colloquio con Fabio Trizzino
“Questa sentenza è importante perché, al di là degli aspetti connessi alla calunnia che sembrano blindati, è la prima sentenza, in 30 anni, che dice chiaramente che a questa strage hanno concorso, moralmente e materialmente, soggetti appartenenti a corpi istituzionali dello Stato italiano”.
A parlare con l’agenzia Adnkronos, a nome della famiglia Borsellino, è l’avvocato Fabio Trizzino, genero del giudice ucciso in Via D’Amelio e legale di parte civile nel processo depistaggio. “Sotto questo profilo”, dice Trizzino commentando le motivazioni della sentenza emessa lo scorso luglio e depositate ben nove mesi dopo in cancelleria, “i giudici valorizzano la vicenda incredibile connessa al reperto fondamentale della strage, che è a borsa del giudice Borsellino, e la sottrazione immediata dell’agenda rossa”.
“Questa sentenza, a mio giudizio”, dice ancora l’avvocato Trizzino, sposato con Lucia Borsellino, “è estremamente importante perché amplia lo spettro dello scenario che ha preparato la strage, individuandolo nell’isolamento e nella delegittimazione che il giudice subisce per effetto dell’ostracismo del Procuratore di allora, Pietro Giammanco. E, in questo, la sentenza valorizzando quanto stabilito dalle precedenti sentenze, si attarda molto sulla questione delle indagini relative al dossier ‹Mafia e appalti›, quindi fermo restando che ci possono essere state quelle che si potrebbero definire, come diceva Aldo Moro, ‹convergenze parallele›, finalmente ci concentriamo sul ‹nido di vipere› e sulle indagini su Mafia e appalti, che il giudice voleva rivitalizzare”.
Era stato proprio Borsellino a parlare, poco prima della strage e dopo la strage di Capaci, di “nido di vipere”, riferendosi al suo ufficio, come ha raccontato in aula il magistrato Massimo Russo. “E qui come va?”, gli aveva chiesto Russo. E la risposta di Borsellino fu: “È un nido di vipere”. Un dettaglio in più per chiarire, a quasi 31 dalla morte di Borsellino e dei 5 agenti di scorta, in quale ambiente si fosse ritrovato a lavorare l’amico di Falcone che fremeva perché non poteva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci.
“Poi ci sono altre convergenze”, spiega ancora Trizzino. “Non sta a me dirlo, ma finalmente ci si concentra su qualcosa di concreto, che non è stato esplorato a sufficienza in questi anni. Speriamo Che la Procura di Caltanissetta si muova perché sono d’accordo con i giudici nisseni quando nelle motivazioni scrivono che ‘30 anni sono troppi’ per potere non considerare il quadro probatorio debole. È una sentenza che costituisce, dal mio punto di vista, un punto di non ritorno”.
di Giovanni Fiandaca
Auspicare una verifica pubblica del 41 bis non equivale a fare un inchino ai mafiosi, a cedere alle loro illecite pressioni. Fermezza, diritti e regimi speciali. Verità non convenzionali sul caso Cospito. Come è già stato rilevato, sono almeno tre le questioni problematiche connesse al prolungato sciopero della fame dell’anarchico Alfredo Cospito, riguardanti rispettivamente: 1) la tutela della sua vita e della sua salute; 2) la legittimità dell’applicazione nei suoi confronti del regime detentivo speciale (cosiddetto carcere duro) di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario; 3) la persistente necessità di mantenere in vita l’attuale 41-bis come dispositivo di portata generale.
Dopo il trasferimento di Cospito dal carcere di Sassari a quello di Milano-Opera, ben più attrezzato quanto a presidi sanitari, il problema della tutela della sua salute risulta in parte ridimensionato (incombe certo il rischio concreto di un progressivo peggioramento delle condizioni di salute a causa del protrarsi del digiuno, potenzialmente contrastabile con un ricovero in una struttura ospedaliera esterna, pur rimanendo problematico un eventuale ricorso a strumenti di alimentazione forzata avendo l’anarchico già manifestato in proposito una anticipata volontà contraria).
Quanto alla questione sub 2), il discorso è complesso in punto sia di fatto che di diritto, per cui sarebbe illusorio pensare di poter prospettare risposte assolutamente certe e univoche nel senso della legittimità o illegittimità del decreto col quale la ex ministra della Giustizia Cartabia ha – nel maggio 2022 – sottoposto Cospito al regime speciale di detenzione. Rispetto alle motivazioni di una tale decisione (una ampia sintesi è al riguardo contenuta nell’articolo di S. Feltri apparso in Domani 3 febbraio 2023, col titolo Ideologo più che capo, cosa c’è dietro al 41 a Cospito), va in via preliminare richiamata la finalità specifica del carcere duro così come precipuamente individuata rispetto ai mafiosi (o terroristi) di spiccata pericolosità: impedire che soggetti rivestenti un ruolo apicale o comunque elevato nelle organizzazioni criminali di appartenenza possano pur da reclusi, eludendo la sorveglianza imposta dallo stato detentivo, riuscire a comunicare con l’esterno e a mantenere così una posizione che li pone in condizione di impartire ordini criminosi e direttive di azione agli altri associati in libertà.
Ciò premesso, l’interrogativo è questo: il ruolo impersonato da Cospito all’interno della galassia anarchica è davvero paragonabile a quello di membro direttivo di un’associazione criminale, che dispone di una struttura organizzativa simile a quella delle associazioni terroristiche o mafiose in senso stretto? In effetti, per rispondere a questa domanda sarebbe necessaria una sottile e sofisticata ‘ermeneutica del fatto’ (preliminare rispetto alla ‘ermeneutica del diritto’, anche se i due versanti ermeneutici finiscono con l’intersecarsi), volta a verificare se i processi già celebrati con le relative sentenze, le indagini giudiziarie concluse o ancora in corso, i pareri delle procure competenti e della procura nazionale antimafia e antiterrorismo, nonché le informative di polizia sulle condotte materiali e le prese di posizione ideologiche di Cospito fornissero una piattaforma cognitiva sufficiente a giustificare la conclusione che Cospito non fosse soltanto o soprattutto un ideologo incline a lanciare messaggi incendiari genericamente pericolosi per la sicurezza pubblica (suscettibili di essere poi recepiti e tradotti in azioni violente da anarchici agenti a titolo pur sempre individuale, o comunque al di fuori di ogni vincolo organizzativo di sottoposizione gerarchica a un capo), bensì anche un soggetto posto al vertice direttivo e organizzativo di gruppi criminali suscettibili di essere qualificati associazioni terroristiche in senso proprio, in quanto dotate di un minimo di struttura organizzativa e operanti secondo indicazioni e direttive provenienti dall’alto.
Non potendo essere questa la sede più adatta a svolgere una rilettura approfondita e dettagliata della eterogenea messe di documenti contenenti le basi cognitive del decreto ministeriale, né delle motivazioni con le quali il tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato il reclamo della difesa che contestava la legittimità del 41 bis, direi forse con eccessiva sintesi questo: cioè che i molteplici, complessi e pur ambivalenti dati disponibili facevano apparire quantomeno plausibile la decisione politico-amministrativa di applicare a Cospito il regime del carcere duro. Ma non c’erano modalità d’intervento meno drastiche, cioè forme di sorveglianza pur sempre rigorosa ma meno incisiva, potenzialmente adottabili nell’ambito di un adeguato circuito di cosiddetta alta sicurezza (cosa diversa, nell’attuale assetto organizzativo delle nostre carceri, dal 41-bis) per impedire a Cospito di comunicare con l’esterno? Difficile rispondere in termini di certezza anche a questa domanda.
Forse, a giudicare con il senno di poi – considerando le numerose manifestazioni e reazioni anche a carattere violento seguite alla clamorosa contestazione del 41-bis inscenata da Cospito col digiuno a oltranza, e considerando anche da un lato i successivi tentativi di strumentalizzazione di tale scelta contestatrice da parte di alcuni mafiosi al 41-bis e dall’altro il gioco politico sporco attuato con comportamenti istituzionali gravemente scorretti dagli esponenti politici meloniani Delmastro e Donzelli (inclusa l’assurda accusa di essersi “inchinati ai boss” rivolta ai parlamentari del Pd che erano andati in visita al carcere di Sassari per verificare lo stato di salute dell’anarchico digiunante) – ricercare strade diverse dal carcere duro per fronteggiare il rischio che Cospito diffondesse fuori dalla prigione messaggi pericolosi sarebbe stata opzione più saggia.
Rimane la terza questione di fondo, che è quella più impegnativa e che – non a caso – non è facile, a tutt’oggi, affrontare nello scenario pubblico in maniera razionalmente argomentata e approfondita. A complicare la discussione, e a renderla simile a una sorta di guerra di religione, concorre una molteplicità di fattori in diversa misura interagenti. Esercitano un peso non secondario nell’inasprire e accentuare l’aggressività emotiva del dibattito le immediate reazioni allarmate degli ampi settori di pregiudiziale vocazione giustizialista rispettivamente presenti invero in entrambi gli schieramenti di centrodestra e di centrosinistra.
Questi fronti giustizialisti, politicamente trasversali, reagiscono in piena sintonia con le ali più radicali e combattive dell’antimafia giudiziaria e mediatica, i cui esponenti per accreditare la legittimità e intangibilità del carcere duro ricorrono persino a un argomento simil-sacrale, e cioè affermano che il 41-bis non si può porre in discussione perché ciò equivarrebbe a ignorare che esso è nato dal sangue di Falcone e Borsellino e, perciò, a svilirne il sacrificio e disprezzarne la memoria. Ma, a prescindere da simili (più che discutibili) approcci tabuistici, è noto come le procure antimafia e i fronti politico-sociali a loro collaterali tendano a desumere la legittimità costituzionale del regime di massima sicurezza dalla sua ritenuta utilità quale strumento irrinunciabile di neutralizzazione della spiccata pericolosità specie di quei soggetti che occupano nelle organizzazioni criminali una posizione di rango elevato.
La funzionalità in chiave utilitaristica di un istituto può, in un ordinamento giuridico come il nostro, essere assunta a esclusivo o prevalente criterio della sua legittimità costituzionale? Che lo pensino per lo più i magistrati d’accusa, e in particolare quelli più direttamente impegnati nel contrasto della criminalità organizzata (insieme con gli esponenti dell’antimafia politico-sociale e mediatica collaterale alle procure), non sorprende troppo: ognuno fa il suo mestiere, e in quest’ottica latamente professionale non stupisce che l’intera Costituzione rischi di essere letta secondo una specifica ottica totalizzante, cioè pressoché tutta sub specie antimafiae.
Senonché è forse superfluo rilevare che l’antimafia politico-sociale-giudiziario-mediatica di orientamento più radicalmente combattente-punitivista non può – al di là della sua buona fede e di alcune possibili buone ragioni – pretendere di stabilire la maniera più corretta di interpretare i principi costituzionali in materia penale. Non solo il modo di concepire e applicare il diritto in generale, ma la stessa interpretazione e applicazione della Costituzione non può che essere – a maggior ragione nella realtà contemporanea – una impresa collettiva aperta al contributo legittimo, doveroso e concorrente di una pluralità di attori, dai politici ai cittadini comuni, dai magistrati ai diversi livelli giurisdizionali e dagli avvocati ai giuristi di matrice universitaria; e in questo contesto pluralistico di voci concorrenti, neppure alla Corte costituzionale può essere riconosciuto il potere di dire l’ultima parola una volta per tutte, essendo anche le scelte interpretative della Consulta suscettibili di valutazione critica da parte degli altri co-protagonisti del processo ermeneutico e, in quanto passibili di progressivo affinamento, modificabili nei percorsi evolutivi della sua giurisprudenza.
In un simile orizzonte pluralistico e articolato, stupirà allora fino a un certo punto constatare come non vi sia affatto concordia di vedute neppure su che cosa in effetti sia il 41-bis dal punto di vista della sua natura giuridica: infatti, il carcere duro è stato e continua a essere rispettivamente qualificato – a seconda delle opinioni finora emerse nello scenario dottrinale e giurisprudenziale – una mera modalità di esecuzione della pena detentiva, una misura di prevenzione, una misura di sicurezza, o ancora una misura a carattere pur sempre sanzionatorio per la componente di supplementare afflittività connessa alla forte compromissione dei diritti della persona reclusa, e persino una pena accessoria. Un lettore profano potrebbe rinvenire in questa proliferazione di punti di vista una riprova di quell’eccesso di concettualismo astratto e formalistico che ha ad esempio indotto Goethe, nella scia di Lutero e altri celebri predecessori, a etichettare i giuristi “cattivi cristi”. È anche vero d’altra parte che la fisionomia complessiva del 41-bis sfugge a un inquadramento categoriale preciso, ed è proprio la sua ambigua polivalenza di strumento al tempo stesso preventivo e fortemente repressivo a conferire all’istituto un carattere ibrido, non privo di rilevanti effetti ulteriormente sanzionatori poco giustificabili alla stregua del duplice principio di umanità delle pene e rieducazione sanciti dal terzo comma dell’art. 27 della Costituzione.
Né il salvataggio dell’istituto finora operato dalla nostra Corte costituzionale e dalla Corte europea di Strasburgo può di per sé fugare tutti i ragionevoli dubbi di incostituzionalità, apparendo abbastanza verosimile che la rinuncia a invalidarlo sia soprattutto spiegabile in base alla preoccupazione, improntata a realismo e opportunità politica più che a scrupolosa fedeltà al costituzionalismo nazionale ed europeo, di mantenere in vita uno strumento di prevenzione-repressione antimafia considerato necessario nel contesto italiano dalle forze politiche maggioritarie e dalla magistratura prevalente. Ma che la compatibilità del 41-bis con la Costituzione risulti in ogni caso alquanto problematica è confermato dalla lettura della stessa giurisprudenza costituzionale in materia, che ha più volte affermato e ribadito che il regime detentivo speciale soggiace a limiti invalicabili posti a protezione di diritti, valori ed esigenze che vanno costituzionalmente bilanciati con la tutela della sicurezza collettiva e con gli obiettivi perseguiti con l’azione di contrasto della criminalità organizzata; e, comunque, la Consulta non manca di sottolineare la necessità di non violare il divieto costituzionale di trattamenti inumani e, altresì, di non vanificare completamente il fine rieducativo della pena.
Quanto i suddetti limiti e paletti risultano effettivamente rispettati nella attuale gestione concreta del carcere duro? Interrogativo difficile e imbarazzante, come accade in tutti i casi in cui si tratta di verificare il livello di corrispondenza tra le enunciazioni teoriche e la prassi. Senza contare che lo stesso principio di umanità della pena tollera interpretazioni più strette o più late, in quanto è influenzata anche dalla sensibilità individuale la valutazione se una determinata limitazione apportata a un diritto formalmente riconosciuto dall’ordinamento penitenziario sia o meno conforme al principio umanitario. Vale in proposito il criterio quantitativo-statistico facente leva su una (presunta più che scientificamente accertata) sensibilità sociale maggioritaria, o soccorre un criterio di giudizio a carattere qualitativo-assiologico? Se domande come queste ammettono più di una risposta, una cosa invece considero più certa anche in base alla mia esperienza (diretta e indiretta) di garante regionale dei detenuti: non solo nelle attuali sezioni di carcere duro, ma anche nella stragrande maggioranza dei circuiti penitenziari di cosiddetta alta sicurezza in realtà nulla o assai poco si fa, sul piano trattamentale, in vista del fondamentale obiettivo – che una Carta costituzionale come la nostra idealmente persegue rispetto a tutte le tipologie di rei, nessuna esclusa – di promuovere la rieducazione (comunque la si voglia intendere) dei condannati per reati di criminalità mafiosa: essendo assolutamente predominante la preoccupazione di garantire la sicurezza esterna, l’istanza rieducativa continua tutt’al più a essere evocata in maniera ipocrita e retorica, mentre nei fatti più che secondaria diventa irrealistica (cfr. il recente volume di A. Menghini, Carcere e Costituzione, Editoriale Scientifica, 2022, 394 ss.; sulla spinosa questione della rieducatività dei mafiosi si veda anche il dibattito a più voci intitolato Che cosa significa rieducare soggetti appartenenti alla criminalità organizzata? e pubblicato in Ristretti orizzonti, n. 3/2022).
Sulla base delle considerazioni che precedono, può apparire frutto di pregiudizio ideologico o di superficialità ed emotività di giudizio, come pure di interessata difesa di bacini elettorali, ruoli professionali o consolidati assetti burocratico-corporativi interni all’amministrazione penitenziaria, rivendicare oggi con certezza la necessità di mantenere il 41-bis così com’è sia nella disciplina normativa, sia nella prassi applicativa. La stessa vicenda Cospito, piuttosto che fungere da ulteriore pretesto per ennesime polemiche e contrapposizioni politiche strumentali, avrebbe potuto in teoria innescare quantomeno l’inizio di un confronto pubblico volto a verificare seriamente – senza dogmi preconcetti e senza sospettosa animosità – la sopravvivenza delle ragioni sia giuridiche sia criminologiche che hanno giustificato il modello di carcere duro adottato (non senza progressive correzioni e delimitazioni specie ad opera dei giudici costituzionali) nell’ultimo trentennio.
Nulla in verità rimane nel corso degli anni uguale a se stesso, e ciò vale pure per le mafie come per le antimafie (anche l’antimafia, come sappiamo, si manifesta in versioni diverse, ora più radicali ora più moderate). Da questo punto di vista, all’esigenza di una verifica, di un collaudo o messa a punto non si sottrae neppure il 41-bis, che andrebbe riconsiderato tanto nei suoi presupposti criminologici alla stregua di conoscenze empiriche aggiornate, quanto nelle sue condizioni di legittimità sotto il profilo giuridico-costituzionale.
Concludendo, tenderei a considerare valida anche rispetto al regime detentivo speciale la tesi sostenuta più in generale dal grande giusfilosofo primo-novecentesco Gustav Radbruch, secondo il quale un’entità complessa come il diritto si basa su tre valori fondamentali, che dovrebbero costituire oggetto di un equilibrato bilanciamento: utilità, giustizia e certezza. Riferendo questi tre valori al nostro tema, ne consegue che il 41-bis andrebbe auspicabilmente rivisitato per verificarne oggi il grado di corrispondenza a una sua persistente utilità pragmatica, non disgiunta però da una sua giustizia da intendere (più che in termini vetero-retributivi) come adeguato rispetto dei diritti e delle garanzie individuali che vanno riconosciuti agli stessi capi di organizzazioni criminali e, infine, a una certezza da concepire come puntuale predeterminazione dei suoi presupposti applicativi.
Auspicare una verifica pubblica del carcere duro, sotto il triplice aspetto di cui sopra, equivale a fare un inchino ai mafiosi, a cedere alle loro illecite pressioni o ad assecondare nuove, ipotetiche e oscure trattative stato-mafia?
(da “Il Foglio”)
di Gualtiero Donati
Tre anni, tre mesi, dodici giorni in preventiva carcerazione. L’accusa: fare parte di un’associazione mafioso. Infine sentirsi dire che no, “in nome del popolo italiano” il tribunale di Locri lo assolve da ogni accusa. Questa, in sintesi la storia di Antonio Rodà, calabrese di origine, da trent’anni trapiantato a Sansepolcro, vicino Arezzo. Rodà era un imprenditore nel settore florovivaistico. Quel 12 dicembre del 2019 lo ricorda bene, come potrebbe essere altrimenti? “Vengono a prendermi a casa alle tre e mezza del mattino. Mi stavo preparando per andare al lavoro. Gli agenti hanno pensato che mi fossi tenuto pronto perché sapevo che mi avrebbero arrestato”. L’arresto viene annunciato in una conferenza stampa congiunta del procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, e del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. In coordinamento tra loro, gli uffici hanno lanciato operazioni contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta in Umbria. Quella catanzarese è battezzata “Infection”; quella reggina “Core Business”. In tutto 27 provvedimenti restrittivi e sequestro di beni per un valore di circa 10 milioni di euro. Il nome di Rodà finisce sui principali organi di informazione nazionali. Secondo l’ipotesi accusatoria l’imprenditore è in contatto con persone finite nel mirino della Direzione distrettuale di Reggio Calabria per possibili legami con la ndrangheta. “La domanda che mi facevo costantemente in carcere era: perché? Perché sono qui?”, racconta Rodà. I Pubblici Ministeri chiedono una condanna a 15 anni. Il tribunale di Locri lo assolve da ogni accusa (con lui altri sei imputati). “Per far sì che la detenzione fosse meno afflittiva mi sono iscritto all’università in scienze gastronomiche. Mi tenevo impegnato con un terreno che avevamo in dotazione, producevamo ortaggi, zafferano, prodotti di stagione”.
Ancora: “La mia attività commerciale è stata pesantemente danneggiata dalla vicenda, se è rimasta in piedi è solo grazie ai miei famigliari. Io so solo che avevo 66 anni, oggi ne ho 70, chi mi ridarà gli anni che non ho potuto vivere e trascorrere con la mia famiglia?”.
di Maria Antonietta Farina Coscioni
Una antologia che parla di amore, di vita, di bellezza, di speranza e di dignità contro ogni forma di odio, violenza e bruttezza: va letta tutta d’un fiato, senza pause. E ringraziare per la pubblicazione della raccolta “Io donna dico No. Libera di scegliere”, Aurora Di Giuseppe della PAV Edizioni e i suoi autori è davvero poca cosa.
Come non dedicare un pensiero all’oppressione delle donne iraniane che si oppongono al regime dei fanatici ayatollah che va avanti sin dalla istituzione della Repubblica islamica? Le donne e anche le ragazzine, sottoposte a rigidi codici di abbigliamento isolandole dalla società che si vorrebbe ridurre a oggetti del desiderio. L’emarginazione delle donne è profondamente radicata nel regime islamista come strumento di controllo del popolo iraniano. Dopo la morte violenta di Mahsa Amini, uccisa dalla polizia religiosa, le donne iraniane si stanno opponendo rischiando la vita, alla tirannia del regime fondamentalista. Da mesi, ogni giorno, per rivendicare e difendere la dignità della persona. “Donna Vita Libertà” lo slogan. A gridarlo nelle piazze migliaia di uomini e donne, insieme, ovunque in diverse parti del mondo. Non sono mobilitazioni “ad personam”, ma contro una cultura, una “logica”, che produce enormi danni, sia quando questa si traduce in comportamenti “pubblici” che in comportamenti “privati”.
La violenza aggressiva va condannata sempre. In ogni luogo e in ogni dove. A ben vedere esistono anche una quantità di vere e proprie violenze invisibili, che si consumano esattamente in quel “privato” che si vuole intoccabile e che pure essendo note, si preferisce ignorare: violenze e crudeltà forse, più odiose, inaccettabili e insultanti per le donne, spesso costrette a subirle in silenzio: vittime di ricatti morali, psicologici e condizionamenti.
In piazza, dunque, contro tutte le violenze quotidianamente sofferte: quelle visibili e fisiche, quelle “sottili”, invisibili e occultate, contro le mille discriminazioni cui siamo fatte oggetto in famiglia, nel mondo del lavoro, nella società. E capita ancora, spesso, di non essere pronte a parlare.
Sono passati alcuni anni. Era forse ottobre (del 2018). Quando mi schierai dalla parte di Asia Argento, una sera a cena; poi decisi di scriverne. Perché si sa: se la vita di una donna non è “regolare”, le violenze subite non sono credibili. Così non solo il danno anche la beffa. “Metti, una sera a cena. Così, in compagnia di amici cari, dopo una giornata di lavoro. La pizzeria è buona, ti trattano bene. Non hai molta voglia di fare e ascoltare discorsi seri, impegnati. E poi, si sa: Matteo Salvini e Luigi Di Maio, il Partito Democratico e Matteo Renzi si, Matteo Renzi no, e lo spread e la borsa, Roma che disastro, Trump e Putin, Macron ci speravo, ma sì, ma no, bla-bla…
Un po’ stanca, la serata si trascina; ma ecco che improvvisa, si infiamma: Asia Argento, le sue storie, le denunce, la violenza subita negli anni passati… altro che argomenti da parrucchiera o da mercato, signora mia. Li guardo, i miei amici: stimati e affermati professionisti, impegnati spesso in cause nobili e raffinati. Sanno tutto, e su tutto hanno opinione che professano con lodevole appassionata partecipazione. La “vivono” proprio, la situazione.
“Vi osservo stupiti”, m’esce di bocca; un blocco: ricambiano lo stupore. “Si’, vi guardo stupiti”, insisto caparbia. Vedo il loro stupirsi del mio stupore. Uno di loro, amico di sperimentata fiducia, mi spiega che Asia non può essere l’icona di una campagna sui diritti delle donne. Ha cura di specificare che non si riferisce all’episodio relativo alla presunta violenza che lei avrebbe esercitato su un attore di poco minorenne, che più d’uno ha volute vedere come una sorta di contrappasso: vedete, anche lei… No, si riferisce alla violenza subita da quella specie di orco di Harvey Weinsten. E cioè? Insisto, per capire bene fin dove si vuole e si può arrivare.
Speravo di no. Invece sì. “Asia non è credibile”. Non lo è, dettaglia, perché ha sempre amato Morgan, e lui “sa”, so che lei è stata la causa dello scioglimento di una delle band che preferiva i Bluvertigo: “Una donna che riduce così un uomo, che lo rende succube a lei, non è credibile…”. L’avevo già sentita: colpa di Yoko Ono di cui si è perdutamente innamorato John Lennon, ed ecco che i Beatles si sciolgono…
Sempre più incredula cerco di riportare la questione sui suoi binari: i ricatti sessuali, le violenze, il tutti sappiamo, nessuno che ne parli, e ora chi accusa ed è vittima si trova accusata e il marchio di carnefice… Niente da fare: da avidi lettori di settimanali che regolarmente si giura di non aver neppure mai sfogliato, ecco i dettagli di una vita “vissuta”. Di tutto: le adolescenziali “sregolatezze”, le “libertà” che da donna ci si è concesse, le confusioni e le irrequietezze, nulla viene risparmiato. E dunque, fosse tutto vero, e anche di più, tutto questo rende davvero non credibile le denunce dei ricatti e delle violenze subite? O si è sante Marie Goretti, o niente?
Per dire: qual è il canone adeguato della credibilità, quale codice lo prescrive, quale precettore lo esamina e certifica? Abbia pure fatto un uso del suo corpo che va contro la morale corrente, questo giustifica l’aspro e severo giudizio: “Non è credibile”? Ma che ne sapete voi, mi viene da ribattere.
La serata è ricca di sorprese. “Scopro” che Asia non è credibile perché ha atteso anni e anni, prima di raccontare… subito doveva farlo, e non serve replicare: “Ma che ne sai tu, hai mai avuto un’esperienza del genere, mani che ti frugano nel corpo e tu non vuoi, e quel che si prova a essere costretti a subire qualcosa che non si vorrebbe, di che parli, e come ti permetti di dare giudizi?”; niente, quello continua: in questo modo ha contribuito a creare un clima da caccia alle streghe… Fatico a riconoscerli questi miei amici. Mi viene in mente il libro “Malacarne” di Annacarla Valeriano, la scrittrice che ho intervistato per la mia trasmissione “La Nuda Verità”. In quel libro Annacarla racconta come nell’Italia fascista se una donna non pensava secondo il “pensiero comune”; se si ribellava alle imposizioni che venivano soprattutto da parte dell’uomo; se usciva dagli schemi, per lei c’era l’internamento in manicomio…
Oggi l’equivalente del manicomio per Asia è il pensiero comune di persone che la considerano una squilibrata, inattendibile, e – perché no? – prostituita pedofila: solo perché non ha vissuto una vita “regolare” (vai a capire cos’è, la regolarità); solo perché ha detto, con il suo corpo ha detto tante volte si, come mai proprio con Weinsten no, strano che solo ora ci abbia visto una violenza maschile… e poi, dopo dieci, venti anni…
E allora, diciamolo: i pregiudizi sulle donne sono ben duri a morire. E possono incarnarsi nelle persone che meno te lo aspetti, germinare in tutti quegli ambiti in quelle professioni dove si lavora con il proprio corpo e la propria immagine… Alla fine diventa quasi normale dire che in fondo ce lo meritiamo, e dobbiamo metterlo in conto, non per nulla siamo donne adulte, no? È quasi ragionevole che si “offra” il proprio corpo in cambio di vantaggi lavorativi futuri: così fanno molte, siamo persone di mondo, dunque, mondane… E se denunciamo la cosa come violenza, si deve mettere in conto anche un conseguente processo di colpevolizzazione… Ecco, magari sarebbe il caso di individuare norme precise per regolamentare i comportamenti e le relazioni uomo/donna; si può cominciare con la fase dei provini, da intendere come una trattativa precontrattuale. Ne verrebbero così protette entrambe le parti, e la si smetterebbe una volta per tutte di chiamarle molestia o violenza sessuali… Signora mia, ecco: una sera, a cena. Io sto con Asia Argento.
Cosa è la regolarità? Quali sono i limiti alla relatività della propria concezione di libertà? Ecco un esempio di come le donne siano sempre e comunque la pietra dello scandalo, le vittime d’una inferiorità ontologica che ne segna il genere e che assegna loro la parte di perenni colpevoli, senza perdono. Io donna dico NO. Libera di scegliere.
di Salvatore Sechi
Confesso che l’ascesa alla testa del governo di una donna, per di più dell’opposizione, non mi è dispiaciuta. Lo dico perché politicamente mi sono formato nella cultura dell’antifascismo torinese, cioè del Partito Italiano d’Azione. Pertanto, avere anche minimali segni di compiacenza per la canea (e canaglia) fascista, come per la sopravvissuta manovalanza vetero-comunista (ancora in subbuglio in qualche non di rado esilarante blog dell’Emilia-Romagna), per me non è minimamente pensabile.
A muovermi verso questo giudizio negativo verso l’avventura della Meloni è stato un duplice motivo. Il primo: bisognava mettere fine alla litania dei maschi cazzuti che dal 25 aprile 1945 occupano la scena politica. Dalla sfera delle mansarde del governo a quella dei vertici apicali delle stesse istituzioni. Dunque, un sentimento di eguaglianza contro l’imperante maschilismo (per non parlare, della sagra miserabile del celodurismo lombardo-veneto). Il secondo motivo: stare a vedere, premendo una calotta sui pregiudizi, che cosa ha da dare e sa fare una fascistozza da periferia romana.
Dopo alcuni mesi il bilancio può essere fatto agevolmente. La Meloni, a parte l’encomiabile capacità di lavoro e di resistenza agli stress, è un campione inesauribile di incompetenza (e questo era abbastanza scontato), di cinica spregiudicatezza e trasformismo, con un culto inesauribile per menzogne, sotterfugi, micro-furbizie. Aveva, per sua fortuna, ereditato l’agenda Draghi. Comunque la si voglia giudicare, è certo che aveva ristabilito e rinforzato i rapporti con l’Unione europea e gli Stati Uniti dopo gli sfracelli devastanti del capo-Lega Matteo Salvini.
L’Italia era precipitata ad un livello di degrado infimo. L’intrepido sfascia-carrozze è ancora, in auge, gonfio come una rana, dopo aver portato all’8% una forza che era giunta al 33% con la ridicola platea dei decreti sicurezza (cioè per aver negato l’esercizio dei diritti di movimento, di navigazione e di migrazione ai cittadini provenienti da paesi arabi e non solo. L’esponente di Fratelli d’Italia si è tempestivamente resa conto che a Washington, Bruxelles, Parigi, Berlino, Kiev ecc., non poteva continuare a fare i gorgheggi del suo programma anti-atlantico e anti-europeista. Per essere ascoltata e far pervenire a Roma qualche accredito miliardario di Euro, dove va mandare al diavolo come carta straccia gli spartiti populisti con cui ha infinocchiato il gregge dei suoi elettori.
Presto fatto. E per essere ritenuta ancora più affidabile, ha stivato di ogni possi bile vagone di armi nostrane ogni stazione, aeroporto, cella o nascondiglio seminterrato dell’Ucraina. E non passa giorno che non giuri e spergiuri che sarà al fianco di Zelensky fin quando Putin non ritirerà le sue armate specializzate nello sterminio dei civili. Il suo è stato un atto di opportunismo e di cinismo esemplare dal momento che i suoi maggiori alleati di governo (un politico per tutte le stagioni come Salvini e il fondatore, ormai assai decotto, di Forza Italia Silvio Berlusconi) sono i tapis roulants italiani lungo i quali l’ultimo gerarca comunista russo ama strusciare felicemente.
Che la Meloni sia persona inaffidabile lo si è scoperto subito. Dopo averla usata, capi di Stato e premiers delle due sponde dell’Atlantico l’hanno messa rapidamente da parte. Direi nel peggior modo possibile almeno per una donna, cioè come un profilattico usato. A isolarla, e costringerla a mettere giù la mascherina carnascialesca della sua finta e posticcia credibilità sono: l’insicurezza dei nostri approdi per migliaia e migliaia di migranti, la litigiosità fino alla rissa continua al governo con la famelica rappresentanza leghista (il prode Salvini l’ha ridotta ad uno scheletro elettorale di basso conio), le continue querelles sul fascismo di ieri e di oggi, le scorribande storiografiche. Non mi riferisco solo a quelle in cui si prodiga, da par suo, il ministro della scuola Giuseppe Valditara, ma a quella messa in scena dalla stessa premier. L’ultima è relativa all’assassinio, a Roma, di oltre 300 persone (tra antifascisti e civili innocenti) da parte dei reparti militari nazifascisti.
Avendo una cultura storica da suburra post-fascista, Meloni ha liquidato l’episodio come il solito, risaputissimo, maltrattamento degli italiani da parte dei tedeschi. Una fanfaluca, una stupidità, le parole in libertà, le sue, di una fascista impenitente.
Com’è possibile che nell’affidarle l’incarico di formare il nuovo governo, Sergio Mattarella (nel suo ruolo di custode e garante dell’origine, cioè della legittimazione, antifascista della nostra costituzione) non abbia preventivamente accertato quel che ogni giorno è sotto gli occhi di tutti? Meloni non poteva, e non può, ricoprire il ruolo di premier o di ministro, semplicemente perché è più fascista che antifascista. È più vicina ai torturatori e ai fucilieri dei reparti nazifascisti delle Fosse Ardeatine che agli antifascisti romani. Inclusi quelli, comunisti, che, più o meno responsabilmente (il dibattito tra gli storici venne aperto da Marco Pannella) aprirono il fuoco su una colonna in transito dell’esercito di occupazione hitleriano.
Meloni non si è ancora resa conto di quel che non solo i ragazzi dalle scuole medie in avanti apprendono, ma che un esponente capace e saggio del suo stesso partito come il ministro Guido Crosetto ha più volte sottolineato, cioè che le istituzioni della nostra repubblica sono figlie dell’anti-fascismo, della lotta partigiana, della guerra civile contro gli italiani al servizio dei nazi sti invasori. Non si deve, e non si può, quindi, contestare questo atto di nascita. Occorre prenderne atto dopo aver giurato rispetto e fedeltà alle regole del gioco e ai valori di una carta costituzionale che è intrisa – dalla prima all’ultima riga – di sangue partigiano.
Si tratta esattamente di quel che alla Meloni (ragionevolmente, dal suo punto di vista di camerata post fascista) fa più schifo che altro. Dovendo scegliere un presidente della Camera dei deputati, si è orgogliosamente riconosciuta in un ex esponente del MSI, come Lei, che ha la casa ingombra di effigie e corpi (in ferro e marmo) raffiguranti Mussolini. Il doppio gioco, le parodie, le falsità della premier sono venute in luce meridiana in questi ultimi giorni. A differenza di quanto hanno diffuso i telegiornali e la stampa destrorsa (a lei legata o vicina), il suo viaggio a Bruxelles, compreso l’’incontro con Macron, sono stati un buco nel l’acqua. Non il successo di cui biascicano i giornalisti asserviti e il Minculpop, ma un plateale fallimento. Ecco di che cosa di tratta.
Sul piano delle migrazioni, il Consiglio d’Europa non va oltre la più banale pulizia della bocca, cioè emettere gridolini di comprensione e solidarietà. Ma niente che assomigli ad un sostegno, cioè accreditare che gli sbarchi nei nostri porti sono sbarchi non solo in Italia, ma anche in Europa. Niente politiche-coordinate con Bruxelles-di rinforzi della sicurezza nei viaggi, di lotta non contro gli imprenditori del traffico criminale, ma solo i soliti annunci di maggiori pene contro gli scafisti. Questi sono l’ultima ruota del carro di una furfantesca mangiatoia coperta dalla Libia e dalla Turchia. Non è un caso che Meloni e Salvini abbiano schierato contro di essa i loro ben noti eserciti di pappamolle. Nessun tribunale della repubblica nostrana né turca né libica abbia mai osato emettere, anche per sbaglio, delle sentenze sanzionatorie a carico degli organizzatori ed esecutori delle stragi in corso da qualche decennio nei nostri mari. E mentre la salmeria addetta ai servizi di stalla sui circuiti della Rai-Tv e della stampa sbandiera la grande conferenza annunciata (il 21 febbraio) dalla Meloni, da tenersi a Roma a fine aprile (addirittura), sulla ricostruzione dell’Ucraina, i leaders politici e imprenditoriali invitati (dell’Unione europea e di Kyiv) hanno fatto capire che erano interessati solo alla grande Conferenza prevista per il 21-22 aprile a Londra. Lo stesso Zelensky ha dato forfait. Una dèbacle cocente. Per non parlare della mancanza di ogni proposta realistica sul riarmo dell’Ucraina e sulla sospensione delle ostilità. Il governo italiano mostra di essere puramente al servizio di Washington che ha, fin dall’inizio, affidato all’ecatombe degli ucraini la sconfitta di Putin.
Di fronte alla tragedia epocale dell’immigrazione, le armi della nostra sovranista, non diversamente da quella di Salvini (suo predecessore, alleato e in realtà insidiosissimo competitor), sono quelle di una strategia annunciata in pompa magna durante a le elezioni, ma già ampiamente fallita. In altre parole, i flussi migratori non possono essere impediti alla partenza (addirittura con blocchi navali), e neanche durante la navigazione da un porto all’altro del Mediterraneo, che a loro volta non possono essere chiusi, come sentenziava un ministro dell’Interno nostrano di inenarrabile incapacità.
Un articolo de “Il Foglio”, (“Realtà che batte le balle”, 29 marzo 2023) ha documentato il carico (vero e proprio tonnellaggio) della demagogia che sui migranti hanno montato Meloni e quel pessimo Drake mediterraneo che risponde al nome di Salvini. In queste ore sta dando il meglio di sè abolendo i reati di abuso di ufficio e di evasione fiscale, e distribuendo a destra e a manca appalti senza gara. Uno spettacolo licenzioso sul quale il Quirinale non si vede come possa essere connivente. Tanto i “Fratelli d’Italia” quanto la Lega si trovano ora a dovere rendere conto di un elemento per nulla contestabile. Non è, cioè, vero, è anzi una grande balla, che l’Europa non si prenda cura degli immigrati, e tutto sia stato riversato sulle fragili spalle dell’Italia. Ogni anno in Europa ne arrivano tre milioni. In Italia sbarcano otto decimi e sono e sono di passaggio, cioè diretti a stabilirsi in Francia e Germania. Detto diversamente: in seno all’Ue l’Italia funziona come primo paese di ingresso, ma come numero di richiedenti asilo scende al quinto posto. Ad averne tre volte di più è la Germania, e due volte di più la Francia. Al presidente della Repubblica Mattarella dobbiamo chiedere la ragione per cui ha approvato la creazione di questo governo affidandola a personaggi non di rado privi di ogni competenza e responsabilità.
di Ted Baxter
È tante cose, Saeed Roustaeed, regista, sceneggiatore, produttore, ma soprattutto una delle figure più interessanti ed espressive della cinematografia iraniana dei giorni nostri. Life and a Day, la sua opera prima, è tra i film più premiati al “Fajr International Film Festival”; con Just 6.5 incassa la nomina al César per il miglior film straniero. Infine a Cannes 2022 arriva con Leila’s Brothers, Leila e i suoi fratelli. “La famiglia”, spiega Roustaeed, “è un tema centrale nella mia opera fin dai miei primi cortometraggi. Leila e i suoi fratelli più che un aggiornamento è un seguito. Le premesse sono più o meno simili a quelle di Life and a Day, ma ci sono tante differenze in termini di narrazione, forma e personaggi. Specie per quanto riguarda la figura del padre, che è assente in tutti i miei altri film”.
Il padre: personaggio detestabile. Il suo scopo, l’unico obiettivo, è quello di riuscire a diventare il capo riconosciuto della “famiglia”. Per questo ricorre a ogni mezzo; riuscirà nel suo intento, nel corso di una festa alla “Padrino” che segna l’inizio e insieme la fine del suo sogno: perché viene quasi subito destituito.
Film corale di quasi tre ore, offre il ritratto di un nucleo familiare e di una società con dinamiche e trame complicate e complesse: ecco sfilare i genitori, anziani e malati; i fratelli senza lavoro o con occupazioni più che precarie; e Leila: si assume il gravoso e delicato compito di tenere in fragile equilibrio la “famiglia”, sempre sull’orlo del collasso.
Roustaeed, fin dai suoi primi lavori non ha nascosto il suo interesse alle questioni che attengono alle relazioni umane, intricate in ambito famigliare: “Ho imparato a fare i film dalla vita e a vivere dai film: sono fatti dal materiale che la vita mi dà. Scrivo i dialoghi in base a quello che sento dire alla gente, e le situazioni che descrivo provengono dalla gente che vive attorno a me. Questo è ciò che davvero nutre il mio cinema. È nei film che imparo come perdere la fede, a riconquistare la fiducia, ad andare avanti nella mia vita, a migliorare il mio ambiente di vita. C’è una forte, e reciproca, connessione per me, tra cinema e vita”.
È arbitrario pensare che Leila e i suoi fratelli sia uno spaccato della società iraniana? Roustaeed spiega che all’inizio del film mostra la scena della fabbrica dove lavora uno dei fratelli proprio per far vedere la realtà vissuta da tantissimi suoi connazionali: “Racconto la storia di una di loro, ma è certo che tutti gli altri non stanno in condizioni migliori”.
Roustaeed ha girato in una piccola location, poco più di cento metri quadrati, perché voleva che ci si trovasse nella stessa condizione in cui vive quella gente: “Non hanno privacy. Non riescono a prendere le distanze l’uno con l’altro. Per questo li riprendo spesso insieme in inquadrature da vicino. Non riescono ad avere una visuale più ampia dell’altro. Vedono da molto vicino l’altro. Non hanno spazio privato, nessuna intimità, e questo li mette in una situazione di tensione e difficoltà. Quella tensione che volevo restituire nel film. Urlano perché cercano di far capire il proprio punto di vista ma non sempre viene compreso. Certo è un’isteria che rappresenta lo stato d’animo del paese”.
Leila è interpretata da Taraneh Alidoosti, attrice molto conosciuta nel suo paese, fin da quando, diciottenne, nel 2002 è tra i protagonisti di I’m Taraneh, 15; per poi diventare attrice in diversi film di Asghar Farhadi, premio Oscar per Il cliente. Nel film di Roustaee, Leila è la figura centrale: propone ai fratelli di mettersi in proprio e ribellarsi di fatto al giogo patriarcale. È lei che elabora strategie e tattiche di resistenza. Intensi il gioco espressivo e muto degli sguardi; la sequenza del padre-padrone che sembra dormire e invece è morto sconfitto, frustrato nel suo sogno egemonico. Lo guarda, sorride, chiude gli occhi, piange, solo apparente contrasto con l’allegria dei bambini che giocano. “Mi sono ispirato alle tragedie greche e di Shakespeare che inconsciamente hanno influenzato la mia scrittura”, spiega Roustaee.
Dal film allegoria e metafora alla dura contemporanea realtà: nel dicembre scorso Alidoosti è stata imprigionata dopo aver pubblicato un post in cui si diceva solidale con Mohsen Shekari, messo a morte per aver partecipato alle proteste contro il regime. In quell’occasione Farhadi ha dichiarato: “Ho lavorato con Taraneh in quattro film, ora lei è in prigione per il giusto sostegno che ha dato ai suoi connazionali e per l’opposizione alle sentenze ingiuste. Se sostenere chi protesta è un crimine, allora decine di milioni di iraniani sono criminali. Chiedo la liberazione di Alidoosti, Jafar Panahi, Mohammad Rasoulof e di tutti gli altri detenuti meno noti che hanno come unico delitto quello di rivendicare una vita migliore”.
Taraneh è poi stata liberata dopo 19 giorni di carcere con il pagamento di una cauzione.
di Liliana Segre
Francese, trapiantata a Milano, Charlotte Lartilleux racconta che il suo incontro con la fotografia è casuale, un percorso per niente classico, e in continuo cambiamento: “La fotografia per me è una battaglia: ho un rapporto tormentato con la fotografia, come in una vera storia d’amore fatto di alti e bassi, un continuo perdersi e ritrovarsi ma rimangono sempre e comunque momenti di un’intensità eccezionale”. Fotografia come “un percorso fatto di ostacoli, incontri casuali, una ricerca costante mossa dalla curiosità di scoprire e portare uno sguardo diverso sul mondo che mi circonda. Fotografo prima di tutto per me stessa, è il mio modo di vivere, è il mio modo di entrare in contatto con il mondo esterno, fotografo con la volontà di essere sempre fedele a me stessa; un integrità che mi appartiene”.
Il suo “Sine Fine” ha comportato quattro anni di sofferto lavoro. Il tema è la violenza domestica nei confronti delle donne: “immagini di drammatica radicalità con l’obiettivo di dare voce a coloro che, pur offese e isolate in un mondo che le respinge ma in cui sono costrette a vivere, si aggrappano all’esistenza con forza sovrumana per non soccombere. A queste donne inaffondabili – le cui grida sono sovrastate dall’assordante silenzio dell’indifferenza e dell’ingiustizia – il progetto vuol dare un appiglio e una speranza”.
Curato da Pietro Del Re per La Lepre Edizioni, il volume è corredato da un’introduzione di Liliana Segre e da testi realizzati ad hoc da scrittrici, registe, attrici, psicanaliste, storiche: Ida Biglietto, Francesca Comencini, Silvia Cossu, Lella Costa, Francesca d’Aloja, Luciana Esposito, Gioconda Fappiano, Elena Ferrara, Carola Flauto, Jole Garuti, Loredana Lipperini, Dacia Maraini, Michela Marzano, Elena Molinari, Chiara Montaldo, Letizia Muratori, Maria Pace Ottieri, Raffaella Perna, Sandra Petrignani, Caterina Pontrandolfo, Maria Prisco, Lidia Ravera, Conchita Sannino, Lina Sastri, Simonetta Sciandivasci, Maria Rosaria Selo, Bianca Stancanelli, Maria Rosaria Vado, Anna Vera Vivo.
“Ci sono tanti modi di abusare del corpo della donna, ma la matrice di tale brutalità”, spiega Del Re, “è la stessa, ubiqua e sine fine. Ed è proprio questo orrore, questa morbosa oscenità che racconta Charlotte fissando l’obiettivo su vetri rotti, catene, punteruoli e corpi sofferenti… La sola concessione che fa Charlotte è l’uso del bianco e nero con cui sbiadisce la crudezza di ciò che descrive. Più che artista concettuale, definirei Charlotte fotografa iperrealista”.
Ecco che in “Sine Fine” scorrono sotto i nostri occhi le crude immagini di vetri rotti, orologi, catene, punteruoli: oggetti per raccontare i corpi sofferenti delle donne che subiscono violenza.
Il testo che segue, della senatrice a vita Liliana Segre, introduce il volume.
Fa riflettere, anzi inquieta senz’altro che si debba sempre di nuovo tornare a ragionare del fatto che metà e più del genere umano vede ogni giorno, in ogni parte del mondo, messa a repentaglio la sua dignità, il suo ruolo, la sua intimità e la sua sensibilità, quando non senz’altro la propria esistenza. Temi come violenza di genere, femminicidio, violenza domestica anche, sono quasi diventati una parte normale del nostro vocabolario, qualcosa da condannare e combattere ma subiti quasi come inevitabili. E invece non bisogna mai smettere di indignarsi, di denunciare, di solidarizzare con le donne che subiscono violenza, di pretendere dalle istituzioni impegno, determinazione nella prevenzione e nella repressione, impegno nella formazione e informazione.
Di solito in questi casi si dice: “È un problema di cultura”. Certo lo è, ma è molte altre cose insieme, cultura e politica, pubblico e privato, legislazione e repressione. Un’idea della società e del mondo.
Non avremo mai un vero salto di qualità se non si afferma nel dibattito pubblico, nella coscienza civile, il riconoscimento dell’autonomia e del valore del punto di vista femminile, portatore di una sensibilità di genere senza la quale la nostra vita di relazione sarà sempre dimidiata, debole, a rischio.
Abbiamo tutti negli occhi le immagini drammatiche che ci vengono dall’Ucraina, una terra al centro della nostra Europa investita da una guerra di aggressione in cui come sempre le donne sono le prime vittime, ma personalmente ho costantemente negli occhi sia le violenze contro le donne tutt’ora in corso in Iran, sia quelle dello scorso anno a Kabul, con i genitori che passavano un bambino ai militari americani perché lo portassero via con loro verso un futuro diverso. Sono cose che non si dimenticano, che non si devono dimenticare. Tutte insieme. Che accadano nelle mura domestiche, sul posto di lavoro, nella nostra Europa, nel vasto mondo.
Mai dimenticare, mai voltare la testa dall’altra parte. Questa lezione che ho tratto dal dramma della Shoah, credo debba sorreggere tutti, donne ed uomini, nel diuturno impegno per una vita migliore, dove la parità di genere sia non solo riequilibrio fra i sessi, ma impegno per una superiore qualità del nostro vivere civile.
di Gianmarco Pondrano Altavilla
“Elogio della galera”, raccoglie le lettere che dal 1930 al 1943 Ernesto Rossi scrive mentre è prigioniero, detenuto in carcere per antifascismo. Curate da Manlio Magini, con prefazione di Ferruccio Parri, sono pubblicate per la prima volta nel 1968 da Laterza. Nel centenario della nascita di Rossi – ma il 1997 è stato anche il trentennale della sua morte – sono stare riproposte da “Il Mondo 3 Edizioni”, con introduzione di Gaetano Pecora e prefazione di Alessandro Galante Garrone. Sono ora ripubblicate da Castelvecchi: inalterato l’apparato critico di allora, e in appendice la prefazione di Parri e la nota di Magini. Questa ultima edizione è curata da Gianmarco Pondrano Altavilla, direttore del Centro Studi Gaetano Salvemini. Di seguito la sua nota.
È con profondo orgoglio che il Centro Studi Gaetano Salvemini patrocina questa nuova edizione dell’Elogio della galera. Nelle sue Memorie di un fuoriuscito, Salvemini scrisse a proposito di Ernesto Rossi: “Sono tuttora convinto che sarebbe stato assai più utile alla causa antifascista se fosse rimasto fuori d’Italia, invece di andare per tredici anni in galera o al confino in Italia”. È un punto delle convinzioni del nostro “nume tutelare” sul quale ci permettiamo di avere parecchi dubbi. Sia chiaro: non che si voglia giocare alla difficile (e perdente) partita della storia fatta con i “se”. Ma ciò che è certo è che se Rossi non avesse “abbracciato la croce” e dalla Parigi dei fuoriusciti non si fosse rituffato nella lotta italiana (con la consapevolezza che prima o poi i conti con gli scherani di Mussolini li avrebbe dovuti fare), oggi ci mancherebbe quel patrimonio di esempio morale, di riflessione politica ed economica, di speranza che negli anni della galera e del confino Rossi ebbe a prepararci.
Esempio morale: quello di un uomo pronto a sacrificare tutto (affetti, lavoro, libertà) per la difesa dei diritti di tutti, della dignità di tutti. Rossi era un insegnante di liceo, aveva trovato l’amore di una compagna, Ada Rossi, che il tempo e le difficoltà avrebbero dimostrato di valore e fedele. Gli sarebbe bastato, per vivere sereno, tenere la bocca chiusa di fronte al sopruso e anonimo tra gli anonimi, avrebbe tranquillamente “tirato a campare”. Nessuno gli avrebbe mai torto un capello, né lo avrebbe distratto da una comoda e placida esistenza di studi che pure gli era congeniale.
E invece no: fece tutto quello che le sue forze, il suo ingegno, le sue magre disponibilità economiche gli consentirono per sfidare il regime e additare all’Italia la strada della libertà. Per segnare con i fatti una linea indelebile al di là della quale stava una vita degna di essere vissuta solo in quanto libera, e al di qua… al massimo il “vivacchiare”.
Patrimonio di riflessione politica ed economica sissignore, perché perfino in galera Rossi ritenne che il proprio dovere fosse quello di studiare e far studiare, approfondire le proprie conoscenze, le proprie riflessioni, trovando ogni modo per trasmetterle. Forse non sarebbe mai venuto il momento in cui i suoi scritti avrebbero visto la luce, forse il regime fascista non sarebbe mai crollato e nessuno ne avrebbe mai letto una riga. Ma intanto lì ed in quel momento, tra quelle quattro mura scrostate, giusto era ciò che la coscienza imponeva. Tutto il resto, come usava dire lui tra il serio e il faceto, “è compito del Padre Eterno”.
Come se tutto questo non fosse sufficiente, di quegli anni, di quella esperienza, è rimasta anche una lezione di umanità tanto curiosa, tanto unica, quanto profonda: Rossi e la galera cambiarono l’uno l’altro. Rossi ebbe modo di vivere quella sofferenza degli ultimi che aveva conosciuto nelle trincee della Grande Guerra. E quella sofferenza gli si infisse così nel cuore da mutarne lo sguardo, l’analisi, perfino le convinzioni, “condannandolo” a espandere il suo liberismo al di là dei confini dogmatici che gli erano stati tramandati, per farlo allo stesso tempo più giusto e più coerente. Allo stesso tempo però Rossi mutò la galera. Da luogo squallido di avvilimento che era, è e sempre sarà fino a quando si considereranno i suoi “ospiti” solo per quello che hanno fatto, il carcere fu stravolto da quella specie di moschettiere della libertà che, con insistenza, pedanteria, cocciuta determinazione volle che anche i suoi compagni di prigionia studiassero con lui (di tutto, si badi, non solo di politica), perché se proprio si doveva restare con il tallone della dittatura sul capo, almeno si sfruttasse il tempo per crescere “in amor proprio”. Una lezione, o meglio una consolazione notevole, crediamo, per chi oggi si trova – a torto o a ragione – in stato di cattività. Anche in quella situazione, anche nella devastazione psicologica e morale che la galera può comportare, il “cerino” della ragione e della dignità possono accendersi, prendendo semplicemente un libro in mano, nella convinzione che “sì, posso essere migliore di quello che gli altri ritengono”.
Ecco, è questo regalo che dobbiamo a quegli anni di prigionia di Rossi, e che questo libro e queste lettere hanno veicolato sino a noi. A più di cinquant’anni dalla scomparsa di Esto, abbiamo creduto se non altro doveroso offrirlo, “passarlo” a un’altra generazione, sperando che porti frutto. Lo si è fatto lasciando inalterato il poderoso apparato critico dell’edizione del 1977 per i tipo de Il Mondo 3, che a sua volta riproponeva anche gli scritti di accompagnamento del 1968.
Di nostro non si è voluto aggiungere che queste poche righe, sì da non appesantire e da non ripetere ciò che sicuramente è stato già detto meglio. Speriamo, con motto “cattaneo”, di aver fatto se non altro opera utile. Perché se così fosse saremmo stati fedeli all’insegnamento rossiano.