Proposta Radicale 9 2023
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Recensioni

Costa. Le tigri del mondo

di Valter Vecellio   

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Anna Politkovskaja, una vita per la verità

di Michele Minorita 

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Costa. Le tigri del mondo

Costa. Le tigri del mondo

di Valter Vecellio   

Colpa, se colpa si vuol dare, di Oreste del Buono. Lui spazza via ogni residuo di dubbio e perplessità. Si parla un giorno di libri ed autori, ne conosce un’infinità per il suo lavoro e l’insonnia che non lo debilita. Elogia Liala, Carolina Invernizio. Legge in viso la perplessità, sorride: “Sai quante ragazze umili del principio del secolo, a forza di leggere che la principessa o la marchesina, prima dell’incontro fatale con il pilota o l’ufficiale di cavalleria, si fanno il bagno, si profumano, cambiano la biancheria intima? Così’, anche loro per essere un po’ principesse, un po’ marchesine…”.

Sì: un buon libro non deve per forza annoiare. Anzi, può e deve divertire; e forse proprio quando diverte, appassiona, ti incolla pagina dopo pagina fino all’ultima, è un buon libro, un buon romanzo, una bella storia.

Buone storie e bei libri sono quelli di George Simenon, e mai che un suo racconto ti strappi uno sbadiglio, un “uffa!”. Formidabile autore è Mark Twain col suo “Tom Saywer” e il suo “Huckleberry Finn” e perfino quando si mette in testa di scrivere una monumentale storia di Giovanna D’Arco. Non per nulla Ernest Hemingway lo ritiene il padre della letteratura americana.

Niente steccati, niente prevenzioni, dunque. Piuttosto, un “salto”. All’ONU discutono una risoluzione di condanna dell’attacco russo all’Ucraina. Passa a larghissima maggioranza: 141 paesi favorevoli, 32 si astengono, altri 12 scelgono di essere assenti. Sette dicono di no. Con la Russia si schierano i soliti: Bielorussia, Corea del Nord, Siria. Con Mosca si schiera anche il Nicaragua, e fa cinque. Gli altri due? Eritrea e Mali. Una sorpresa, per chi non presta molta attenzione a quello che accade in Africa. La visiva prova che il ministro degli Esteri Sergei Lavrov non si limita ad accodarsi alle minacce contro Stati Uniti e Unione Europea. Si possono mettere insieme delle tessere e piano piano prende forma un mosaico inquietante: manovre navali congiunte Russia, Cina, Sud Africa. Dei due paesi africani contrari alla mozione di condanna s’è detto. Tra gli astenuti ben 19 sono africani e 7 tra gli assenti. Praticamente mezza Africa non condanna Mosca e la sua invasione. ‘Eritrea è da tempo terra perduta per l’Occidente, una specie di Corea del Nord; ma il Mali? Che accade a Bamako e dintorni? Tra il lusco e il brusco al posto della vecchia e gloriosa Legione, dei parà di Camp Raffalli in Corsica ora troviamo i mercenari delle brigate russe Wagner: le stesse che si sono impiantate in Libia, in Siria, che combattono in Ucraina e in chissà quanti altri luoghi “dimenticati”. Il 14 maggio 2021 in Mali si consuma un golpe, il paese viene sospeso dall’Ecowas, dalla Francofonia e dall’Unione africana. I francesi che nella loro ex colonia hanno sempre esercitato una sorta di controllo, nel 2022 vengono cacciati. Non è solo il Mali. In tutta quella parte di Africa che parte dall’Oceano Indiano e arriva all’Atlantico, cinesi, russi, guerriglieri e terroristi islamici al soldo di questo o quello, gli americani certo, ma anche gli inglesi e i francesi, si contendono terre miserrime, dove l’alternativa al morire di fame è fuggire; ma al tempo stesso sono ricchissime di minerali “rari” che fanno gola a tutti, e tutti sono disposti a tutto pur di accaparrarseli.

Signoroni, chiederà qualcuno, che c’entra in tutto questo? Signoroni è il Gérard de Villiers italiano. Avete letto qualche suo “romanzetto”? Sì, d’accordo: il suo personaggio, il principe austriaco e agente esterno della CIA Malko Linge è rozzo e stucchevole. Nulla a che vedere con James Bond. Ma è altra la “polpa”. Procuratevi qualcuno dei suoi duecento e passa romanzi, è sorprendente come le sue storie siano in singolare sintonia con eventi contemporanei che dopo breve tempo si verificano. Non è certo Nostradamus. Semplicemente avrà buone fonti, buona documentazione, capacità di collegare fatti che appaiono tra loro distanti.

E il metodo di lavoro di Secondo Signoroni. Il protagonista delle sue storie è un carabiniere Dario Costa. Nell’ultima (per ora), si racconta di due membri inglesi dell’OMS e di un funzionario della Croce Rossa massacrati al confine tra Tanzania e Mozambico. Da qui si scivola a un vorticoso traffico di droga e armi. Senza dilungarsi troppo, la storia si dipana tra ingralisti salafiti, pirati somali, petrolieri, trafficanti, politici corrotti, mercenari di ogni nazionalita…

Signoroni, una professione di chimico alle spalle, ha già realizzato un discreto numero di polizieschi e ora si concentra sul genere spy story. Il suo Costa non è uno spaccamontagne: è una persona con buon intuito, tendenzialmente tranquillo, la sua filosofia vorrebbe essere quella del “vivi e lasciali morire”. L’esordio con il poliziesco, per protagonista il celebre poliziotto italo-americano Joe Petrosino, da tempo sostituito con Costa. Si indovina, alla base delle sue storie, una preparazione accurata, una non comune documentazione e capacità di individuare i teatri che prima o poi saranno “attualità di prima pagina”. Un buon ritmo narrativo, capacità non comune di esposizione e “descrizione”, meccanismi e tecniche di buon livello senza scadere nel lezioso autocompiacimento. Una buona miscela di ironia e amarezza, pragmatismo che non scivola nel cinismo.

Signoroni, se una digressione è concessa, fa pensare a uno scrittore americano, Stuart Kaminsky. Docente di cinema all’università di Evanstone, inventa la figura di uno strampalato investigatore, Toby Peters, che si muove nella Hollywood anni ’30-’40, di volta in volta incontra John Wayne e Gary Cooper, i fratelli Marx e Marlene Dietrich. Le busca di santa ragione per tre quarti del libro, ma vince sempre lui. La caratteristica e il valore dei racconti è nel fatto che la “cornice” è straordinariamente accurata e precisa. Se dice che quel giorno a Los Angeles era in programma quel film, e il giornale a pagina 7 aveva quel titolo, ci potete scommettere che ha controllato di persona. Non per nulla Sergio Leone lo chiama a Roma e per un paio di settimane gli fa super-visionare la sceneggiatura del suo ultimo film, “C’era una volta in America”.

Kaminsky è anche autore di una serie di polizieschi ambientati nella Russia che sta per entrare nella fase gorbacioviana. Il suo personaggio è un ispettore di polizia, Porfirij Rostnikov, mal visto perché ha una moglie ebrea e il brutto vizio di ficcare il naso in “affari” dove c’è sempre un potente di turno che vorrebbe mettere tutto a tacere. Ha fatto in tempo a scrivere quindici o sedici romanzi di ambiente russo, alcuni anche tradotti in Italia. Ebbene: si impara più da quei romanzi su quello che è accaduto nell’ex URSS che da tanti corposi saggi di sovietologi laureati. 

Lo si legga, e con attenzione, Signoroni. Per piacere, per “dovere”. Costa è una sorprendente fonte di conoscenza.

Secondo Signoroni

Costa, le tigri del mondo. Mondadori 

Anna Politkovskaja, una vita per la verità

Anna Politkovskaja, una vita per la verità

di Michele Minorita

Ci sono libri che più di altri procurano fastidio, irritazione. Ce li scrolliamo letteralmente di dosso. Se ne potrebbe fare lungo elenco; per dire: le “Journal d’un condamné à mort” di Edouard Kouznetsov, tradotto da Longanesi in “Senza di me”. Per trovarlo, bisogna rivolgersi all’usato. Pubblicato in Francia nel 1974, il nome del suo autore (e del suo caso) ormai poco dirà, a pochi: disperato tentativo di fuggire dalla Russia allora sovietica dirottando un aereo, conclusosi con l’arresto, all’aeroporto di Smolyne, di coloro che l’avevano concepito, il processo, le durissime condanne. Per Kouznetsov, la condanna a morte, commutata nell’internamento di un campo “a regime speciale” per 15 anni. Il suo libro clandestinamente arriva alle edizioni Gallimard.

   Casi come quelli di Kouznetsov in Italia li si sono vissuti come insopportabili: vuoi per uno zelo e un interessato riguardo nei riguardi del Partito Comunista, vuoi perché “pas d’ennemis a Est”, per un riflesso più o meno condizionato. Quello di Alexander Solgenitzin, per esempio, e nonostante il premio Nobel, lo si è liquidato con una prontezza che non ha riscontro in nessun altro paese europeo; la parola stessas gulag, ormai spaventosamente familiare dovunque, nel nostro lessico è pronunciata con prudenza e parsimonia.

   Di Solgenitzin ci si è fatti pronta ragione: anticomunista viscerale (e con più d’una personale ragione), dogmatico, a un certo punto perfino libero, ricco, premio Nobel… Insopportabile davvero. Per un Kouznetsov o ancor prima per un Varlam Shalamov e i suoi racconti di Kolyma non c’è però nessuno di questi alibi.

Che alibi ha l’Italia, l’Europa, il suo Parlamento, quando viene uccisa dai killer di Vladimir Putin Anna Politkovskaja, la più famosa delle decine di giornaliste scomode, e al suo funerale accorre il solo Marco Pannella, pur malato e vivamente sconsigliato dai medici di intraprendere un così faticoso viaggio ancora malfermo? Qual è l’alibi di oggi, di aver frettolosamente archiviato il libro di Vera, la figlia di Anna, uscito a un anno dalla brutale invasione dell’Ucraina da parte della Russia e a sedici anni dalla morte della giornalista? “Mia madre”, dice Vera, “è sempre stata una persona scomoda, non solo per le autorità russe, ma anche per la gente comune. Scriveva la verità, nuda e cruda, su soldati, banditi e civili finiti nel tritacarne della guerra. Parlava di dolore, sangue, morte, corpi smembrati e destini infranti”. È questo che irrita, infastidisce? La verità, che qualcuno la racconti, la divulghi? 

Anche Vera, come sua madre, è giornalista. Quando Anna viene uccisa ha 26 anni. Da allora si batte insieme al fratello per avere giustizia. Ha fatto sua la lezione della madre: “Siate coraggiosi e chiamate sempre le cose con il loro nome, dittatori compresi“.

Una madre” è anche il racconto della seconda guerra in Cecenia, la corruzione, i delitti e le omertà della Russia di Putin. Uccidere Anna non basta, non è bastato: il cognome Politkovskaja è un pesante fardello: simbolo per chi lotta per la libertà da una parte; per questo oggetto di minacce, al punto che Vera è costretta praticamente a vivere in clandestinità. Il libro è un modo per non smarrire completamente la memoria di quello che è stato e che tuttora accade: “In Russia si sono dimenticati in fretta di Anna Politkovskaja, soprattutto la gente che conta, perché mantenere la memoria di persone come mia madre è pericoloso. È molto più comodo perderne le tracce e dimenticare la sua verità” sospira Vera.

Chiamare le cose con il loro nome, contro qualsiasi divieto”, questo l’insegnamento che Anna ha trasmesso a Vera. Ricorda che già tanti anni fa, inascoltata, la madre metteva in guardia sulla versa natura di Putin e il suo totalizzante sistema di potere; ha cura di ammonire il regime è ancora molto forte “non è un castello di carta, si regge su colonne solide. Un esempio: a scuola, una parte del programma è dedicata al patriottismo, che riprende modi di pensare e di guardare al passato che vengono dall’Unione Sovietica. Fin da piccoli ci viene insegnato a guardare il mondo con gli occhi di qualcun altro. Prima che tutto questo cambi radicalmente ci vorrà molto tempo ed è un passaggio che costerà delle vite”.

E la guerra in Ucraina, le migliaia di soldati russi mandati allo sbaraglio? “Putin li usa come carne da macello. Mia madre diceva che per lui le persone sono come polvere sotto gli stivali”. La paura spiega perché le manifestazioni contro la guerra sono poche, isolate, facilmente represse: “In Europa se una persona partecipa a una manifestazione la sera torna a casa e dorme nel suo letto. In Russia se va bene passa una notte in cella. Ma può anche non uscirne più, essere pestata e morire per le botte. C’è anche una parte di popolazione che è d’accordo con questa guerra e una parte che invece non scende in piazza perché teme quello che verrà dopo Putin”.

Vera Politkovskaja (con Sara Giudice)

“Una madre”, Rizzoli

iMagz