uomo, anzi di due uomini, si riuscivano a realizzare minuetti di cortesie fra i vari “operatori della giustizia”.

Un’istruttoria durante la quale, anzi ai suoi inizi, vi fu un ratto caratterizzato che non venne ritenuto degno – anch’esso – nemmeno di un solo atto formale, di una sola menzione, se non di un’autonoma indagine. È cosa costitutiva la credibilità smaccata, assoluta degli uni, e la presunzione immediata di colpevolezza e di indegnità degli altri, se non l’omogeneità “culturale”, “morale”, “politica” di alcuni cittadini clericali e reazionari, dalle parentele alto-ecclesiastiche, e giudiziarie, contro i cittadini di un particolare diverso, opposto mondo culturale. È un comune, istintivo disegno persecutorio catalizzante a sua volta altri interessi, altre storie, altri moventi?

Che dire, infine, se finora, in più di quattro anni, malgrado polemiche e ormai roventi confronti, non un solo intervento volto a superare e sanare anomalie, irregolarità e illegalità e a chiarire almeno aspetti poco chiari si sia avuto dalla Procura, o dal Tribunale, o dalla Procura Generale? (Ma, anzi, dobbiamo subire ulteriori aggressioni che, mi sembra, legittimerebbero da parte dei difensori di Braibanti richiesta di legittima suspicione per il processo d’appello). Perdio, dr. Guarnera, ma è davvero possibile che lei ignori tutto questo? Che lei pensi ed affermi impunemente che siano noi degli aggressori, degli scardinatori perversi e programmatici di un “ordine”, che – poi – c’è o non c’è, a seconda che di caos parlino dei Procuratori Generali o dei Presidenti della Repubblica o che di disordine costituito parlino le vittime e i “contestatari”?

Ma basta. Chi e dove sono gli aggrediti e gli aggressori’ Dove, la violenza illegale e l’offesa gratuita? Chi i sabotatori di giustizia e delle istituzioni? Dove si lotta per il “buon” diritto, si rivendica l’ordine, almeno un poco d’ordine? Chi opera plagi e ratti? Da che parte si tentano “persuasioni” più o meno occulte, suggestioni attraverso la stampa, prevaricazioni attraverso la forza? E chiaro è chi abbia, davvero, complessi di rivalsa, nostalgia o ansia di carriera; aspirazioni frustrate e frustranti alla cultura; sete mortificata di prestigio e di riconoscimenti; volontà di “convincere” ad ogni costo – pur a costo di legge ed a prezzo di reati -; cupa vocazione a rovistare con la lama dell’inquisizione e della persecuzione nelle coscienze di ciascuno; l’ossessivo e allucinato bisogno del sessuofobo e dell’impotente a parlar di sesso ed a vederlo ovunque; dell’oppressore ad evocare la “vera” libertà e dignità della persona; del costitutore di disordine a inchiodarvi chi lo contesta.

E chiaro è anche da quale parte si sia voluto fare di questa vicenda lo strumento di una contrapposizione, di una lotta politica, di affermazione e di violenza. Diciamolo pure: Braibanti è il nome dato – “maliziosamente” direbbe lei, dr. Falco – ad autobiografie, più o meno interiori, che non osano confessarsi; ai demoni interiori di questo nostro tempo, di ceti dominanti dalla cattiva e spaurita coscienza; d’una società medusata dalla follia, dalla violenza, dalla perversione che essa stessa produce e diffonde; ed è anche il nome, per noi, d’una inevitabile e forse impareggiabile occasione di verità e di lotta perché ci mostra che non abbiamo bisogno né possibilità di ricorso a belletti e orpelli e ci sollecita e costringe ad assumerci le responsabilità di quel che siamo.

Avremmo preferito – ricorreremo anche noi alle nostre citazioni – “lasciare i morti seppellire i morti”. Non hanno voluto. Hanno creduto di trovare salvezza dando corpo alle loro ossessioni. Continuano a farlo, altri si aggiungono. Speravano di decapitare o bruciare con Braibanti, uno dei loro volti: cui invece non era riducibile quello che celavano e che noi stessi ora meglio conosciamo; non erano che degli apprendisti stregoni ed ora raccoglieranno, più violenta, la tempesta del nuovo e del giusto. Nemmeno varranno la loro legge, la loro giustizia, il loro ordine, perché anch’essi appartengono a noi ed anche ad essi noi apparteniamo. Consapevoli e spaventati non hanno avuto altro che il ricorso alla truffa, alla violenza, al reato. Non sono “errori”, questi, né “degenerazioni” del sistema di potere, ma l’obbligata, unica sua via di affermazione e di difesa.

Sì, dr. Guarnera, in quanti vi siete occupati del caso Braibanti, mi bastano Silvio e Bertrando Spaventa, Cesare Beccaria e Zanardelli per “contestarvi” globalmente.

Sì, avrebbe ragione il magistrato milanese Petrella, che è imputato dai suoi colleghi di casta di aver dichiarato che, se necessario, bisogna porre termine a questo stato di cose della “giustizia” italiana anche con la “violenza”. Avremmo il diritto ed il dovere, in tal caso, di usarla e a vostra misura.

Ma la violenza vi caratterizza e vi appartiene. È ormai solo vostra; vostro principio; vostra fine, ve la lasciamo. Uomini davvero liberi non ne hanno bisogno, né qui, né ora (Braibanti diceva anche questo e- dove ch’egli sia ora e siate invece voi – aveva ragione).

(da “Notizie Radicali” 15 gennaio 1969)     

Vi racconto che cosa fu il “caso” Braibanti

Vi racconto che cosa fu il “caso” Braibanti

di Giuseppe Loteta

È bene ricordare come e perché l’8 giugno del 1981 la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità del reato di plagio, cancellandolo dal nostro ordinamento legislativo. La sentenza della Corte è strettamente legata a due processi.

Il primo si svolge nel 1968. Sul banco degli imputati siede un intellettuale, Aldo Braibanti, accusato, appunto, di plagio. Il secondo (1972), nel tribunale dell’Aquila, nei confronti di Marco Pannella, Mario Signorino e di chi scrive: accusati di calunnia e diffamazione per avere attaccato con i loro articoli l’andamento e la sentenza del processo Braibanti.

Tutto inizia nella primavera del 1968, quando Pannella si affaccia sulla soglia di un’aula del tribunale di Roma, il cosiddetto “palazzaccio”. Ha l’impressione di assistere a un processo della santa inquisizione. L’imputato è un uomo piccolo di circa quarant’anni, con la barbetta nera e lo sguardo penetrante. Sembra rassegnato, o meglio estraneo all’ambiente che lo circonda. Sul suo capo pende un’accusa scovata tra le pagine meno esplorate del codice penale, nell’articolo 603, che viene dopo quello dedicato al commercio degli schiavi. Un articolo che transitato tranquillamente dal codice Rocco, di fascista memoria, a quello repubblicano, e che colpisce duramente il reato di plagio. Non ci sono precedenti, tranne il processo, intentato mesi prima contro l’attore Maurizio Arena per la sua storia d’amore con Maria Beatrice di Savoia, ma si era concluso con un’assoluzione. Braibanti, invece, sarà il primo imputato (e per fortuna anche l’ultimo) ad essere condannato in un tribunale della Repubblica italiana per il reato di plagio. Neanche il fascismo, per la verità, l’aveva utilizzato troppo. Negli anni ‘30 gli unici condannati per gli articoli 602 e 603 del codice penale erano stati i “mercanti” che imbarcavano gli schiavi a Massaua e li sbarcavano sulla costa araba.

Ma chi è Aldo Braibanti? È un intellettuale “disorganico”, di tendenza anarchica e dagli interessi più disparati, dalla poesia alla saggistica, dalla pittura al teatro, dalla lavorazione delle ceramiche allo studio della vita e dell’organizzazione sociale delle formiche. E, soprattutto, è un omosessuale. È proprio questa propensione sessuale che gran parte della società di allora, pienamente rappresentata dal tribunale romano, gli rimprovera. Inutilmente, il professor Leopoldo Piccardi, che difende l’imputato insieme con l’avvocato Ivo Reina, ricorda alla corte che l’ultimo processo celebrato in Europa per omosessualità era stato quello ad Oscar Wilde, nell’Inghilterra vittoriana. Il “piccolo e stortignaccolo Braibanti”, come lo definisce l’avvocato Taddei di parte civile, è condannato a nove anni di reclusione.

Naturalmente, l’omosessualità, la “diversità”, non potevano essere contestate come reati. Braibanti è accusato di avere plagiato uno dei due giovani con cui vive e con cui ha un rapporto omosessuale. Sono i familiari di questo giovane a dar vita al processo. Sequestrano il ragazzo con la forza, lo rinchiudono in manicomio e denunciano il presunto plagiatore. Malgrado i quaranta elettroshock ai quali è sottoposto, il presunto plagiato dichiara sempre, tutte le volte che viene interrogato durante il processo, di avere scelto liberamente il suo rapporto con Braibanti. Non è creduto. Il vero artefice del processo, soprattutto nella sua fase istruttoria, è il pubblico ministero Antonino Loiacono. Per tre anni e mezzo raccoglie pazientemente fatti e testimonianze, inseguendo una sua ricostruzione della personalità di Braibanti, da calzare poi sul reato di plagio. Mantiene sempre l’istruttoria sommaria, senza mai formalizzarla per tutto quel periodo. La sua arringa è memorabile, un atto d’accusa contro la diversità e l’omosessualità. L’imputato è preda di “pervertimento demoniacoI negri, sono una razza che te la raccomando… Chiedo una pena esemplare, affinché nessun professoruncolo possa venire a togliere domani la libertà a un innocente”. Ma a questo punto la mobilitazione degli intellettuali e dei giornali più progressisti diventa imponente. Pannella apre la strada, facendo fuoco e fiamme su “Notizie radicali”. Io scrivo diversi articoli su “l’Astrolabio”. E alla fine entrano in lizza Umberto Eco, Alberto Moravia, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Piergiorgio e Marco Bellocchio, Cesare Zavattini, Vittorio Gassman. Dacia Maraini descrive in un racconto un pubblico ministero che si eccita sessualmente mentre lancia le sue accuse e che al culmine della requisitoria raggiunge l’orgasmo.

Serve a qualcosa tutto questo? No. Si spera nel presidente della Corte d’assise giudicante, Orlando Falco, che si sa più moderato di Loiacono. Ma le speranze sono mal riposte. Braibanti è condannato a ben nove anni di reclusione. Quando, dopo cinque mesi, sono rese pubbliche le motivazioni della sentenza, c’è da trasecolare. Arrivarono 340 roboanti cartelle nelle quali si scomodano Freud, Bernheim, Musatti, Janet, Morgue, Marcuse, Vasilev, Cesare, don Giovanni, Napoleone, Socrate, Alcibiade e perfino il diavolo, nel tentativo di dimostrare che Braibanti ha sottoposto al proprio potere i due giovani discepoli. Per Falco, Braibanti è “un diabolico, raffinato seduttore di spiriti, affetto da omosessualità intellettuale”.

In Corte d’Appello non cambia molto. Qualche aggiustamento, certo, anche significativo, perché è difficile che i giudici del secondo grado non tengano in considerazione l’eco che la vicenda Braibanti ha suscitato nel paese. La pena è ridotta a quattro anni per “meriti resistenziali”, perché il “diabolico professore” era stato anche partigiano nelle formazioni di “Giustizia e libertà”, arrestato e torturato dai seviziatori della famosa “banda Carità”. Ma l’impianto accusatorio è pienamente confermato. L’avvocato Sotgiu, che ha sostituito il professor Piccardi nel collegio di difesa, conclude così la sua arringa, rivolto all’imputato: “Questa”, gli dice, “è per te un’ora buia, come era quella in cui subivi le torture degli aguzzini fascisti. Ma, ora come allora, devi dar vita alla fiducia e alla speranza. Verranno anche adesso giustizia e libertà”. Non vengono né l’una, né l’altra.

Tra il primo e il secondo grado del processo, Pannella ed io veniamo denunciati dal dottor Loiacono per diffamazione a mezzo stampa e calunnia. Gli articoli di “Notizie Radicali” e dell’“Astrolabio” non gli sono andati giù. Il presidente Falco no, non denuncia, non querela. Proprio in quei giorni è stato incaricato di dirigere la Corte che giudicherà Pietro Valpreda, un altro anarchico, per la strage di piazza Fontana. Pensa che per il momento stare zitto sia la cosa migliore. Il processo contro di noi, e contro Mario Signorino, direttore responsabile de “l’Astrolabio”, si svolge all’Aquila nei primi mesi del 1972. È come riaprire il caso Braibanti. I giornali ne parlano. Riemerge tutta la vicenda del “diabolico professore”. Si sostiene da più parti con decisione la necessità di eliminare dal codice penale il reato di plagio. Non mancano un’udienza Dacia Maraini e Vittorio Gassman, quest’ultimo ambita preda dei fotografi.

Ferruccio Parri viene a testimoniare in mio favore, malgrado i suoi 82 anni. “Sono venuto qui”, dice, “per assumermi la mia responsabilità morale di direttore de “l’Astrolabio” e rivendicare la mia piena solidarietà col giudizio che Loteta ha dato sul processo Braibanti. E quindi la mia piena punibilità a pari titolo”. Naturalmente, non è incriminato. A noi, invece, caduto il reato di calunnia che non c’entrava proprio per niente, danno nove mesi di reclusione, confermati in appello e poi annullati in Cassazione.

Conclusione: l’8 giugno del 1981 la Corte Costituzionale cancella dal diritto penale il reato di plagio. Nel codice Rocco, e, altrettanto, in quello della Repubblica italiana, erano previsti da 5 a 15 anni di reclusione per chiunque sottoponesse “una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione”. I magistrati della Consulta rilevarono “l’imprecisione e l’indeterminatezza della norma, l’impossibilità di attribuire ad essa in contenuto oggettivo, coerente e razionale”. Giustamente, concludono, “essa è stata paragonata ad una mina vagante nel nostro ordinamento”. Una mina che non esploderà più.

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