di Giorgio Parisi
Quella che segue è la lectio magistralis del premio Nobel 2021 per la fisica Giorgio Parisi in occasione dei cinquant’anni dell’Università della Calabria.
Stiamo affrontando un periodo di pessimismo sul futuro, originato da crisi di diversa natura: crisi economica, riscaldamento globale, esaurimento delle risorse e inquinamento. In molti Paesi, sono in aumento anche le disuguaglianze, l’insicurezza, la disoccupazione e la guerra. Mentre un tempo si pensava che il futuro sarebbe stato inevitabilmente migliore del presente, la fede nel progresso, nelle magnifiche sorti e progressive degli esseri umani, si è erosa: molti temono che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali. E così come la scienza ha ricevuto il merito del progresso, ora riceve la colpa del suo declino (indipendentemente dal fatto che sia reale o solo percepito). La scienza è talvolta considerata un cattivo maestro che ci ha portato nella direzione sbagliata, e cambiare questa percezione non è facile. C’è una grande insoddisfazione nei confronti di tutti coloro che ci hanno condotto in questa situazione e gli scienziati non sfuggono ai rimproveri.
La scienza a volte è considerata un cattivo insegnante che ci porta nella direzione sbagliata. Il cambiamento di questa percezione non è facile. Non dobbiamo dare per scontato che lo sviluppo della scienza sia inarrestabile: è un errore pensare che lo sviluppo tecnologico possa sempre contare sullo sviluppo scientifico. I Romani conservarono la tecnologia greca senza molta considerazione per la scienza greca. Ci sono alcune conseguenze pratiche della scienza che sono molto importanti. La scienza sta facendo grandi progressi e molti dei problemi del mondo potrebbero essere risolti utilizzando gli strumenti della scienza messi a nostra disposizione.
In questi giorni, l’umanità deve fare delle scelte essenziali; deve contrastare il cambiamento climatico. Per decenni, la scienza ci ha avvertito che il comportamento umano stava gettando le basi per un drammatico aumento della temperatura del nostro pianeta. Ma la scienza da sola non è sufficiente. Uomo avvisato mezzo salvato, dice il proverbio, ma solo mezzo. Sono necessarie decisioni politiche, soprattutto da parte dei Paesi ricchi. Dobbiamo andare oltre il miope interesse nazionale per risolvere i problemi globali con lo spirito di “whatever it takes”. Il Covid ci ha insegnato che siamo tutti collegati e ciò che accade nei mercati o nella foresta amazzonica riguarda profondamente tutti noi.
Purtroppo, le azioni intraprese dai governi non sono state all’altezza di questa sfida e i risultati finora sono stati estremamente modesti. Ora che il cambiamento climatico sta iniziando a influenzare la vita delle persone, c’è forse una reazione più decisa, ma abbiamo bisogno di misure molto più forti. Dall’esperienza del Covid, sappiamo che non è facile adottare misure efficaci in tempo. Abbiamo visto come spesso le misure per contenere la pandemia siano state prese in ritardo, solo nel momento in cui non potevano più essere rimandate. Ricordo che un capo di governo ha detto: “Non possiamo fare un lockdown prima che gli ospedali siano pieni, i cittadini non capirebbero”.
La nostra generazione deve percorrere una strada piena di pericoli. È come guidare di notte: la scienza è rappresentata dai fari, ma poi la responsabilità di non uscire di strada è del conducente, che deve anche tenere conto del fatto che i fari hanno una portata limitata. Infatti, anche gli scienziati non sanno tutto. Si tratta di un lavoro laborioso, durante il quale le conoscenze vengono accumulate una dopo l’altra e le sacche di incertezza vengono lentamente eliminate. La scienza fa previsioni oneste sulle quali si forma lentamente un consenso scientifico. Quando l’Ipcf prevede che, in uno scenario intermedio di riduzione delle emissioni di gas serra, la temperatura potrebbe aumentare tra i 2,1 e i 3,5 gradi, questo intervallo è quello che possiamo stimare al meglio in base alle conoscenze attuali. Ci troviamo di fronte a un problema enorme che richiede interventi decisivi non solo per fermare l’emissione di gas serra, ma abbiamo anche bisogno di investimenti scientifici: dobbiamo essere in grado di sviluppare nuove tecnologie per conservare l’energia trasformandola in tibili, tecnologie non inquinanti basate su risorse rinnovabili: non solo dobbiamo salvarci dall’effetto serra, ma dobbiamo evitare di cadere nella terribile trappola dell’esaurimento delle risorse naturali. Anche il risparmio energetico è un capitolo da affrontare con decisione: ad esempio, finché la temperatura interna delle nostre case rimarrà quasi costante tra estate e inverno, sarà difficile fermare le emissioni.
Bloccare con successo il cambiamento climatico richiede uno sforzo mostruoso da parte di tutti: si tratta di un’operazione con un costo colossale, non solo finanziario ma anche sociale, con cambiamenti che influiscono sulla nostra vita. La politica deve garantire che questi costi siano accettati da tutti: coloro che hanno utilizzato più risorse devono contribuire di più, per incidere il meno possibile sulla maggior parte della popolazione; i costi devono essere distribuiti in modo giusto ed equo tra tutti i Paesi: non solo la decenza richiede che i Paesi che attualmente incidono sulle risorse del pianeta facciano gli sforzi maggiori, ma se così non accadrà, sarà politicamente impossibile contrastare il cambiamento climatico in maniera efficace.
di Kanan Mukhtar, di “Radio Zamaneh” *
Le donne curde, in prima linea nelle proteste in tutto l’Iran, hanno creato organizzazioni spontanee di resistenza nelle loro città del Kurdistan iraniano. Costruiscono barricate, dietro le quali curano i feriti; offrono da mangiare e da bere ai manifestanti e riparo e protezione a chi resta coinvolto negli scontri con la polizia.
La regione del Kurdistan, nel Nord Ovest dell’Iran, è molto attiva nella rivolta contro il regime. Praticamente tutte le città e i villaggi hanno preso parte alla mobilitazione. Secondo molti testimoni, in questa zona il governo ha usato armi da guerra per sopprimere le manifestazioni. Le immagini provenienti da Mahabad, Piranshahr, Bukan e Javanrud sembrano confermare l’uso di fucili d’assalto e kalashnikov contro i manifestanti (almeno 42 persone sono state uccise nella regione dal 15 novembre). Nonostante la repressione, in Kurdistan la resistenza continua, portata avanti da donne e uomini di tutte le età e le classi sociali.
Nella città di Mahabad sono scoppiati molti incendi. Le proteste riguardano soprattutto i quartieri del centro, dove i manifestanti, con il volto coperto ma disarmati, costruiscono barricate di pietra e argilla. Dietro una barricata, una donna offre pane e formaggio ai manifestanti. A casa sua quattro o cinque donne cucinano e preparano le confezioni da distribuire. Una di loro dice: “Ho due figli. Ora sono in mezzo alla folla con il padre. La maggior parte dei miei parenti partecipa alle manifestazioni. La Repubblica islamica non ha pietà per il Kurdistan. Siamo oppressi dall’inizio della rivoluzione del 1979. A quei tempi Mahabad era un bagno di sangue. Come molti curdi, anche mio padre fu ucciso. Mia madre non ha mai smesso di lottare e ci ha insegnato a non avere paura e a non arrenderci mai. Ora è il momento di mettere in pratica i suoi insegnamenti. Le forze della Repubblica islamica sono tornate, e vogliono massacrare di nuovo i curdi”. Un’altra donna racconta che lei stessa esorta i figli a manifestare: “Ormai non cambia nulla se restano a casa, la possibilità che i Guardiani della rivoluzione li uccidano è comunque alta. Sono preoccupatissima, ma non c’è altro da fare, non possiamo starcene con le mani in mano”.
Il livello della resistenza è sempre più alto. Gli abitanti si organizzano per soccorrere i manifestanti feriti. Che non possono ricevere medicine e cure adeguate. Una ragazza ferita racconta: “Mia madre conosce la medicina e i rimedi tradizionali, li ha imparati da suo padre. Sa rimettere a posto le ossa, estrarre i proiettili, fermare un’emorragia e mettere i punti. Noi non possiamo andare in ospedale, perché lì dovremmo dare troppe informazioni e rischiamo di essere arrestati. Ora anch’io sto imparando le tecniche di pronto soccorso, per rendermi utile”.
I mezzi di informazione del governo accusano i partiti politici curdi di alimentare le proteste, di usare le armi e promuovere il separatismo. I partiti curdi hanno invitato le persone a protestare pacificamente, nonostante i missili dell’esercito iraniano abbiano colpito le loro sedi nella regione del Kurdistan iracheno. Una manifestante conferma: “Non abbiamo armi e non intendiamo usarle. Le nostre ‘armi pesanti’ sono pezzi di legno e sassi che usiamo per difenderci, non per attaccare”. Negli ultimi quarant’anni il regime di Teheran ha accusato sistematicamente il Kurdistan iraniano di separatismo.
Un’altra donna di Bukan spiega la resistenza curda: “Non c’è differenza tra uomo e donna, lottiamo fianco a fianco. Questa rivoluzione vuole far sparire tutte le discriminazioni”. Molti giovani non tornano a casa perché hanno paura di essere seguiti e indentificati, per questo sono stati organizzati dei rifugi. “Io non torno a casa da cinque giorni”, conferma la donna di Bukan. “Le forze dell’ordine si sono messe in contatto con mio padre e hanno minacciato di arrestarmi. Prima, però, devono trovarmi”.
La donna spiega che è molto difficile procurarsi i medicinali per curare i feriti: “Per fortuna un paio di farmacie ci riforniscono di nascosto, ma alcuni prodotti proprio non si trovano. Abbiamo un problema soprattutto con le trasfusioni quando qualcuno perde sangue non sappiamo come fare”. Ma le donne del Kurdistan continuano a lottare. Il loro motto è “Berxudan jiane”, la resistenza è vita.
* “Radio Zamaneh” è una piattaforma indipendente in lingua persiana con sede ad Amsterdam, in Olanda. Dal 2006 pubblica analisi, reportage e commenti a sostegno dei diritti umani e della società civile iraniana.
di Maria Antonietta Farina Coscioni
Anni fa partecipai, invitata a parlare, all’evento “Josè Saramago. Un ritratto appassionato” con la presentazione del libro di Baptista Bastos per L’Asino d’oro edizioni. Ebbi cosi l’occasione e la possibilità di discutere non tanto dei meriti artistici dello scrittore, quanto dell’uomo Saramago che avevo avuto occasione di conoscere anni prima seduta accanto alla moglie, Pilar del Rio.
La notizia della mia partecipazione fece sì di ricevere della corrispondenza. Tre lettere in particolare di cui non rivelai l’identità ma solo che chi mi scriveva erano un docente universitario, un avvocato, una persona che ha fatto molto per la conquista di nuovi diritti civili e per combattere pregiudizi e luoghi comuni.
Il docente universitario: “Gentile (e confusa) Signora, ma Lei ha mai letto gli scritti di Saramago sulla democrazia liberale? E le sue sbrodolate contro l’Occidente? O per voi, “liberali/liberisti/libertari” tutto fa brodo, basta che qualcuno “protesti” contro “qualcosa”? “Chiare e distinte”, come pretendeva Cartesio, non sono mai state le idee degli italiani ma anche il regno del caos (mentale) dovrebbe avere i suoi confini”.
La seconda lettera: “Cara Maria Antonietta, Saramago era anche un bel pezzo di antisemita con argomenti così rozzi da minare la sua qualità di intellettuale”.
Infine la terza: “Saramago ha paragonato Israele al Terzo Reich, ha accusato gli israeliani di essere uguali ai nazisti, sono esterrefatto di vedere questi apparentamenti tra il Partito Radicale e gente simile”.
Cosa rispondere a queste tre contestazioni? Anni fa chiesero a Leonardo Sciascia come poteva stare a fianco di Marco Pannella e dei radicali, che dialogavano con un filosofo come Armando Plebe, passato dalla rigida ortodossia comunista al Movimento Sociale Italiano; e con un parlamentare della destra democristiana come Massimo De Carolis. Sciascia diede una risposta, nella sua semplicità, esemplare: “Non credo ci sia ambiguità nel Partito radicale. Credo che i radicali vogliano parlare con tutti. È giusto parlare con tutti. Io penso che Pannella intenda la democrazia nel senso pieno, totale, della parola: parlare con tutti”. Non nego che nel corso della sua vita Saramago abbia assunto – come tanti – posizioni discutibili e che è giusto discutere; che abbia coltivato opinioni contestabili, non condivisibili. Certamente i suoi giudizi su Israele sono stati aspri, li ritengo profondamente ingiusti; tardivamente ha condannato la dittatura castrista a Cuba.
Ma Saramago non è stato solo questo. Parlo per diretta e personale esperienza. Voglio ricordare l’impegno e il sostegno di Saramago alla battaglia di Luca Coscioni e di noi radicali per la libertà di ricerca scientifica. Con parole “semplici” e limpide volle e seppe dare un aiuto fondamentale alla nostra battaglia; quando, in occasione delle elezioni politiche del 2001, aveva risposto all’appello per sostenere la candidatura di Luca al Parlamento italiano in nome della battaglia per la libertà di ricerca sulle cellule staminali. Sostenendo, assieme ad altri 50 Premi Nobel, la candidatura radicale di Luca, Saramago seppe trovare parole toccanti, che ancora oggi emozionano: “…Attendevamo da molto tempo che si facesse giorno, eravamo sfiancati dall’attesa, ma ad un tratto il coraggio di un uomo reso muto da una malattia terribile ci ha restituito una nuova forza. Grazie, per questo”.
Parole che hanno contribuito a rinfrancarci, a ridarci quell’energia necessaria per spezzare la cortina di silenzio e di indifferenza che ci circondava. Se oggi non siamo sfiancati e se con persone mute come Luca continuiamo la lotta per la dignità della vita e della morte, per la libertà della ricerca scientifica, è anche grazie a Saramago: il comunista, antisemita, illiberale Saramago, che non ha esitato un istante a schierarsi dalla nostra parte e al nostro fianco, mentre allora tanti liberali, democratici, esitavano, come ancora esitano.
Lui di Luca, del Partito Radicale, pur senza conoscerci, aveva capito molto, l’essenziale.
“Luca non è un generale a cinque stelle, né’ una stella del cinema, né un maratoneta, e neppure gli hanno dato il Nobel per la sofferenza. Luca è un uomo seduto su una sedia a rotelle che mani mosse dall’amore devono portare di qua e di là perché la malattia non lo riduca a trascorrere il resto della vita davanti all’immagine fissa di un’irrimediabile solitudine. Luca è un uomo coraggioso – ben più di quanto avrebbe mai potuto immaginare di se stesso – sul cui capo si è abbattuta due volte una condanna. Dapprima, brutale e assurda, lo ha condannato la sclerosi laterale amiotrofica, poi la crudele indifferenza delle due facce del potere in Italia, quella politica e quella religiosa, altrettanto spietate…”. E ancora: “Che siano politiche o religiose, le ipocrisie del potere non hanno limiti, ma la più insopportabile di tutte è ancora l’ipocrisia religiosa perché disprezza, fingendo di rispettarlo, quel corpo che Dio, a quanto dicono, ha creato”.
Poi c’è stato – era autunno, era novembre – un incontro a Siena. Non è stato uno di quei momenti rituali, a cui immagino, qualsiasi personalità è «costretto» qualche volta a sottoporsi. Chi ha avuto occasione di trovarsi faccia a faccia con Luca e il sintetizzatore vocale, quello strumento che parlava per lui, non poteva evitare di sentirsi umanamente attratto dal suo sorriso doloroso e stimolato a far sì che il silenzio non lo avvolga…
Saramago ha subito capito chi si trovava davanti: un uomo, un militante, un dirigente politico che lottava attraverso il suo corpo, non solo e non tanto per il “suo” corpo. È stato un incontro commovente, un vento forte. Saramago confermò il suo sostegno alla battaglia sulla ricerca scientifica.
Non ho parlato del “ritratto appassionato” che Baptista Bastos ha dedicato all’amico Saramago. Però, tutto sommato, forse un po’ sì: perché anche in quelle pagine ritrovo molto del Saramago che ho conosciuto: l’artista, l’uomo che combatteva ogni forma di oscurantismo, in particolare quella forma di oppressione che è costituita dai diktat vaticani. Certamente come tutti avrà commesso errori di valutazione anche gravi, però ovunque si lottava per una scienza consapevole, ogni battaglia per il progresso della conoscenza, lo vedeva schierato dalla parte giusta, senza esitazione.
In uno dei romanzi più noti di Saramago, “Il Vangelo secondo Gesù”, che non è di facilissima lettura ma anche per questo è affascinante, a un certo punto c’è la riflessione sull’episodio dell’adultera salvata dalla lapidazione. L’ho segnata, quella frase: “Gesù disse all’adultera, và e, d’ora in poi, non ricadere nel peccato”; poi Saramago aggiunge: “ma in cuor suo era pieno di dubbi”. Di che dubbi si tratti non lo dice: forse Gesù dubita che l’adultera non torni a peccare; o forse dubita che l’adultera abbia commesso peccato. Quello che importa è che il figlio di Dio, in cuor suo “è pieno di dubbi”. Scrive Bastos: “Saramago appartiene a una specie di scrittori interessati all’uomo, alle sue disperazioni e inquietudini, alle sue follie, venalità, vigliaccherie e resistenze”; poi cita un concetto di Saul Bellow, anche lui premio Nobel per la letteratura, ma che per esperienze e convinzioni è quanto di più lontano ci possa essere da Saramago. Il concetto che vale per Bellow e per Saramago è questo: “Oggi siamo tanto ignoranti delle cose fondamentali come lo sono da sempre gli esseri umani. Ma il nostro amor proprio esige che ci mostriamo via via meglio informati”.
Direi che Saramago abbia sempre combattuto l’ignoranza delle cose fondamentali e anche quell’amor proprio così assurdamente esigente da indurci a mostrarci quello che non siamo. Bastos sostiene che tutti i romanzi di Saramago sono politici e che la sua arte rifletteva non solo le sue preoccupazioni riguardo al momento storico, ma soprattutto l’imperativo etico ed estetico di aiutarci a comprendere il mondo. Mi pare che qui si colga l’essenza di Saramago, di quel Saramago che ho conosciuto e apprezzo. Significativamente un altro dei suoi romanzi più famosi, “Cecità”, si apre con un’epigrafe tratta dal “Libro dei Consigli”: “Se puoi vedere, guarda. Se puoi guardare, osserva”. Un libro, leggo nella risposta data a Bastos, dove Saramago ha interrogato se stesso e i lettori “a proposito della nostra razionalità, se davvero siamo razionali. Se ciò che chiamiamo ragione merita davvero questo nome”. L’idea di fondo, dice Saramago, è che la gente è cieca. Forse, più propriamente, bisognerebbe dire che la gente è lasciata cieca, la si priva di vera informazione e conoscenza. Per quanto riguarda la razionalità…
I libri di Saramago sono solitamente “pesanti”, nel senso che richiedono al lettore impegno, attenzione, partecipazione. C’è n’è però uno esile nel formato, una trentina di pagine appena, “Il racconto dell’isola sconosciuta”, nell’edizione italiana. Un uomo bussa alla porta del re per farsi dare una barca; deve fare una lunga trafila, il re come tutti i re è molto impegnato; alla fine questo tipo ostinato, ce la fa, e al re che gli chiede perché mai vuole la barca, risponde che gli serve per andare alla ricerca dell’isola sconosciuta, perché un’isola sconosciuta ci dev’essere, anche se tutti sono convinti che non ce ne siano più. È una bella favola d’amore. Quell’uomo all’apparenza è “irrazionale”, ma al tempo stesso è il più “razionale” di tutti. Io spero che noi, tutti voi, si sappia e si possa, oltre che si voglia, condividere quell’irrazionalità che spinge a chiedere una barca per andare a cercare l’isola sconosciuta, l’isola che tutti dicono non esserci.
Saramago per il Partito radicale, per Luca, e anche per me è stato la parola che ha continuato a dare vita alla vita di Luca: “Se noi vivessimo in un mondo giusto, capace di non confondere ciò che è bene con ciò che è male”, ha scritto, “la lotta coraggiosa di Luca sarebbe sfociata in un movimento sociale forse inarrestabile”.
Il mio essere stata allora in quella occasione con Pilar del Rio è un modo per non dimenticare oggi José, e ricordare con lui, Luca; continuare a tentare di dargli ancora quella parola che gli è stata negata.
di Salvatore Sechi
Il Partito Democratico (e in generale la sinistra) offrono due percezioni che restano disgiunte. Non si riesce più a farle collimare. Quella esterna identifica il partito della lotta alle diseguaglianze, ai privilegi, alla violenza e alla corruzione, a favore dei più poveri e dei più fragili. Storicamente è stata sintetizzata dall›obiettivo di costruire il socialismo. Dal secondo dopoguerra il riferimento è andato ad una versione più blanda, diciamo pure socialdemocratica, cioè allo Stato di diritto, al rispetto della legalità che viene incarnata nella carta costituzionale.
La percezione interna si è identificata, invece, nell›ideologia, nell›unità del partito, nella disciplina. Nella tradizione socialista si sono ammesse le correnti. Seppure in maniera più circospetta hanno funzionato anche nel Pci. Fin quando la società era divisa in classi sociali (borghesia e proletariato), l›elemento connettivo della sinistra è stato di rappresentare un contro-potere, quello dei ceti popolari esclusi, senza ascensore sociale per il futuro. Questo senso dell›esclusione ha alimentato l›idea di essere una contro-società e quindi di doversi comportare come una setta, una società segreta.
È un riflesso condizionato che si può ancora trovare nelle ali estreme dei partiti di sinistra quando al terrorismo e ai genocidi di Putin oppongono quelli della guerra civile negli Stati Uniti o le cosiddette trame della Cia. Ma originariamente tanto nel Psi (fino alla crisi determinata dall›assassinio di Giacomo Matteotti) quanto nel PCI (fino al ritorno di Togliatti dalla guerra di Spagna) l›accettazione della democrazia liberale e parlamentare fu negata (anche da riformisti di Turati) e poi accettata sous reserve. Ancora nel 1955 Togliatti ne discuteva come animatamente con un liberalsocialista come Norberto Bobbio.
In sintesi, fin quando i partiti di sinistra non hanno potuto accedere al potere (cioè governare), a dominare nel loro vissuto politico ed esistenziale è stata la diffusione, a livello di massa, che una regia complottarda segreta operasse per contenere o impedire la loro marcia dentro le istituzioni. In secondo luogo. È cresciuta la domanda del condottiero, dell›uomo forte, del demiurgo. Se si può farlo coincidere col micro-gollismo all›italiana, la sua figura è stata fisicamente quella di Bettino Craxi e di recente di Mario Draghi. Ma ritorna più impetuosamente nell›attribuire ad un eventuale regime presidenziale il carattere del fascismo-che-torna.
Da ossessione della sinistra la sindrome del complotto è trasferita nella destra di Silvio Berlusconi e nel centrismo di Cinque Stelle. Il suo organo, “Il Fatto”, un giorno sì e un giorno no, ama imbandire il ricordo del modo in cui una mano nera pose fine alla presidenza di Conte 2.
Da questi partiti d’ordine, l’evocazione di cosche lunghe e segrete che disfano governi e alleanze, si è trasferita nelle correnti, cioè all’interno degli stessi partiti. Si percepiscono come l’asse portante della democrazia invece che come il regolatore del traffico con cui vengono spartite le spoglie del potere spartitorio.
Tutto questo fa parte della progressiva dissoluzione del nostro sistema politico. Ma il male che colpisce il PD è sempre meno oscuro. A rovinarlo è stata la lunga permanenza nei governi dell’ultimo decennio senza verifica elettorale, la rendita di posi zione attribuita ad alcuni capi-corrente \ministri (come Dario Franceschini, Alfredo Orlando, Lorenzo Guerini, Matteo Renzi ecc.), la mancanza di un programma e quindi di una visione del futuro. Il che è diventato molto grave una volta venuto meno il collante delle ideologie.
Vorrei aggiungere che il male è molto antico e per nulla oscuro. Lo ha illustrato efficacemente uno dei fondatori del PCI, di fronte al successo del fascismo. Non fu mai così sprovveduto da confondere l›esponente di un grande destra votatasi alla violenza e alla sovversione anche armata con un capobanda come fanno pensare le grandi firme del “Corriere della Sera”.
di Rodolfo Ruocco
La Lombardia è stata la culla della Lega, ma il Veneto è diventato la vera roccaforte del Carroccio. Luca Zaia nelle elezioni regionali del 2020 è stato rieletto governatore del Veneto con un plebiscito di consensi: addirittura il 76,79 per cento dei voti. Ora anche quella roccaforte leghista, però, non gode più di buona salute. Giorgia Meloni invece va fortissimo: il 4,3 per cento dei voti nelle elezioni politiche del 2018, il 26 per cento in quelle del 25 settembre, fino al 30 per cento nei sondaggi. Fratelli d’Italia sottrae voti a tutti, ma in particolare alla Lega (nelle elezioni politiche di settembre è crollata all’8,8 per cento, dimezzando i consensi rispetto al 2018).
Il travaso di voti dal Carroccio a Fratelli d’Italia è generale in tutta Italia. Avviene anche al Nord, Veneto compreso. Il movimentismo populista di Matteo Salvini non ha pagato mentre la politica di attenzione di Giorgia Meloni verso i ceti medi e, in particolare, verso quelli produttivi sfonda. Non a caso la presidente del Consiglio e presidente di Fratelli d’Italia ha varato una manovra economica molto attenta alle aziende e ai lavoratori autonomi in grande difficoltà per il caro energia. In particolare ha dedicato grande attenzione alle aziende del Veneto, una delle regioni più economicamente dinamiche dell’Italia. In un video-collegamento con l’assemblea generale della Confindustria del Veneto est ha scandito: «Se l’industria va bene, allora va anche bene la nazione». Ha ricordato le misure del governo in favore delle imprese. Ha rilanciato un suo motto: «Non disturbare chi produce e rimettere al centro il confronto con i corpi intermedi». Ha rammentato la scelta del governo di destra-centro di rivedere il reddito di cittadinanza visto con ostilità dalle imprese. Va ricostruita «una etica del lavoro».
Fino a poco tempo fa l’interlocutore politico privilegiato delle piccole e medie imprese del Veneto era stato il Carroccio: prima la Lega Nord di Umberto Bossi e poi la Lega per Salvini premier. Adesso Fratelli d’Italia, un tempo quasi assente nell’Italia settentrionale, va al galoppo anche al Nord. La ricetta della Meloni è di una destra moderna, democratica, nazionale, occidentale, responsabile, attenta agli interessi dei ceti medi produttivi. Si contrappone alla destra movimentista, populista di Salvini, un tempo estimatrice di Vladimir Putin. Di qui la frana elettorale del segretario del Carroccio che allarma Luca Zaia, Massimiliano Fedriga, Giancarlo Giorgetti, uomini dell’ala riformista e centrista del Carroccio. Non a caso Zaia si è distinto dalle posizioni di Salvini. Il presidente della regione Veneto ha lodato l’impostazione federalista di Bossi, antagonista del segretario leghista. In una intervista al “Corriere della Sera” Zaia ha indicato, per il futuro, la strada dell’autonomia differenziata regionale e del centrismo. Si è detto da «sempre convinto che la Lega debba occupare il centro dello schieramento politico. O pensa che il 77 per cento dei veneti (gli elettori che l’hanno votato n.d.r.) sia di destra?».
Salvini è stretto in una pericolosa tenaglia. Da destra è insidiato dalla Meloni, dall’interno del partito dall’anima centrista e federalista. Nei primi mesi del 2023 si voterà per le regionali in Lombardia: se il Carroccio perderà la guida della regione più ricca d’Italia presieduta dal leghista Attilio Fontana sarà un colpo terribile. Salvini potrebbe essere disarcionato dalla segreteria. Zaia sarebbe una dei papabili alla successione.
di Renato Borzone
In un libello pubblicato nei primi anni 90, “Il circo mediatico giudiziario”, l’avvocato francese Daniel Soulez Larivière, coniava, forse inconsapevolmente quanto agli effetti nel nostro paese, un’espressione che è entrata rapidamente nel lessico della politica giudiziaria italiana. Nel libro si descrivevano gli effetti perversi del corto circuito che si instaura tra i mezzi di comunicazione e il sistema giudiziario nelle vicende processuali, rappresentando icasticamente come una “valanga” – di fronte alla quale i legali della difesa sono completamente impotenti – l’approccio dell’informazione rispetto al processo penale.
Segnalava esemplificativamente, l’autore, come nulla possa la difesa quando, nei telegiornali dell’ora di pranzo, i cronisti anticipano il contenuto di interrogatori degli imputati che si devono ancora svolgere o sono in corso. Ne concludeva, tuttavia, che l’unico rimedio ragionevole a questo fenomeno sarebbe stato, per la difesa, “cavalcare” il contesto ed approcciarsi nello stesso modo, utilizzando la comunicazione mediatica come metodo “parallelo” di battaglia paraprocessuale per gli avvocati, altrimenti destinati a soccombere.
Dalla pubblicazione del volumetto di Soulez Larivière è passata molta acqua sotto i ponti, ma senza grandi approfondimenti e senza grandi risultati. Il “fenomeno” ha assunto dimensioni gigantesche, per vero non soltanto in Italia, con il trasformarsi della informazione giudiziaria in vero e proprio tribunale parallelo, che anticipa le decisioni processuali, demolisce le persone sottoposte a giudizio prima di ogni sentenza, non rispetta alcun tipo di segreto (in verità di fatto pressoché inesistente nelle norme processuali), opera mediaticamente in video con veri e propri processi paralleli, rivendicando – di fronte a labili ed inefficaci critiche – la libertà dell’informazione.
La politica è stata completamente indifferente al fenomeno – finanche nel caso dell’oggi ipocritamente santificato Enzo Tortora – sino a quando l’informazione ha iniziato ad occuparsi delle vicende giudiziarie dei suoi esponenti. Gli esiti di tale supposta presa di coscienza sono stati però nulli, in ragione dell’evidente rapporto malato e di sottomissione della politica alla magistratura. Quanto a quest’ultima, specie quella inquirente, ha vellicato e strumentalizzato gli istinti della pubblica opinione – salvo lodevoli eccezioni – evitando di occuparsi del problema ed anzi utilizzando a piene mani il tendenziale rapporto servile della stampa per propagandare le proprie inchieste.
Il “mondo” dell’informazione – anche qui con qualche rilevante eccezione – ha assolutamente negato ogni rilevanza alla questione, assumendo, a partire da una riflessione certamente corretta sul dovere dei media di informare, un atteggiamento “negazionista” sui risvolti perversi delle modalità di comunicazione, respingendo ogni accusa circa un rapporto preferenziale con la magistratura. Quanto, infine, all’avvocatura, in teoria garante dei diritti civili nel processo, ha alternato prese di posizioni rigide e formalmente corrette, forse troppo idealistiche (“i processi si fanno nelle aule giudiziarie”), a comportamenti disgustosi, non tanto di legittima reazione informativa rispetto alle distorsioni dei processi di piazza, quanto attingendo a piene mani alla facile e becera pubblicità dei talk show televisivi o dei processi spettacolo allestiti per la morbosa attenzione degli spettatori.
Sia ben chiaro, non si tratta di problema di facile risoluzione, coinvolgendo una serie di valori anche di livello costituzionale e di equilibri delicati da contemperare. Tuttavia, prima di verificare la situazione dei nostri giorni alla luce della nuova normativa sulla presunzione d’innocenza, va chiarito che la questione, nei convegni sul tema o nel dibattito pubblico, ha quasi sempre virato verso prospettazioni “buoniste”, secondo le quali sbagliano un po’ tutti i soggetti coinvolti, e la soluzione sarebbe da ricercare nel rispetto, da parte di ciascuno di loro, delle rispettive disposizioni deontologiche.
Chi scrive, viceversa, è convinto che se la discussione relativa alla informazione giudiziaria non prende le mosse dalla reale natura del fenomeno, ne risulta viziata ogni successiva valutazione. E, appunto, la reale natura che molti rifiutano di considerare muove dalla considerazione che la cronaca giudiziaria, quasi sempre, altro non è che la longa manus della magistratura inquirente, diretta – parafrasando una celebre frase di Von Klausewitz su guerra e politica – alla prosecuzione dell’inchiesta giudiziaria con altri mezzi.
Più l’inchiesta giudiziaria è debole, ovvero è “interessante” (si pensi al processo denominato “Mafia Capitale”, a titolo di mero esempio), più c’è bisogno di lanciarla mediaticamente non solo e non tanto per una pubblicità dei protagonisti, fenomeno umano ineliminabile, quanto per ottenerne un ritorno all’interno del processo. Gli studiosi di psicologia giudiziaria e i cultori delle scienze sociali hanno appurato, con buona pace di magistrati che dichiarano la loro “impermeabilità”, che la montatura mediatica di una vicenda giudiziaria, tanto più se con modalità colpevoliste (le campagne “innocentiste” o “garantiste”, che comunque non coincidono, si contano in Italia sulle dita di una mano), determina un condizionamento dei meccanismi processuali e decisionali.
Chiunque comprende che scarcerare o assolvere chi viene sistematicamente presentato come colpevole in martellanti campagne mediatiche spesso richiede un coraggio o una consapevolezza del proprio ruolo di particolare spessore, a fronte del rischio di essere linciati dai mezzi di informazione (si pensi al caso della funivia del Mottarone) o di essere pregiudicati nella carriera. Stante anche il fatto che, nella subcultura generalizzata italiana, anche dei media, la ontologica finalità del processo è il pervenire ad una sentenza di condanna, essendo l’assoluzione non un eventuale esito apprezzabile ma uno “spreco di anni di indagine” e un “fallimento della giustizia”.
Chiarito nei limiti del consentito in questa sede qual è il punto nodale del problema, pensare di risolverlo con la deontologia appare velleitario se persino la Direttiva del Parlamento Europeo 343/2016, trasformata fulmineamente da quello italiano, solo cinque anni dopo, nella legge denominata “sulla presunzione di innocenza” (legge 188/2021) è oggetto non solo di continue aggressioni ma, di fatto, di permanenti violazioni. Di talché, la norma in questione è stata subito accusata dalla magistratura “sensibile” di proporre il modello di una “velina di regime”. Come se le reali veline di regime non fossero certe conferenze stampa delle Procure (ovviamente ben corredate di impettiti investigatori cui si deve dare visibilità per la carriera), in cui si danno per definitivi i risultati delle indagini, si mostrano video o si fanno ascoltare audio ben selezionati che fanno parte degli atti processuali ancora non noti alle difese, e si dà di fatto per scontata la responsabilità degli accusati.
Sicché, proprio relativamente ad un fatto di cronaca accaduto nel quartiere Prati a Roma, con l’omicidio di tre donne, dopo poche ore e senza scandalo di nessuno, erano riportate, virgolettate, alcune frasi dell’interrogatorio della persona poco prima arrestata. Con buona pace della nuova “legge bavaglio”. Sicché, è lecito attendersi che tutto è cambiato affinché nulla cambi, poiché i rapporti di forza esistenti tra politica e magistratura e l’ansia di giustizia celere, immediata e possibilmente esemplare vanificheranno le disposizioni della nuova normativa. Le notizie non appariranno perché conquistate da bravi cronisti arrampicatisi nottetempo sui muri del palazzo di giustizia o ascoltando i dibattimenti pubblici cercando di capire quel che vi accade, ma continueranno a filtrare, ben selezionate, in modo informale, dagli investigatori della polizia giudiziaria, solitamente premiati per la carriera – come nella caserma di Piacenza – un tot al chilo per ogni indagato arrestato. Con i magistrati che li dovrebbero dirigere e controllare che fanno finta di nulla.
Naturalmente tutte queste considerazioni non esauriscono il problema, ed anzi ne aprono altri: i rapporti tra ufficio del pubblico ministero e polizia giudiziaria; la valenza costituzionale del principio di presunzione d’innocenza; il rapporto tra le carriere dei magistrati dell’accusa e della decisione; l’ampiezza delle notizie conoscibili nel corso delle indagini del processo e le relative ipotizzabili sanzioni. Tutto questo, tuttavia, è materia ulteriore rispetto a questo scritto e spalanca le porte all’analisi del sistema giudiziario italiano. A proposito di circo.
di Giampiero Gramaglia
Meno di 24 ore dopo la ricandidatura di Donald Trump alla nomination repubblicana per le presidenziali americane del 2024, il Senato degli Stati Uniti, con 62 voti a favore e 37 contrari, ha fatto un passo probabilmente decisivo per garantire la legalità dei matrimoni fra persone dello stesso sesso, contro le interferenze di una Corte Suprema fortemente conservatrice sui diritti civili e di genere.
La legge è stata approvata anche da 12 senatori repubblicani. Il voto, scrive il “New York Times”, segnala un cambiamento nella cultura e nella società: il matrimonio fra persone dello stesso sesso, fino a non molto tempo fa un tema politicamente divisivo, è ormai divenuto largamente accettato. Ma i sostenitori di Trump – un elettorato di uomini bianchi mediamente poco istruiti, fra cui molti fondamentalisti religiosi – sono tendenzialmente ostili alla pratica.
È un segno di come l’Unione in cui il magnate conduce la sua terza campagna elettorale, sperando di diventare, dopo Grover Cleveland, il secondo presidente a ottenere due mandati non consecutivi, sia diversa da quella che gli diede il successo nel 2016, pur con tre milioni di voti popolari in meno della sua rivale Hillary Rodham Clinton. Cleveland, un democratico, custode della Costituzione, fu eletto nel 1884; fu più votato del suo rivale repubblicano Benjamin Harrison nel 1888, ma ebbe meno Grandi Elettori e perse la Casa Bianca; però, fu di nuovo eletto nel 1892.
Altri segni di un’America mutata che l’ex presidente, incapace di autocritica, non coglie nell’esito del voto di midterm sono: l’impatto della decisione della Corte Suprema, che leva la tutela federale al diritto di abortire; la diversità degli eletti (ultimo caso, Karen Bass, la prima sindaca donna e nera di Los Angeles); la bocciatura di molti suoi sodali negazionisti del voto del 2020, come quella a cui è andata incontro Kari Lake, ‘anchor’ televisiva, aspirante governatrice dell’Arizona, dove la chitarra che suona è sempre più democratica.
Le elezioni dell’8 novembre segnano una spaccatura nel Congresso: il Senato resta democratico, indipendentemente dal ballottaggio in Georgia il 6 dicembre, ma la Camera diventa repubblicana. In questo contesto, i repubblicani non possono imporre al presidente Joe Biden la loro agenda, ma acquisiscono una sorta di diritto di veto su quella presidenziale. Resta da vedere quanto peseranno sui lavori del Congresso le divisioni esistenti nei grandi partiti: al Senato, due senatori democratici, Joe Manchin della West Virginia, e Kirsten Sinema, dell’Arizona, si mettono spesso di traverso; e, alla Camera, il gruppo degli ultra ‘trumpiani’ minaccia sconquassi. Lo si è già intravisto al momento di scegliere i capigruppo. Al Senato, Mitch McConnell è stato confermato nel ruolo che ha dal 2007 con 37 voti a favore, contro 10 al suo rivale Rick Scott, che gli contestava un risultato elettorale inferiore alle attese. La riconferma arriva anche alla Camera con 188 per Kevin McCarthy. Tuttavia, gliene sono mancati almeno 25 dei deputati già eletti. A inizio gennaio, quando ci sarà da eleggere lo speaker della Camera, McCarthy dovrà fare il pieno, rischiando altrimenti di non avere i 218 suffragi necessari: alcuni ‘trumpiani’ giurano che non lo voteranno mai. Sia McConnell che McCarthy sono attualmente invisi all’ex presidente, che è stato sempre erratico nei loro confronti, e non si sono sbilanciati sulla sua ricandidatura.
Donald Trump ha annunciato la sua ricandidatura martedì 15 novembre sera a Mar-a-lago, in Florida, proprio mentre il mondo era traversato dall’ansia per i frammenti di missili caduti in Polonia, che hanno ucciso due persone: se ne poteva innescare un allargamento del conflitto tra Russia e Ucraina. Questo ne ha indubbiamente condizionato l’impatto mediatico.
Il magnate ha fatto un discorso che i media liberal hanno definito “a bassa intensità”, al solito infarcito di ripetizioni: “Io” è stata, come sempre, la sua parola preferita. Non sono mancate iperboli (“Sono più perseguitato di Al Capone”), falsità (“Nessuno ha mai avuto più voti di me in un’elezione presidenziale”) e promesse (“Non sarà la mia campagna, ma la vostra … Insieme, sconfiggeremo la sinistra liberal…Faremo di nuovo l’America grande e gloriosa…”). Trump non si lascia frenare né dagli insuccessi registrati in queste elezioni di metà mandato (i suoi candidati hanno ottenuto la nomination, ma perso le elezioni perché i moderati non li votano) né dalle inchieste che lo riguardano: quella della Camera sulle sue responsabilità nella sommossa del 6 gennaio 2021; quella dell’Fbi sui documenti sottratti alla Casa Bianca – “per il gusto di tenerseli” è la conclusione cui sono giunti gli inquirenti -; quella della Georgia sul tentativo di manipolare i risultati elettorali; quella della magistratura di New York sulle sue pratiche finanziarie e fiscali. Più di tutto questo, gli toglie un po’ d’energia l’assenza, al suo fianco, della ‘prima figlia’ Ivanka, che si chiama fuori. Presente la moglie Melania, ma per il tycoon è un trofeo da esporre, non un asset su cui contare.
Il “New York Times” scrive “Basta!”, ma intanto spiega che sarà difficile portargli via la nomination. I media di Rupert Murdoch, inoltre, gli voltano le spalle e fanno il tifo per il suo potenziale antagonista Ron ‘deFuture’ DeSantis, il governatore della Florida. Tuttavia, bisogna ancora vedere chi scenderà davvero in campo per cercare di fermarlo: oltre a DeSantis, si citano il suo ex vice Mike Pence, Nikki Haley, i senatori Ted Cruz e Marco Rubio.
Anche i democratici devono ora tenere conto del ‘fattore Trump’. Biden farà sapere a inizio 2023 se si ricandida o meno: bassa popolarità e palese fragilità potrebbero suggerirgli di non farlo, anche se, dalla sua, ha la vittoria del 2020 e dei risultati di Midterm migliori delle attese. Finché Biden non decide, nessun altro candidato democratico uscirà allo scoperto.
(da “Affari Internazionali”)