di Otello Lupacchini
(La prima parte di questo saggio è stata pubblica su “Proposta Radicale” n.5)
4. «Corruptissima republica plurimae leges» (Publio Cornelio Tacito). – Che la politica italiana sia intrinsecamente e organicamente corrotta, è ormai luogo comune. La stessa Commissione europea, nel Rapporto 2014 anticorruzione, è stata in proposito, fortemente critica : pur riconoscendo gli sforzi notevoli profusi dall’Italia nell’opera di contrasto ha stigmatizzato, tuttavia, come il fenomeno sia rimasto nonostante tutto preoccupante e suggerito di potenziare il regime di integrità per le cariche pubbliche elettive, introducendo codici etici e strumenti di rendicontazione del loro operato; di consolidare lo strumentario giuridico e istituzionale sul finanziamento ai partiti; di risolvere con la massima urgenza le carenze del regime di prescrizione; di estendere i poteri e sviluppare la capacità dell’autorità nazionale anticorruzione in modo che possa reggere saldamente le redini del coordinamento, garantire maggiore trasparenza degli appalti pubblici e adoperarsi ulteriormente per colmare le lacune della lotta anticorruzione nel settore privato.
Al fine di un efficace contenimento del fenomeno di degrado etico di cui la corruzione sistemica è il sintomo maggiormente evidente, anziché intervenire sul conflitto d’interessi, sulla trasparenza della situazione patrimoniale dei pubblici ufficiali e sui dispostivi di controllo, il legislatore ha fatto ricorso sempre più massicciamente alle famigerate leggi ad personam, atti normativi aventi in apparenza i caratteri della generalità e dell’astrattezza tipici della legge, ma emanati con lo specifico intento di favorire, o anche di danneggiare, direttamente o indirettamente un cittadino, un’azienda o un ristretto gruppo di soggetti.
Le premesse ideologiche di questa progressiva «fuga dalla legalità», che mina le fondamenta del nostro vivere civile, furono poste, in occasione di un seminario di studi organizzato dalla Confindustria nel lontano 1973, dall’allora Governatore della Banca d’Italia Guido Carli, il quale, mutuando un’espressione di Luigi Einaudi, ma coniata temporibus illis da Tommaso Campanella negli Aforismi politici, parlò di «lacci e lacciuoli», per indicare gli ostacoli che impedivano alla nostra economia di avere un andamento virtuoso. È stato da allora, peraltro, che in tutto il mondo si è propagata l’ideologia dell’efficienza del privato che è libertà, mentre il pubblico è burocrazia, smentita clamorosamente nella realtà, poiché se si faccia più fila in banca, il «privato» per eccellenza, o allo sportello dell’anagrafe, il «pubblico» per l’appunto, dipende tutto ed esclusivamente da come sono concretamente organizzati i servizi, non dalla natura pubblica o privata del soggetto.
Muovendo, comunque, da tali premesse ideologiche, torte variamente in funzione delle contingenti esigenze, s’è intonato, a canto fermo, il peana, non ad Apollo, ma al «povero imprenditore di buona volontà», che malauguratamente esercita la sua «intrapresa», nel nostro Paese, costretto a navigare a vista, attraverso 25.000 leggine, «lacci e lacciuoli» di una rete inestricabile di normative in contraddizione l’una con l’altra; desideroso di svolgere un’attività decente; obbligato a inventarsi sistemi e metodi per non andare a catafascio; perennemente inseguito dalla canea dei pubblici ministeri, (mal)intenzionati a farlo rispondere di reati commessi da quasi tutti i confratelli che vogliano sopravvivere e arricchirsi in Italia.
Sui «lacci e lacciuoli» che imbriglierebbero la crescita virtuosa del Paese è, ancora più di recente, tornato il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, allorché, commemorando Carli, alla Luiss, ha denunciato che «ancora una volta è apparso che la politica economica seguita nel nostro paese preferisce mantenere una condizione generalizzata di sofferenza per il sistema produttivo (…) resta intatta la predilezione antica per le leggi tiranniche che sono molti lacciuoli che ad uno o a pochi sono utili», giungendo alla conclusione per la quale, «se vogliamo cogliere la reale portata del pensiero di Carli dobbiamo concludere che i lacci e lacciuoli non erano solo quelli imposti dallo Stato all’impresa, ma anche quelli imposti all’impresa da schemi di pensiero obsoleti degli imprenditori e quelli, sociali e sistemici, che impedivano ai giovani più capaci di conquistare il posto che avrebbero meritato nella società».
5. «Mi sembra che dovunque vige la proprietà privata, dove misura di tutte le cose è la pecunia, sia alquanto difficile che mai si riesca ad attuare un regime politico basato sulla giustizia o sulla prosperità» (Thomas Moore). – Ancora una volta, nihil novi sub sole. Correva l’anno 1705, allorché a Londra veniva pubblicato, anonimo, un poemetto di 433 versi, L’alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti, apologo, sul modello delle favole di Esopo, di Fedro e di La Fontaine, in cui si prospettavano i vantaggi del vizio e gli svantaggi della virtù individuali, in termini di benessere collettivo.
Nel 1714, l’opera ebbe una seconda edizione, ancora anonima, col titolo La favola delle api, o vizi privati, pubblici benefici, con l’aggiunta di venti note, che ne sviluppano il significato filosofico. Seguirono altre edizioni e aggiunte, fino a quella definitiva del 1732.
L’autore, Bernard de Mandeville (1670-1733), era un medico, nato in Olanda da una famiglia di politici e di medici di origine francese. Egli viveva a Londra. Il suo libro sulle virtù sociali del vizio, fra i più letti e più discussi nel Settecento, s’inseriva nel dibattito sul benessere sociale promosso dalle novità economiche, sociali e politiche, che fecero dell’Inghilterra il primo paese ad avviarsi sulla strada del capitalismo. Si stava, infatti, allora, aprendo il conflitto fra la nascente ideologia del liberalismo individualistico, cara alla borghesia in ascesa, e quella del collettivismo egualitario, dalle radici antiche nei movimenti dei catari, dei fraticelli, dei valdesi, degli anabattisti e dei lollardi, e destinato a sviluppi importanti nei movimenti rivoluzionari successivi.
Mandeville, che non credeva all’esistenza di una naturale armonia tra gli interessi privati e il bene pubblico e pensava che a fondamento della stabilità e della prosperità sociale non vi fosse posto per la morale, rovescia la tesi di Shaftesbury e rielabora, in termini molto originali e in qualche modo ottimistici, l’idea hobbesiana della natura egoistica e conflittuale dell’uomo: è vero che gli uomini sono egoisti, tesi alla competizione e disonesti, ma tutto questo, in presenza di un potere politico saggio, alimenta prosperità economica e benessere collettivo. La virtù, invece, comprimendo le passioni umane, spegne il motore delle attività economiche e del progresso tecnico-scientifico. Questa, insomma, la morale della favola: «Soltanto gli sciocchi cercano di rendere onesto un grande alveare. Godere le comodità del mondo, essere famosi in guerra, e, anzi, vivere nell’agio senza grandi vizi, è un’inutile utopia nella nostra testa. […] La semplice virtù non può far vivere le nazioni nello splendore; chi vuol fare tornare l’età dell’oro, deve tenersi pronto per le ghiande come per l’onestà». Sic stantibus rebus, è di tutta evidenza perché si ritenga che la Politica non sia in grado di autorigenerarsi, da cui si trae la conclusione per la quale spetterebbe ai magistrati raddrizzarne dall’esterno il legno storto, per stanare e punire i reprobi, «rovesciare l’Italia come un calzino», ma anche per condurre in porto una riforma intellettuale e morale, combattendo una battaglia di modernizzazione e di civiltà, «portare un regime a giudizio».
Secondo questa ideologia, alla magistratura competerebbe sia il controllo della «legalità» individuale sia d’intervenire, quale attore collettivo, per avanzare soluzioni «corrette», tutte le volte che la politica abdichi dai suoi compiti, ergendosi contro gli arbìtri e i privilegi dei potenti, supplendo all’inerzia, all’incapacità, alle deviazioni dei politici, opponendosi pubblicamente alle decisioni «sbagliate» del potere pubblico là dove queste, come spesso accade, congiurino per l’impunità e per la restaurazione.
6. «È strano come tutti difendiamo i nostri torti con più vigore dei nostri diritti» (Kahlil Gibran). – Innescato intorno alla metà degli anni ‘50 e conflagrato agli albori degli anni ‘80, il conflitto tra magistratura e politica, nel nostro Paese, si è irrimediabilmente esacerbato alla svolta degli anni Novanta del secolo scorso, quando l’interazione fra tendenze generali epocali, quali il nuovo protagonismo dei giudici e la depoliticizzazione delle classi politiche nazionali, in combinazione con la personalizzazione della politica, ed eventi, culture, strategie, equilibri ordinamentali e istituzionali peculiari della situazione nazionale, determinarono l’insorgere di «Tangentopoli» e di «Mani pulite».
Da allora, si fronteggiano, con alterne vicende e in una geometria variabile di aggregazioni e di scomposizioni interne, una classe politica composta di homines novi e di politici riciclati, tutti, parimenti, insofferenti dei vincoli costituzionali, ma tenacemente abbarbicati alle prerogative e ai privilegi tradizionali, e uno schieramento stretto intorno alle Procure di punta, guidato da intransigenti custodi della legalità. Sempre da allora, umori e comportamenti antipolitici hanno improntato non episodicamente la cultura e i comportamenti di entrambi le fazioni contendenti, influenzandone più o meno consapevolmente le decisioni, gli stili, le strategie coalizionali e comunicative.
Questi orientamenti giudiziari, pur se episodicamente espressi e per quanto inframmezzati da professioni di obbedienza e di deferenza istituzionale, tradiscono, tuttavia, un’autopercezione dilatata ed euforica della propria missione e sembrano a tratti alludere implicitamente al modello di «democrazia giudiziaria», dove magistrati-guardiani, sacerdoti di una superiore civiltà giuridica e custodi della convivenza e della virtù, rivestono una posizione castale, se non di preminenza, comunque incongrua rispetto alla tradizionale concezione della democrazia rappresentativa e della divisione dei poteri.
Simili convincimenti e traguardi impropri di riforma e di rigenerazione della società e della politica, propri, magari, soltanto di alcuni magistrati e non dell’intera Magistratura, hanno fatto tuttavia corpo con l’adozione, questa sì ampiamente condivisa, di strumenti e di stili d’azione, di metodi d’indagine, di comunicazione e di ricerca del sostegno popolare, che hanno attirato sulla categoria l’accusa di «giacobinismo della giurisdizione». L’uso esibito e dilatato della custodia cautelare e degli arresti eccellenti, sia come strumento di pressione per ottenere confessioni sia come esibizione di giustizia empirica, la modulazione della riservatezza delle indagini, la personalizzazione delle inchieste, la ricerca di riconoscimenti mediatici, gli interventi sui media intesi a suggerire, avallare, impedire provvedimenti politici e, più di tutto, la mobilitazione del risentimento popolare secondo accorte regie sono altrettanti mezzi che, se spesso indifendibili singolarmente, configurano nel loro insieme un modello d’intervento che ha il suo fulcro nella ricerca del consenso. Sul versante della politica, la fenomenologia di «Tangentopoli» ha costituito, per contro, l’effetto emergente del consociativismo istituzionale della Prima Repubblica, radicato nella Costituzione.
Giusta questa diagnosi, l’«accanimento giudiziario» contro i politici che ne sono stati i protagonisti sarebbe ingiustificato e da contrastare, vuoi attraverso un’azione di rigorosa tutela delle garanzie individuali, vuoi attraverso la ricerca di soluzioni collettive, per due ragioni concomitanti.
In primo luogo, perché le deviazioni individuali dalla legalità sarebbero state una conseguenza del sistema di governo e di selezione della classe politica, e solo in subordine di autonome scelte dei singoli, pertanto, solo marginalmente colpevoli sul piano etico-politico.
In secondo luogo, perché l’attivismo dei giudici si sarebbe indirizzato unicamente sul C.A.F., escludendo dalle indagini i comunisti, nelle loro successive metamorfosi partitiche, i quali sarebbero stati invece pienamente corresponsabili delle degenerazioni affaristiche e delle deviazioni della politica italiana.
7. «Non è necessario essere avvocato o magistrato per sapere che la legalità e la giustizia sono lontani dall›essere sinonimi» (Adolphe-Basile Routhier). – Poiché «la lingua batte dove il dente duole», non stupisce che, a partir da allora, nel dibattito politico-istituzionale sull’amministrazione della giustizia, risuonino ossessivamente i due motivi del «garantismo» e del «giustizialismo». Una querelle stucchevole, di cui non si coglie il senso, se non ci s’intende sul significato delle parole.
Illo tempore, infatti, il termine «garantismo» designava, una concezione politica che sostiene la tutela delle garanzie costituzionali del cittadino da possibili abusi da parte del potere pubblico. Accanto a questa accezione, però, negli anni Settanta del Novecento si è sviluppato un nuovo concetto di «garantismo», legato al rispetto di una serie di diritti nel campo della procedura penale e incentrato sull’accertamento oggettivo della verità dei fatti, al di là di qualsiasi manipolazione e da qualsiasi arbitrio da parte del potere politico o giudiziario: in risposta alla legislazione d’emergenza con cui la politica italiana tentava di fronteggiare il fenomeno del terrorismo, i giuristi d’orientamento progressista teorizzarono il primato dei diritti individuali di immunità e di libertà di fronte al potere punitivo dello Stato.
La parola «giustizialismo», invece, designava originariamente la dottrina e la prassi politica su cui era fondato il governo dell’uomo politico argentino Juan Domingo Perón Sosa (Lobos, 8 ottobre 1895 – Olivos, 1 luglio 1974) presidente della Repubblica Argentina dal 1946 al 1954 e dal 1973 alla morte, caratterizzate da una dichiarata equidistanza tra comunismo e capitalismo, da acceso nazionalismo e da un programma di riforme sociali unito a spunti autarchici e corporativi. Con significato diverso, il termine è stato, tuttavia, adottato nel linguaggio giornalistico per definire l’atteggiamento di chi, per convinzione personale o come interprete della pubblica opinione, proclama la necessità che venga fatta severa giustizia, magari rapida e sommaria a carico di chi si è reso colpevole di determinati reati, specialmente quelli di natura politica, di criminalità organizzata, di amministrazione pubblica disonesta, in opposizione ai cosiddetti garantisti e a quanti si mostrano favorevoli a sanatorie e «colpi di spugna» generalizzati. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica, insomma, sia l’ideologia per la quale il potere giudiziario sarebbe il più importante e vada quindi sostenuto «a prescindere», sia la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere.
Insomma, i termini «garantismo» e «giustizialismo», che originariamente esprimevano il diverso atteggiarsi del «principio di legalità», così nelle vicende processuali come in quelle sostanziali, usate con incolta e rozza disinvoltura come fossero corpi contundenti, dagli altercanti, hanno via via mutato il loro originario significato, colorandosi di quell’ambiguità sintetizzata egregiamente in una poesia di Carlo Bini, risalente al quarto decennio dell’Ottocento: «Un Barbagianni che fa il Pavone,/mi disse un giorno: vada in prigione./Per qual ragione?/Oh! si suppone./- Ma il si suppone/non è ragione!/Oh, che ragione!/ Vada in prigione./Ma in qual nazione/senza ragione/si va in pigione?/Ma che nazione!/Ma che ragione!/Che conclusione!/- Vada in prigione!/- Ma se ho ragione?/- Colla ragione/vada in prigione./In conclusione /senza ragione,/ colla ragione/sono in prigione».
8. «Nella giustizia c’è sempre pericolo: se non per la legge, certo per i giudici» (Henry Bordeaux). – Sono sei i quesiti referendari depositati in Cassazione. I primi quattro vanno a toccare diversi punti essenziali dell’ordinamento giudiziario attuale: la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura; la responsabilità dei magistrati; la procedura per la valutazione del magistrato; la separazione fra magistrati investiti della funzione d’accusa e magistrati investiti della funzione giurisdizionale. Il quinto quesito, discostandosi parzialmente dall’organizzazione dell’ordinamento giudiziario, entra maggiormente sugli aspetti strettamente processuali, mirando a prevenire eventuali abusi delle misure cautelari; l’ultimo quesito, infine, mira all’abrogazione di un intero provvedimento normativo, ossia il il d. lgs. n. 235 del 31 dicembre 2012 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190).
Altri ne parleranno, con maggiore competenza rispetto a quanto possa fare io. Né è mia intenzione avanzare ipotesi sui futuribili. Quel che posso dire è che non vedo alcun rischio di regressione alla società medievale, nella quale il dominio, coagulazione in termini di velle e posse di una vis che sembrava quasi incardinata nella logica dell’universo e ancorata con profonde, antiche radici nell’essere stesso di ogni singolo che spontaneamente gli si affidava, ad esso sottoponendosi, veniva accettato come destino, cioè, come naturale, etica, storica «fatalità». Non di meno, una milizia d’intellettuali soi-disants, attiva sul terreno delle costruzioni ideologiche, è all’opera per spianare la via a un’aristocrazia togata dal potere incontestabile. E, per dar forza ai propri ragionamenti, per meglio mascherare, insomma, «come vegeti la giustizia (…) quando la politica se la pone fra le ugne», cerca di farsi scudo della scienza, della sua neutralità, della sua capacità d’avallare, quasi di purificare un uso dispotico del diritto.
Non starò qui a lumeggiare tutte le fonti da cui si trae la linfa per annaffiare lo smisurato pepinière di folgorazioni e aspettative, ma non posso fare a meno di andare indietro nel tempo, perché è questa la condizione imprescindibile per poter rispondere alla domanda iniziale, se cioè nell’Italia del Terzo Millennio vi sia ancora spazio per il Terzo Potere. Per dirla, infatti, con il monicelliano generale Pariglia, «c’è un grande passato nel nostro futuro».
Nel capitolo XIX del suo “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino”, dato alle stampe nel 1883, quando sulle scene italiane si rappresentava il dramma Il reo in carrozza e l’innocente a piedi, Carlo Lorenzini, sotto lo pseudonimo di Carlo Collodi, racconta un episodio sulla giustizia di Acchiappacitrulli, che, almeno secondo la parte maggioritaria dei commentatori, sarebbe una giustizia «capovolta» o «rovesciata».
Dopo aver costatato che la Volpe e il Gatto si sono portati via i quattro zecchini ricevuti da Mangiafoco, che per loro consiglio aveva seminato nel Campo dei Miracoli, confidando di vederne crescere un albero stracarico, Pinocchio, da ricco putativo diventato povero autentico, tenta la sua prima sortita squisitamente sociale: disperato si reca dal giudice, gran scimmione «della razza dei Gorilla»; anziano; rispettabile; occhiali d’oro, senza vetri; gran barba bianca, il quale, saggio e buono, lo ascolta con attenta benignità, s’intenerisce e commuove; quindi lo condanna alla prigione; ne uscirà solo quattro mesi dopo, grazie a un indulto di cui riesce a beneficiare, del resto, soltanto dichiarando di essere anche lui un malandrino. Breve, accertato il reato, ad Acchiappacitrulli non si punirebbero i colpevoli, bensì la vittima, trattenuta in carcere anche quando i delinquenti escono.
Questa interpretazione paradossale suscita, però, qualche perplessità. Innanzi tutto, sarebbe l’unico caso in cui Pinocchio riceve una punizione immeritata, o tutt’al più occasionata da una leggerezza, l’aver cioè dato retta ai due malandrini, che tuttavia, come tale è già stata sanzionata dalla perdita delle monete d’oro. Il topos narrativo e drammatico della giustizia «capovolta» o «rovesciata», inoltre, dovrebbe comprendere un delitto, un colpevole e un innocente: l’uno assolto o nemmeno accusato, l’altro condannato e punito. Ma, nel caso di Pinocchio, questa simmetria non esiste: il burattino, «questo povero diavolo», viene condannato e punito non per un reato, il furto cioè delle quattro monete d’oro, commesso da altri, bensì, consapevolmente e dichiaratamente per un fatto proprio e del tutto diverso, cioè per essere stato derubato; la Volpe e il Gatto, per contro, rimangono a piede libero non perché erroneamente o arbitrariamente ritenuti estranei al delitto, che anzi nessuno dubita abbiano commesso, bensì perché estranei al processo, dove non sono stati neppure chiamati. Se, dunque, nel processo di Acchiappacitrulli si commette un arbitrio, esso non ha natura processuale, ma sostanziale», consistente nel ritenere in vigore ad Acchiappacitrulli una norma che proibisce di farsi derubare, almeno in circostanze come quelle in cui si è fatto derubare Pinocchio, la cui «colpa» non è soltanto quella, relativamente lieve, di essersi fidato dei malandrini, ma anche e soprattutto quella, molto più grave, di aver desiderato una ricchezza generata da sé stessa, senza alcun rapporto con la fatica e con il merito.
Sgombrato il campo dalla suggestione della giustizia «capovolta» o «rovesciata», ad evocare la realtà di oggi, nel racconto collodiano, è la città di Acchiappacitrulli, il transito per la quale è incluso, come un giro turistico massimamente istruttivo, nel lungo percorso di Pinocchio fino al Campo dei miracoli. È, infatti, quella di Acchiappacitrulli una città allegorica, pedagogica, allucinatoria, intessuta di venture e sventure sessuali, politiche, finanziarie. Come in un elenco di dramatis personae, tre sono le categorie maschili contrapposte a tre femminili: da un lato, cani spelacchiati, pavoni spiumati, fagiani «cheti cheti» scodati, dall’altro, pecore tosate, galline senza cresta, farfalle che hanno venduto le ali e non possono più volare. Storie di mancati amori, d’incaute ambizioni, di fedeltà mal riposte, umiltà schernite, speranze irrise, cui insolentiscono brutali vittorie, fasto furbo e inonesto di gazze ladre, uccelli di rapina, volpi astute. Accattoni, poveri «vergognosi», esseri ormai «cheti cheti» fanno largo alle carrozze dei potenti. Com’è simile ad Acchiappacitrulli l’Italia di oggi, luogo infernale e quotidiano dell’Utopia rovesciata, luogo solenne di addobbi insolenti e ironici, di lacrime, di fragili miserie, di lussuosa, nobile irrisione.
L’impressione è che qui regnino Moire molto potenti e sia venuta a mancare un’esorcista come Atena, ma non si deve disperare: prima o poi, nuovamente placate dal talento logico di Atena, le Erinni torneranno a rassegnarsi alla conversione in Eumenidi. Omnium rerum vicissitudo est.
(da: “L’UGI nelle lettere di un protagonista, ricordo di Giorgio Festi, Artestampa edizioni)
Giorgio Festi appartiene alla storia dell’Unione Goliardica Italiana (UGI) della prima metà degli anni ’50[1]. L’UGI era nata nel gennaio 1947 su di una piattaforma goliardico-laica, intreccio di tradizione, autonomia e laicità. Negli atenei l’UGI si confronta con l’Intesa cattolico-democristiana, con i neo-fascisti del FUAN e con la sinistra social-comunista del CUDI.
L’UGI ha un peso crescente nella popolazione universitaria, ben espresso dall’appartenenza dei 21 componenti il consiglio nazionale universitario nominati dai congressi dell’UNURI[2]. A Torino (1947) l’UGI ha 6 eletti (29%), a Viareggio (1951) 8 (38%), quattro anni dopo a Grado sono 9 (43%).
Il successo dell’UGI è spiegato da “Il Mondo”: “Siamo arrivati a questo successo, mi dice il delegato bolognese Franco Roccella, uno dei capi più influenti dell’Unione, perché abbiamo saputo elaborare un programma che rispecchiava fedelmente le aspirazioni della massa studentesca: libertà, laicismo, cultura aperta ed indipendente dalla influenza dei partiti, piena autonomia organizzativa degli organismi rappresentativi. Ognuno di noi si è spogliato della veste di militante in un partito politico per tornare un goliardo culturalmente liberale, laico e progressista”[3].
E quando l’UGI si trova nella necessità di dare un governo all’UNURI con l’Intesa cattolico-democristiana, ciò avviene non in condizioni di subalternità (com’era la regola dei partiti laici minori nei governi con la DC) ma con un accordo paritario di alternanza[4] (4). Infine l’UGI è l’associazione studentesca che con più forza e decisione pone al centro del suo impegno la riforma dell’università.
Al VI congresso nazionale dell’UNURI (Grado 1955) viene approvata la mozione goliardica a firma Ungari e Chiarugi, che pone la questione della riforma dell’Università come grande questione nazionale che deve vedere impegnata la rappresentanza studentesca, ma anche il Parlamento, il governo, la classe accademica, il mondo delle professioni e gli organismi della produzione[5].
L’UGI attira l’attenzione anche della politica e della cultura. Aldo Garosci in un famoso articolo apparso su “Il Mondo” nel gennaio 1951 intitolato “Gli anziani distratti” invitava le forze laiche minori a smetterla con le loro liti e a guardare invece con attenzione a quanto accadeva nelle università, cioè all’esperienza dell’UGI.
Il “Mulino” in una nota sotto il titolo “l’UGI nella vita politica” scrive che l’UGI è “l’unica forza laica che il paese ha saputo esprimere in questi anni” e più oltre “l’UGI è certamente una delle poche realtà democratiche maturate in Italia in questi dieci anni di post-fascismo”, sottolineando “il fatto politicamente rivoluzionario, ed esso sì politico, dell’autonomia dell’UGI”[6].
Infine, “Rinascita”, in una corposa ed attenta analisi di Romano Ledda, definisce l’UGI “uno dei gruppi più irrequieti ed autonomi della gioventù studentesca italiana”, ed aggiunge “l’esperienza di questi giovani intellettuali laici ha il significato ed è voluto essere un tentativo (talvolta efficace) di elaborazione autonoma e originale dei problemi politici e ideali del nostro tempo”[7]. È una UGI che rivendica laicità e democrazia contro il clericalismo vincente, contro la timidezza subalterna delle forze laiche, ma insieme c’è la critica dura e senza sconti alle ambiguità della sinistra marxista.
Quando Festi aderisce a questa UGI è già addentro alla politica: nel 1948/9 è segretario provinciale della Federazione Giovanile Socialdemocratica di Bologna. Iscritto a Cà Foscari, partecipa alla vicenda della Lega degli studenti socialdemocratici, che contribuisce a sciogliere per confluire nell’UGI. Nel 1952 al congresso di Firenze è tra i relatori con una comunicazione su “l’UGI e la vita associativa. La libertà della scuola e della cultura”. Nel 1953 al congresso di Milano ancora relatore sul tema “L’UGI e la rappresentanza universitaria”. Nel 1954 è vicepresidente dell’UNURI e presidente del COSEC, l’organizzazione studentesca mondiale, nel 1956 il congresso di Modena lo elegge presidente dell’UGI. Nell’UGI Festi sarà sempre uomo di parte, cioè fortemente schierato e quindi stimato e combattuto.
Per lui l’UGI non può esaurire la sua funzione nella battaglia, pur fondamentale, per la riforma della scuola e dell’Università, ma deve tentare di portare l’esperienza goliardica oltre l’università nella società e nel paese. Di qui l’impegno per la costruzione dell’Associazione Laureati (che avrebbe dovuto mantenere uniti i goliardi dopo la conclusione degli studi), ma anche la delusione per il suo fallimento.
L’attività di Festi nell’UGI va però soprattutto ricordata per la difesa intransigente dell’autonomia studentesca intesa come valore fondante. La sua comunicazione al congresso di Firenze è sotto questo profilo ancora di rara efficacia: “La nostra civiltà non si è mai giovata del contributo dell’associazione, di quella forza formidabile che potenziò largamente e determinò la società americana ad esempio…Il difetto si ripropone oggi e noi lo chiamiamo partitocrazia. Le associazioni non esprimono mai una loro originalità e aderiscono alla influenza dei partiti, li fiancheggiano per trovare una ragione di continuità e di forza. Il difetto non è nei partiti ma nell’assenza di una precisa personalità civile delle nostre organizzazioni, in definitiva nell’umiliante mancanza di autonomia…Noi rivendichiamo qui con superbia l’indipendenza dell’UGI, la capacità che noi abbiamo di essere un movimento di idee, di essere cioè veramente un’associazione e non un simulacro di ipocrisie e di velleità inutili”[8].
Festi appartiene alla “lunga generazione”, quel gruppo di studenti (tra cui Sergio Stanzani, Roccella, Marco Pannella, Lino Jannuzzi) che dedicando impegno ed energie all’associazione goliardica, trascura gli studi, allungando il tempo universitario. È un “esponente storico della goliardia”[9], ma soprattutto uno dei costruttori dell’UGI.
Ho conosciuto Festi attraverso Stanzani, che mi aveva indirizzato a lui per avere notizie ed informazioni di prima mano dell’UGI. Da Festi ho ricevuto (dall’8 marzo 2011 al 7 febbraio 2016) 21 lettere; 9 e-mail scambiate da Festi con Ciferri[10], Vanzetti[11] e Loteta[12], 11 documenti inediti relativi agli anni 1954 e 1955 trasmessi a Festi da Vanzetti nella primavera del 2015. Da questo materiale non è stata ricavata una storia organica, ma un insieme di avvenimenti e di episodi che si possono leggere come tanti racconti, che illustrano la vicenda dell’UGI con gli occhi di un protagonista.
[1] Può essere utile annotare che Giorgio Festi è il più citato tra gli esponenti dell’UGI nei libri di seguito indicati: “La formazione della classe politica in Europa (1945-1956)”, a cura di Giorgio Orsina, Gaetano Quagliariello, Lacaita editore, Manduria-Roma, 2000; Vittorio Emiliani, “Cinquantottini”, Marsilio, Venezia, 2016
[2] Unione Nazionale Universitaria Rappresentativa Italiana. È la struttura nazionale costituita dagli organismi rappresentativi eletti ne vari atenei
[3] Paolo Pavolini, “La terza forza in Aula Magna”, in “Il Mondo” 20 gennaio 1951
[4] L’accordo prevede anche che l’associazione che esprime il presidente sia minoranza nella Giunta Esecutiva
[5] Il testo integrale della mozione in “Democrazia liberale”, anno III, n.8 novembre-dicembre 1959, pag. 38
[6] “Il Mulino”, n.12/1954, pp.770-772
[7] Romano Ledda “Orientamenti delle nuove generazioni nelle vicende dell’Unione Goliardica”, in “Rinascita” n.3/1956, pp.170-174
[8] Unione Goliardica Italiana, “Goliardia è cultura e intelligenza”, Firenze, 1954, pp.30-31
[9] Gaetano Quagliariello, “La formazione della classe politica in Europa (1945-1956)”, op. cit., pag. 64
[10] Orio Ciferri, studente dell’ASUP (l’associazione goliardica di Pavia) è componente del Consiglio di Goliardia, l’organo di direzione dell’UGI formato da sette studenti, eletto nei congressi di Genova (1950) e di Firenze (1952)
[11] Adriano Vanzetti è presidente dell’ASUP nel 1952 e 1953, vicepresidente dell’UGI dopo il congresso di Milano. Scomparso nel 2018, è stato ricordato da Virginio Rognoni, anch’egli studente dell’ASUP come “giovanissimo partigiano per la libertà”
[12] Giuseppe Loteta è uno dei principali esponenti dell’Unione Goliardica Messinese
di Piero Pastorelli