di Liliana Segre
La XIX legislatura è stata aperta con l’intervento della senatrice a vita Liliana Segre, presidente provvisorio ai sensi dell’articolo 2, comma 1, del Regolamento. Ci piace qui proporre il testo di un discorso su cui tutti hanno il dovere di riflettere).
Buongiorno a tutti, colleghe senatrici e colleghi senatori. Rivolgo il più caloroso saluto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a quest’Assemblea. Con rispetto, rivolgo un pensiero a Papa Francesco.
Certa di interpretare i sentimenti di tutta l’Assemblea, desidero indirizzare al presidente emerito Giorgio Napolitano, che non ha potuto presiedere la seduta odierna, i più fervidi auguri, con la speranza di vederlo ritornare presto ristabilito in Senato. Il presidente Napolitano mi incarica di condividere con voi queste sue parole: «Desidero esprimere a tutte le senatrici e i senatori di vecchia e nuova nomina i migliori auguri di buon lavoro al servizio esclusivo del nostro Paese e dell’istituzione parlamentare, ai quali ho dedicato larga parte della mia vita».
Anch’io, ovviamente, rivolgo un saluto particolarmente caloroso a tutte le nuove colleghe e a tutti i nuovi colleghi, che immagino sopraffatti dal pensiero della responsabilità che li attende e dall’austera solennità di quest’Aula, così come fu per me quando vi entrai per la prima volta in punta di piedi. Come da consuetudine, vorrei però anche esprimere alcune brevi considerazioni personali.
Incombe su tutti noi, in queste settimane, l’atmosfera agghiacciante della guerra tornata nella nostra Europa, vicino a noi, con tutto il suo carico di morte, distruzione, crudeltà, terrore, in una follia senza fine. Mi unisco alle parole puntuali del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «La pace è urgente e necessaria. La via per ricostruirla passa da un ristabilimento della verità, del diritto internazionale, della libertà del popolo ucraino».
Oggi sono particolarmente emozionata di fronte al ruolo che in questa giornata la sorte mi riserva. In questo mese di ottobre, nel quale cade il centenario della marcia su Roma, che dette inizio alla dittatura fascista, tocca proprio a me assumere momentaneamente la Presidenza di questo tempio della democrazia che è il Senato della Repubblica. Il valore simbolico di questa circostanza casuale si amplifica nella mia mente, perché – vedete – ai miei tempi la scuola iniziava in ottobre ed è impossibile, per me, non provare una specie di vertigine ricordando che quella stessa bambina che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco della scuola elementare e oggi si trova, per uno strano destino, addirittura sul banco più prestigioso del Senato.
Il Senato della XIX legislatura è un’istituzione profondamente rinnovata non solo negli equilibri politici e nelle persone degli eletti, non solo perché per la prima volta hanno potuto votare anche per questa Camera i giovani dai diciotto ai venticinque anni, ma anche e soprattutto perché per la prima volta gli eletti sono ridotti a duecento.
L’appartenenza a un così rarefatto consesso non può che accrescere in tutti noi la consapevolezza che il Paese ci guarda, che grandi sono le nostre responsabilità, ma al tempo stesso grandi le opportunità di dare l’esempio. Dare l’esempio non vuol dire solo fare il nostro semplice dovere, cioè adempiere al nostro ufficio con disciplina e onore, impegnarsi per servire le istituzioni e non per servirsi di esse. Potremmo anche concederci il piacere di lasciare fuori da questa Assemblea la politica urlata, che tanto ha contribuito a far crescere la disaffezione dal voto, interpretando invece una politica alta e nobile che, senza nulla togliere alla fermezza dei diversi convincimenti, dia prova di rispetto per gli avversari, si apra sinceramente all’ascolto, si esprima con gentilezza, perfino con mitezza.
Le elezioni del 25 settembre hanno visto – come è giusto che sia – una vivace competizione tra i diversi schieramenti che hanno presentato al Paese programmi alternativi e visioni spesso contrapposte. Il popolo ha deciso: è l’essenza della democrazia. La maggioranza uscita dalle urne ha il diritto-dovere di governare; le minoranze hanno il compito altrettanto fondamentale di fare opposizione. Comune a tutti deve essere l’imperativo di preservare le istituzioni della Repubblica, che sono di tutti, che non sono proprietà di nessuno, che devono operare nell’interesse del Paese e devono garantire tutte le parti.
Le grandi democrazie mature dimostrano di essere tali se, al di sopra delle divisioni partitiche e dell’esercizio dei diversi ruoli, sanno ritrovarsi unite in un nucleo essenziale di valori condivisi, di istituzioni rispettate, di emblemi riconosciuti.
In Italia il principale ancoraggio attorno al quale deve manifestarsi l’unità del nostro popolo è la Costituzione repubblicana che – come dice Piero Calamandrei – non è un pezzo di carta, ma il testamento di 100.000 morti caduti nella lunga lotta per la libertà; una lotta che non inizia nel settembre del 1943, ma che vede idealmente come capofila Giacomo Matteotti.
Il popolo italiano ha sempre dimostrato grande attaccamento alla sua Costituzione, l’ha sempre sentita amica. In ogni occasione in cui sono stati interpellati, i cittadini hanno sempre scelto di difenderla, perché da essa si sono sentiti difesi. Anche quando il Parlamento non ha saputo rispondere alla richiesta di intervenire su normative non conformi ai principi costituzionali – e purtroppo questo è accaduto spesso – la nostra Carta fondamentale ha consentito comunque alla Corte costituzionale e alla magistratura di svolgere un prezioso lavoro di applicazione giurisprudenziale, facendo sempre evolvere il diritto.
Naturalmente anche la Costituzione è perfettibile e può essere emendata, come essa stessa prevede all’articolo 138. Ma consentitemi di osservare che, se le energie che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione, peraltro con risultati modesti, talora peggiorativi, fossero state invece impiegate per attuarla, il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice.
Il pensiero corre inevitabilmente all’articolo 3, nel quale i Padri e le Madri costituenti non si accontentarono di bandire quelle discriminazioni basate su sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, che erano state l’essenza dell’ancien régime. Essi vollero anche lasciare un compito perpetuo alla Repubblica: «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Non è poesia e non è utopia. È la stella polare che dovrebbe guidarci tutti, anche se abbiamo programmi diversi per seguirla: rimuovere gli ostacoli.
Le grandi Nazioni, poi, dimostrano di essere tali anche riconoscendosi coralmente nelle festività civili, ritrovandosi affratellate attorno alle ricorrenze scolpite nel grande libro della storia patria. Perché non dovrebbe essere così per il popolo italiano? Perché mai dovrebbero essere vissute come date divisive, anziché con autentico spirito repubblicano, il 25 aprile, festa della liberazione, il 1 maggio, festa del lavoro, il 2 giugno, festa della Repubblica? Anche su questo tema della piena condivisione delle feste nazionali, delle date che scandiscono un patto tra le generazioni, tra memoria e futuro, grande potrebbe essere il valore dell’esempio, di gesti nuovi e magari inattesi.
Altro terreno sul quale è auspicabile il superamento degli steccati e l’assunzione di una comune responsabilità è quello della lotta contro la diffusione del linguaggio dell’odio, contro l’imbarbarimento del dibattito pubblico e contro la violenza dei pregiudizi e delle discriminazioni.
Permettetemi di ricordare un precedente virtuoso della passata legislatura, i lavori della Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo, istigazione all’odio e alla violenza; questi lavori si sono conclusi con l’approvazione all’unanimità di un documento di indirizzo, segno di una consapevolezza e di una volontà trasversali agli schieramenti politici, che è essenziale permangano.
Concludo con due auguri. Mi auguro che la nuova legislatura veda un impegno concorde di tutti i membri di quest’Assemblea per tenere alto il prestigio del Senato, tutelare in modo sostanziale le sue prerogative e riaffermare, nei fatti e non a parole, la centralità del Parlamento. Da molto tempo vengono lamentate, da più parti, una deriva e una mortificazione del ruolo del potere legislativo, a causa dell’abuso della decretazione d’urgenza e del ricorso al voto di fiducia, e le gravi emergenze che hanno caratterizzato gli ultimi anni non potevano che aggravare la tendenza.
Nella mia ingenuità di madre di famiglia, ma anche secondo un mio fermo convincimento, credo che occorra interrompere la lunga serie di errori del passato e per questo basterebbe che la maggioranza si ricordasse degli abusi che denunciava da parte dei Governi quando era minoranza e che le minoranze si ricordassero degli eccessi che imputavano alle opposizioni quando erano loro a governare.
Una sana e leale collaborazione istituzionale, senza nulla togliere alla fisiologica distinzione dei ruoli, consentirebbe di riportare la gran parte della produzione legislativa nel suo alveo naturale, garantendo al tempo stesso tempi certi per le votazioni.
Auspico, infine, che tutto il Parlamento, con unità di intenti, sappia mettere in campo, in collaborazione col Governo, un impegno straordinario e urgentissimo per rispondere al grido di dolore che giunge da tante famiglie e da tante imprese che si dibattono sotto i colpi dell’inflazione e dell’eccezionale impennata dei costi dell’energia, che vedono un futuro nero e che temono che disuguaglianze e ingiustizie si dilatino ulteriormente, anziché ridursi.
In questo senso, avremo sempre al nostro fianco l’Unione europea, con i suoi valori e la concreta solidarietà di cui si è mostrata capace negli ultimi anni di grave crisi sanitaria e sociale. Non c’è un momento da perdere. Dalle istituzioni democratiche deve venire il segnale chiaro che nessuno verrà lasciato solo, prima che la paura e la rabbia possano raggiungere livelli di guardia e tracimare.
Senatrici e senatori, cari colleghi, buon lavoro.
di Pejman Abdolmohammadi
In Iran è in corso la più grande protesta antigovernativa dell’epoca postrivoluzionaria. Decine di migliaia di cittadini, particolarmente giovani e donne, stanno scendendo in piazza, durante le ultime quattro settimane, chiedendo la fine della Repubblica islamica, al potere in Iran a seguito della rivoluzione del 1979.
La miccia che ha fatto scatenare la protesta è stata la morte della giovane ragazza Mahsa Amini, arrestata, lo scorso 13 settembre, dalla polizia morale. Amini, dopo poche ore dall’arresto, è entrata in coma e poi ha perso la vita in ospedale per morte cerebrale. Sono bastate poche ore a far scatenare la più grande dimostrazione iraniana in segno di protesta alla morte della giovane Masha, che secondo i manifestanti e secondo evidenze dimostrate da testimoni e familiari, sarebbe stata percossa alla testa dalla polizia etica durante l’arresto, causandone così ferite letali. Tale convinzione si è fortemente radicata in una buona parte della società, nonostante le autorità neghino di aver avuto responsabilità per la sua morte.
Amini era stata fermata per aver violato, secondo la polizia etica, il codice d’abbigliamento islamico, vigente in Iran dopo la rivoluzione del 1979 che ha imposto il velo alle donne per circa quarant’anni. Il velo islamico (l’hijab), infatti, per la Repubblica islamica rappresenta un codice valoriale fondamentale. Uno stigma di obbedienza alla Repubblica islamica.
Metaforicamente parlando, il velo è per il clero sciita al potere quello che rappresentava il muro di Berlino per l’Unione Sovietica. Dovesse cadere l’obbligo del velo per le donne, la classe dirigente iraniana perderebbe completamente il suo potere simbolico. Anche per questa ragione, sull’obbligo del velo, le autorità islamiche iraniane non hanno mai fatto un passo indietro.
La morte di Amini è riuscita a catalizzare un movimento di protesta così consistente in quanto sono diversi anni che una parte degli Iraniani ha maturato un diffuso malcontento nei confronti della Repubblica islamica. Le limitazioni sociali imposte ai cittadini, le difficili condizioni economiche insieme alla carenza di libertà politiche hanno provocato un graduale, ma sempre crescente, senso di critica e di opposizione nei confronti delle autorità iraniane.
Basti pensare alle varie manifestazioni antigovernative degli ultimi anni: quelle del 1999, 2003, 2009, 2017, 2019, insieme a quelle in corso del 2022, per comprendere meglio l’incremento di questo disagio presente all’interno della società iraniana.
Si nota una unità nazionale e una compattezza in tutte le regioni iraniane, dall’Azarbaijan al Kurdistan; dal Khorasan al Sistan e Belucistan, mettendo in luce come non ci siano divisioni etniche nel paese. Allo stesso tempo, la repressione in corso è stata altrettanto forte: secondo fonti interne e agenzie all’estero, sarebbero 185 i manifestanti uccisi, tra cui 19 minorenni.
L’impatto delle proteste questa volta è stato molto ampio sia nel paese che all’estero. Sono tanti i rappresentanti del mondo della politica, dello spettacolo e dello sport che si sono schierati a fianco delle proteste. Tra questi, moltissime donne, hanno coniato un gesto insolito di ribellione e già diventato iconico per aderire ai movimenti di piazza: tagliarsi un ciuffo di capelli in segno di solidarietà. Sono già centinaia i video postati sui social media un po’ in tutto il mondo. Questo livello di appoggio internazionale non si era mai visto negli ultimi decenni. Il futuro delle proteste non è direttamente collegato alla grave situazione economica del Paese. La crisi economica non è stata provocata soltanto dalle sanzioni, ma è il frutto di corruzione e di incapacità di gestione delle dinamiche di sviluppo del paese. Quello che chiedono le nuove generazioni è un sistema trasparente, efficiente e accountable.
Il cambio generazionale sta rappresentando un fattore chiave in Iran. Circa il 73% della popolazione, su 84 milioni, ha meno di 45 anni. I giovanissimi (sotto i 25 anni) invece, principali attori di queste ultime proteste, sono i c.d. millennial iraniani che hanno preso in mano la leadership di queste ultime proteste e stanno sfidando pacificamente, ma in modo deciso, nelle strade e nelle piazze, la repubblica islamica. Le proteste, infatti, si sono estese in modo esponenziale in tutto il territorio nazionale, coinvolgendo numerose piccole e grandi città iraniane: non solo nei centri urbani, ma anche nelle zone rurali del paese.
I protagonisti di queste proteste sono le nuove generazioni, soprattutto le giovani studentesse. Ciò non significa che ci sia una caratterizzazione generazionale delle proteste a cui, col passare dei giorni, aderiscono sempre più iraniani di ogni età e fascia sociale. Il movimento di protesta non distingue tra le varie fazioni politiche presenti all’interno della Repubblica Islamica, chiedendo un cambiamento radicale.
Siamo dinanzi a una generazione senza ideologia, alla ricerca di libertà e di felicità. Non ha simpatie per le ideologie dello scorso secolo, né per quelle islamiche né per i movimenti di sinistra. I giovani nelle piazze chiedono la laicità dello Stato e portano con sé un’idea patriottica importante. Una generazione postrivoluzionaria, nata tra gli anni 1998 e 2008, che non ha conosciuto né l’epoca dello Shah di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, né quella dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, il fondatore della Repubblica islamica. Si tratta, da un lato, di una fascia di popolazione cresciuta e formata all’interno del sistema educativo della Repubblica Islamica, ma, dall’altro, è presente in modo significativo su internet e segue i canali satellitari in lingua persiana dall’estero. È nata, dunque, una generazione ibrida che, avendo vissuto sia il controllo sociale della Repubblica Islamica sia il pluralismo dei valori presenti nel mondo globalizzato, ha raggiunto una sintesi di pensiero sta esprimendo nelle piazze volto alla ricerca di un sistema politico libero da autoritarismi. Possiamo affermare che si tratta del movimento di protesta più moderno del ventunesimo secolo.
* Associate Professor @ School of International Studies, University of Trento. da “Affari Internazionali”.
di Maria Antonietta Farina Coscioni
1) Mi dispiace molto, causa Covid, di non aver potuto partecipare ai lavori del nostro congresso, degli iscritti italiani del Partito Radicale. Sarà l’isolamento, sarà il titolo voluto per l’appuntamento: “Amiamo speranze antiche”, ma non riesco a togliermi dalla testa l’immagine dell’anfiteatro del carcere romano di Rebibbia di sei anni fa. Lo abbiamo voluto fortemente quel congresso in una struttura carceraria, luogo evocativo della lotta politica gandhiana e nonviolenta di Marco Pannella. In quella Rebibbia dove Marco è andato tante volte. E ricordo bene quando – già non usciva più dalla sua casa in via della Panetteria – venne a trovarlo Andrea Marcenaro per un servizio poi pubblicato su “Panorama.it”, parlarono di tante cose, e naturalmente di carcere. “Con i detenuti mi capisco al volo”, confidò. È vero: con la comunità penitenziaria, con i dolenti in generale, emarginati o malati che fossero, con gli ultimi in generale, riusciva a entrare in speciale empatia. Di Marco, spesso, si è detto che la sua era anche la politica del “corpo”. Mi verrebbe da dire: “dei corpi”, di quelli percorsi in quella sua splendida e lunga prefazione datata 1974, scritta a un libro di Andrea Valcarenghi, “Underground a pugno chiuso”. Pier Paolo Pasolini ha definito quella prefazione una sorta di manifesto del radicalismo italiano. Un testo che ho letto molte volte, l’ultima prima dell’inizio del congresso: “Amo le speranze antiche, come la donna e l’uomo… Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, quando si vuole essere onesti ed essere davvero capiti…”. Attenzione: le speranze antiche, la donna e l’uomo, la parola che si ascolta e che si dice… I corpi che siamo, insomma… e in fondo si può dire, il “corpo” di tutti noi.
2) Ha resistito fino a ottant’anni nella sua casa a Osnago, in provincia di Lecco, Francesco Iantorno che si è preso cura di sua figlia disabile Rossanna di 45 anni. Stanco e senza speranze, l’anziano avrebbe somministrato una massiccia dose di farmaci alla figlia nell’appartamento dove vivevano insieme, uccidendola. Poi si è tolto la vita. Una storia d’amore e di disperazione.
3) Il “Comitato per i diritti delle persone con disabilità” delle Nazioni Unite ha individuato nell’assenza di una legge a tutela dei caregiver familiari una discriminazione che “ne pregiudica l’adeguato inserimento in un quadro normativo di tutela e assistenza”. In questo modo l’Italia viola gli obblighi internazionali assunti con la ratifica della “Convenzione sui diritti delle persone con disabilità” del 2006, recepita dal nostro Parlamento e diventata legge dello Stato.
4) La sclerosi laterale amiotrofica è una malattia complessa, rara e a oggi inguaribile. Su questa malattia sono stati pubblicati giorni fa su “The New England Journal of Medicine”, i risultati promettenti di una sperimentazione su pazienti con gene SOD1 mutato trattati con il farmaco Tofersen che ha dimostrato per la prima volta effetti biologici di rallentamento della malattia. Pensando al breve decorso di questo tipo di malattia i malati e loro familiari pongono nella ricerca scientifica e in ogni nuovo trattamento sperimentale tutte le loro speranze per migliorare le proprie condizioni di vita.
5) Conoscenza, libertà, democrazia: questo è il trinomio per tentare di spiegare “la natura della libertà”, da conquistare, difendere e nutrire ogni giorno. Che uso viene fatto, o non viene fatto, ad esempio, della conoscenza? Purtroppo occorre prendere atto che da sempre una delle forze che governano le nostre società è la menzogna: menzogna e disinformazione cosciente, consapevole, che inquina la politica, la società, la conoscenza scientifica, gli strumenti educativi e la produzione culturale. In sostanza, una minaccia concreta e reale per la e le democrazie. Qui è la natura della libertà, che dobbiamo riuscire a far convivere con una pratica benefica e ristoratrice: quella del dubbio.
6) “È dall’ironia che comincia la libertà” suggerisce Victor Hugo. In effetti sotto le dittature, non importa di quale colore, ridere è pressoché vietato. La risata, lo sberleffo, la presa in giro è un qualcosa di intrinsecamente insito con la democrazia. Si può sostenere che ci sono almeno germi di democrazia laddove ci sono artisti comici, giornali e riviste satiriche; dove si può ridere dei potenti e dei governanti senza per questo finire in carcere o peggio, fare la fine dei giornalisti di “Charlie Hebdo”.
7) Conoscenza, libertà, democrazia. Questo è il trinomio per tentare di spiegare “la natura della libertà”. Da conquistare, difendere, nutrire ogni giorno, ogni ora. Che uso viene fatto, o non viene fatto, ad esempio, della conoscenza? Purtroppo occorre prendere atto che da sempre una delle forze che governano le nostre società è la menzogna: menzogna e disinformazione cosciente, consapevole, abilmente architettata e posta in essere. Il rischio è grave, il pericolo reale: la menzogna infetta e inquina la politica, la società, i mezzi di informazione, la conoscenza scientifica, gli strumenti educativi e formativi, la produzione culturale. Menzogna; negazione della conoscenza; minaccia concreta e reale per la e le democrazie. Qui è la natura della libertà, che dobbiamo riuscire a far convivere con una pratica benefica e ristoratrice: quella del dubbio.
di Salvatore Sechi
L’inizio del governo di Giorgia Meloni non poteva essere peggiore. Emana un potente aroma da destra reazionaria. Sarebbe questo fritto misto clerico-fascista il capolavoro, l’alto profilo europeo che la capofila dei Fratelli d’Italia aveva in serbo? Non prendiamoci in giro. Le immagini della cianfrusaglia mussoliniana che adornano come in un museo la casa di Ignazio La Russa (eletto presidente del Senato) e i brani dei discorsi in cui Lorenzo Fontana (eletto presidente della Camera) esalta il suo culto cattolicissimo della famiglia e del dispotismo putiniano riflettono solo la miseria delle loro idolatrie. Più che spaventare sollevano una grande tristezza.
La prima: i vertici delle istituzioni repubblicane sono finiti nelle mani di chi ama ispirarsi culturalmente e politicamente a quanti dal Risorgimento al ventennio fascista furono un ostacolo potente alla formazione dell’Italia liberale e democratica. Con le armi in mano, e col ricorso allo straniero (francese e tedesco) si schierarono a sostegno degli interessi del papato prima e delle truppe hitleriane successivamente.
I gesti (come l’abbraccio spudorato di La Russa ad una martire anti-fascista sopravvissuta all’antisemitismo come Liliana Segre) e le dichiarazioni a favore dei valori costituzionali da parte di entrambi i neo-eletti vanno presi per quel che sono, cioè un omaggio alla retorica per la grazia ricevuta.
Se, invece, si tratta non tanto di una ripulsa quanto, almeno, di un pentimento per una giovanile infatuazione all’estremismo catto-leghista, lo vedremo nei comportamenti futuri di La Russa e Fontana. Al pari dei comandanti delle forze armate e di polizia sono tenuti a rispettare rigorosamente gli obblighi istituzionali prescritti dalla carta costituzionale. Non si tratta di mitizzarla, ma solo di ricordare che ha un’origine e un carattere poco ambiguo. È intinta di sangue partigiano e si basa sugli avanzati equilibri intercorsi tra i partiti antifascisti.
Anche Meloni dovrà farci capire come riesca a mettere insieme la fedeltà alle nostre istituzioni con le crociere e le primavere ideologiche che si concede spostandosi dall’Ungheria di Viktor Orban ai convegni della Vox spagnola. Può esimersi dal farlo solo se pensa, come molti, che il suo percorso politico al governo sarà breve. Non per la forza dell’opposizione (che purtroppo non si vede), ma per lo spettacolo da fiera, la libidine di potere che con l’arraffa arraffa sui ministeri stanno dando i suoi alleati.
La seconda tristezza: l’insuccesso elettorale della sinistra era annunciata. Che essa potesse corrispondere ad un deriva politico-culturale di quanto dall’aprile 1945 ad oggi, tra turbolenze di ogni genere, era stato creato di meno, non era prevedibile. Chiamiamola col suo nome: sconfitta dell’antifascismo.
Con questo disastroso esito elettorale, e le divisioni che l’hanno anticipato, la sinistra nell’immediato futuro dovrà essere sostituita da altri movimenti e parti ti. E da una diversa leadership. La misura della drammaticità della situazione si può misurare da un dato preciso. Dalla Resistenza ad oggi, governi, capi dello stato, organi come la Corte costituzionale, università e scuole non sono stati in grado di sgombrare il terreno dell’eredità fascista. Lo squadrismo l’abbiamo visto all’opera anche l’anno scorso nell’aggressione alla sede romana della Cgil.
In sintesi, né i partiti di ispirazione cattolica né quelli di ispirazione socialista e comunista che si sono avvicendati al governo sono stati in grado di riformare, modificare radicalmente le idee e solo in parte gli obiettivi revanscisti del clerico-fascismo oggi trionfante fino al punto di essere alla testa delle istituzioni repubblicane.
Non sono mai state sciolte, se non di facciata, le organizzazioni che ad esso fanno riferimento. Ma soprattutto è mancata un’educazione democratica, la formazione di una nuova coscienza civile nelle file delle nuove generazioni.
Detto diversamente, Fratelli d’Italia e la Lega di Matteo Salvini non fanno paura perché dopo lunghe stagioni all’opposizione sono diventati legittimamente organi di governo, ma perché il loro mastice politico-culturale è illiberale. Le intimidazioni, le minacce con cui Salvini (e lo stesso padrone delle ferriere Silvio Berlusconi) hanno cercato di imporre i ministeri da assumere e i nominativi dei ministri alla premier candidata Meloni, ne sono una testimonianza realistica e inquietante.
A vincere il primo round della nuova stagione del centro-destra non è stata la Meloni, ma il peggio della cultura e della politica leghista dopo Cattaneo e Gianfranco Miglio, cioè uno scialacquatore del consenso elettorale come Salvini. Sul punto non avrebbe alcun senso sollevare il vecchio, trito dibattito su fascismo e antifascismo. La coalizione (meramente elettorale e a carattere spartitorio) del centro-destra ha vinto le elezioni. Dunque non c’è nulla che possa, o debba, impedirne l’accesso e l’esercizio del potere.
Sappiamo che, salvo eccezioni (come Guido Crosetto, Carlo Nordio, Antonio Tajani, ecc) è formata da personaggi che sono mille miglia lontani dal liberalismo e dall’europeismo, cioè dal la cultura laica e liberale della nostra costituzione. Peggio ancora, come nel caso macroscopico dei leghisti come Lorenzo Fontana, del suo maestro e donno Salvini, di concerto con Berlusconi, sono i principali fans di uno come Putin.
Il dispotismo russo nel nostro continente incarna il terrorismo e la criminalità politica. Pertanto, dalla Meloni si esigono non più tartufesche prese di distanza, ma atti clamorosi e coerenti di rottura con Mosca. Se i valori appena accennati dell’indotto politico di Fratelli d’Italia dovessero diventare politica, affare di governo, dobbiamo sapere che saremmo ad un punto critico della convivenza nella nostra comunità: cioè alle origini di una seconda guerra civile.
Fortunatamente Fratelli d’Italia, la stessa Forza Italia e la Lega hanno sottoscritto un programma di governo che non riecheggia l’avventurismo tragicomico delle loro ideologie. Va detto subito che anche questa distanza non è, però, una garanzia di buongoverno, proprio no. La cartina di tornasole, per fare un esempio, saranno le decisioni che si intendono prendere sull’Alitalia. Dobbiamo continuare a spendere un milione di euro al giorno per conservarne la proprietà italiana? Oppure siamo disposti a venderla al migliore offerente, anche straniero, pur di garantire agli italiani sicurezza e regolarità dei voli?
È solo un esempio, ma il problema è molto più esteso. Nel momento in cui si rateizzano gli importi e i tempi per il pagamento delle tasse e si chiedono la fatturazioni per compensare i costi di bollette del gas, dell’energia ecc., la domanda è una sola: si intende utilizzare questa documentazione per un’azione preventiva di controllo della regolarità fiscale dei cittadini? Oppure si intende imitare il comportamento dell’attuale sindaco di Roma, Roberto Gualtieri? Durante il Covid, da ministro, non pensò di servirsi della fatturazione delle imprese assistite per creare una banca-dati nominativa al fine di potere avviare un’azione di rigorosa giustizia tributaria. È il tema di una grande iniziativa di governo. A farlo proprio e per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana portarlo a compimento sarà una coalizione (già ora in mille frantumi) di centro-destra?