Proposta Radicale 11/12 2023
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Pannella

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Organizzare l’alternativa contro l’unità nazionale, il “Mein Kampf” di un nonviolento

di Marco Pannella

Compagne, compagni, negli ultimi anni le cose si sono svolte in modo tale che è la prima volta dal congresso di Verona del 1973 (congresso che, per i radicali di oggi, appartiene forse alla preistoria del nostro partito, anche se si tratta, per i problemi che affrontò, per i temi interni ed esterni che prese in considerazione, di un congresso vicinissimo) che io prendo la parola come iscritto al partito radicale, con l’intenzione di svolgere un intervento in piena libertà, non più come presidente del gruppo radicale alla Camera dei deputati e neppure – come è accaduto per due o tre anni – quasi con le funzioni di »specchietto per le allodole , come è accaduto ai congressi di Milano e di Firenze, per portarvi gente con veri e propri comizi pubblici. Oggi posso parlare, come ho detto, con tutta la mia riacquistata libertà, nella semplice qualità di iscritto al partito.

Innanzitutto, consentitemi una notazione – non un paradosso: credo che chiunque sia – come si suol dire – giuridicamente indipendente, è in realtà molto spesso più dipendente di chi riesce a capire che l’indipendenza non è uno stato di nascita, da tutelare contro la corruzione della crescita e del dialogo, ma un’ipotesi, sia nella vita degli individui sia nella vita delle società, che può essere soltanto conquistata ed organizzata: altrimenti, sono certo possibili indipendenze ed autonomie, ma soltanto transitorie, di »consumo della indipendenza e della autonomia che si ha nel momento in cui così si comincia ad operare, con l’illusione di essere i soli liberi, poiché l’organizzarsi sarebbe il prezzo che il libertario dovrebbe pagare per difendersi. Organizzarsi, invece è l’unico modo di “creare” indipendenza e libertà: nulla può essere ottenuto senza determinazione e senza un qualcosa che, a partire dalla persona, concretizzi, anche visivamente, anche giuridicamente, la sua condizione “sociale”, indispensabile perché un uomo sia un uomo, non dispiaccia a Papa Wojtyla o al cardinale Benelli.

Mi sento dunque, nuovamente, molto libero, grazie al fatto che sono nuovamente organizzato, senza limiti di opportunità giuridici. A questo proposito vorrei rivolgere un invito alla riflessione a tutti coloro che sono in questa sala; in genere, la peggiore delle “tessere” è meglio dell’assenza di qualsiasi tessera. Non vi dico “iscrivetevi al partito radicale!”; dico “organizzatevi! organizziamoci!”; abbiamo il coraggio di capire che in democrazia gli individualismi non sono fertili. Solo nelle società governate da monarchie assolute, dove esistono corti e cortigiani (che ritroviamo nelle versioni moderne: soprattutto al vertice del potere economico, dove ritroviamo chierici del potere ed i forzieri dei burocrati), solo lì forse “indipendenze” individualistiche possono essere ancora configurate. Perché lì – al massimo – si possono manifestare “fronde”, ma mai alternative di regime e di sistema. Ma i vertici dei partiti burocratizzati e chiericizzati, cosi come quelli del potere economico, non sono certo luoghi di democrazia; possono solo consentire la libertà da cortigiani ai cortigiani, che per altro non bisogna sempre caricare di troppa indegnità: anche Voltaire era Voltaire ma fu in parte anche un cortigiano.

Se poi vi fosse oggi possibile – magari prendendo la vostra quarta o quinta tessera – iscrivervi al partito radicale, fareste qualcosa di importante per ciascuno di noi, ma soprattutto – scusate la presunzione – importante per tutelare la vostra qualità della vostra solitudine, nonché per meglio tutelare il diritto ad avere tutti i dialoghi che volete.

Ciò premesso, vorrei dopo vent’anni affermare (e non dico riaffermare; perché chi ha sempre svolto un’azione politica fatta di lotta di classe, può benissimo rifiutarsi di rompere i coglioni con continue proclamazioni classiste e di classe, come è sempre di moda fare per frustrati ricercatori di una propria dimensione operaistica) che il partito radicale non è solo quello che negli ultimi venti anni ha mostrato che l’intellettuale collettivo gramsciano poteva vivere anche fuori delle immaginazioni delle biblioteche e delle corti del potere economico e politico, ma è stato anche quello che – solo, maledettamente solo – ha riaffermato, integralmente, proprio affermandosi come partito (dinanzi agli economicismi, alle dozzinalità, alle grossolanità pretestuosamente classiste) che tutto, la bellezza, il corpo, il sesso, tutto quello che conta e ci costituisce in esseri viventi è determinato dalla condizione e dalla coscienza di classe che ciascuno ha e ritrova nella sua storia.

Lo ricordo a coloro che hanno l’abitudine di farci lezione (cosa che noi non facciamo a nessuno), agli ex membri della Conferenza episcopale italiana, che ebbero lì tanta gloriosa militanza (ed è termine appropriato) quanto poi squallida e subalterna è divenuta nel sottobosco frontista italiano, che oggi pensano di poterci rimproverare di assistenzialismo cattolico. Lo ricordo ad altri carissimi compagni, che vengono qui a dire che noi radicali ci stiamo chiudendo in una concezione ultraleninista del partito, quando – nel momento in cui pensavano che il leninismo fosse la formula vincente e prima di ospitare nei loro giornali le lettere dai sentimenti disperati che un tempo si rivolgevano con speranza a noi – ci davano dei drogati, dei froci, degli omosessuali, degli abortisti, dei freak, degli emarginati, con i quali i partiti leninisti nulla dovevano avere a che fare (con questa polvere di uomini, con questa merda della classe, con questo escremento della storia). Lo ricordo a certe femministe che credono di doverci insegnare quale sia l’aborto “coretto” (dopo l’analisi “coretta”) ad Emma, ad Adele ed anche all’ultimo degli uomini radicali, che non sappiamo dove fossero nel momento in cui queste battaglie ci portavano – come è giusto, normale e sereno – in carcere ma anche ad inventare le prime effettive strutture di riforma sanitaria e umana nel nostro paese, negli appartamenti, nei villini, nelle case in cui il CISA operava, rischiando di mescolarsi con le mani sporche di sangue e di denaro.

Ricordo tutto questo perché non si continui puntualmente a cercare di colpire in noi, come l’ultimo dei Gabrio Lombardi e dei monsignori o dei burocrati del PCI, i demoni che appartengono invece alla loro storia interiore e che devono ben altrimenti esorcizzare.

Noi siamo anche accusati persino, mi sembra, dai carissimi compagni che scrivono “Lotta continua”, oltre che da quelli che scrivono il “Manifesto” (anche se costoro più elegantemente, perché è, come ho sempre detto, l’unico giornale di “alta classe che abbiamo nella sinistra”)… Vi avverto che questi vostri sorrisi, queste vostre risate verranno domani ritenute manifestazioni plebee dinanzi al “guitto” Marco, che viene a parlarvi, perché costoro danno manifestazioni comunitarie di orgasmo ogni volta che sentono un’analisi “coretta”, aggiornata sull’ultima Cina, sull’ultimo Cile sull’ultimo Vietnam, sull’ultima cosa che accade nel mondo, in genere l’esatto opposto di quel che avevano previsto con la precedente “analisi coretta”!

 

Un congresso elettoralistico?

Tra l’altro siamo accusati di tenere un congresso elettoralistico, perché ci occupiamo di questioni elettorali. Sottolineo però che questo è il 21°, il 21°!, Congresso del partito radicale: il 20° si è svolto solo cinque mesi fa a Bari e fu accusato (anche se a torto, tanto che abbiamo dovuto dolercene) di essere espressione della monomania referendaria dei radicali. Oggi – invece – siamo elettoralisti, io sono sempre un gigione, voi – anche se non ve lo dicono chiaramente – siete non dei proletari ma dei plebei, o piccolo ceto medio frustrato, pronti ad aggregarvi per le nostre esibizioni, che vengono normalmente fornite – cosi pare – dai congressi radicali.

Per costoro il nostro pensiero, la nostra storia non contano nulla. La durata interiore – che, lo ripeto, perché è importante, è la forma reale di tutte le cose – cosi come quella esteriore, esistono effettivamente tra i radicali, compagni di Lotta continua. Noi siamo sempre stati e siamo umili, ma non confondiamo la francescana umiltà con quella lugubre virtù che è la modestia: siamo anzi stati sempre “immodesti”, negli obiettivi, nelle speranze, negli amori, nel modo di prefigurare gli scontri ai quali potevamo – compagni dei vertici rivoluzionari! – invitarvi, compagni che molto spesso non vi accorgevate – voi! – che attorno ai tavoli (che sono le sezioni radicali) posti nelle strade, finalmente, nel 1975, i compagni del Manifesto, quelli di Lotta continua, quelli di Democrazia proletaria, i militanti della base trovavano qualcosa da fare, che non fossero cortei marziali o logomachie ideologiche, e la loro presenza veniva da voi censurata perché non rientrava nella tattica stabilita dalle direzioni dei vostri rispettivi partiti o giornali; eppure, questo consentiva importanti successi e forse anche forme di unità, conseguenti alla “immodestia” della immaginazione e anche della disciplina radicale.

Se noi ci riuniamo – compagni dei vertici “rivoluzionari”! – così spesso è perché siamo abituati ad operare senza il filtro dei vostri delegati che si computano; noi aperti ai venti, a volte alle bore o anche agli scirocchi soffocanti e brutti di presenze non valutabili, a decidere assieme, collettivamente, in comunione – come direbbero altri – perché le nostre decisioni devono rispondere non solo alle attualità che abbiamo cercato di imporre alla lotta politica, ma alle attualità che la lotta politica è riuscita ad imporre a noi.

È dunque serio, necessario, democratico discutere di elezioni sotto elezioni, così come è certo democratico discutere sotto elezioni del bilancio del periodo che è passato tra una elezione e l’altra. È democratico non fare dell’elettoralismo, ma questo siamo noi a dovervelo ricordare. Elettoralista, in realtà, è chi muta, sia pure di una virgola, il discorso che stava tenendo il giorno prima dell’annuncio delle probabili elezioni, allo scopo di inserirsi nel momento elettorale; e siete voi, non noi, a farlo! Non si riunisce per cercare di trovare l’angolazione tecnica appropriata per difendere anche l’ultima virgola del proprio intatto discorso nel momento elettorale.

Io non amo darmi buona coscienza a buon mercato, ma amo tanto – e i compagni sanno quanto, perché gli anni passati lo hanno dimostrato – dire ai Marco Boato, ed altri compagni che hanno qui parlato, di stare molto attenti ad adombrare nei nostri confronti il sospetto di leninismi o di elettoralismi. Abbiamo altro di meglio da fare che litigare con voi, fare le bucce ai vostri comportamenti; abbiamo da lottare sul fronte democratico di classe dell’alternativa e della difesa della vita. Se così non fosse, potremmo dirne delle belle, anche se dolorose.

Compagni di Democrazia Proletaria, compagni del PDUP, compagni dell’»area (ma se c’è sempre qualcuno che parla a nome dell’»area , tanto vale che ve lo facciate il movimento organizzato, perché almeno sareste responsabili rispetto all’organizzazione): chi in questi giorni è in affannosa ricerca elettoralistica (magari comprensibile, perché ci si rende conto di quanto poca responsabilità c’era nei comportamenti tenuti fino ad ieri), di ricalibrare i linguaggi, di riproporre angolazioni unitarie di speranza là dove c’era il separatismo, la disperazione e l’amarezza, sappia che noi siamo qui per dire che vogliamo una volta di più che chi il 10 giugno avrà votato radicale o avrà riflettuto con i radicali per votare in modo diverso si ritrovi, il giorno dopo ma anche dopo un anno, pieno di ottimismo e di speranza perché i motivi per i quali ha votato radicale, per modesti che siano, saranno stati rispettati e non avranno prodotto i Corvisieri, le divisioni o tutte le vostre altre cose che sanno di amarezza o di sconfitta.

Il compagno Rodotà sottolineava giustamente ieri che la nostra cosiddetta proposta tecnico-elettorale è pienamente proposta politica. Ma dove la proclamazione ideologica e quella politica sono emorragie contro la moralità politica (che significa far seguire alle parole i fatti), noi ci facciamo carico di mantenere salve, nei momenti determinanti, le motivazioni di ciascuno, le grandi prospettive e speranze, per offrire nella sua nudità (che è bella anche quella) lo strumento tecnico, la cruna d’ago attraverso la quale deve passare la speranza di un giorno migliore (3 o 11 giugno che sia). La nostra è quindi una proposta tecnica ma non da tecnocrati; è una suggestione tecnica: abbiamo la responsabilità di proporre gli utensili a questi operai della rivoluzione mancata. Bisogna anche ricordare, infatti, che la grandezza operaia nella storia sta anche nel fatto che si passa dal confronto impreciso della plebe, dei disoccupati, del popolino, con i momenti dello sfruttamento, a quello preciso dell’operaio che ha dimestichezza e contatto obbligato con processi e utensili precisi, con luoghi e fatti determinati. È così che lo sciopero diventa immaginabile come grande lotta rivoluzionaria, al posto delle sommosse o dell’aspettare di tendere l’imboscata al gendarme, all’esattore o al coscrittore.

 

Questa è la nostra centralità

Dunque, proposta pienamente politica, ma anche proposta che, senza trionfalismi e con senso di responsabilità, deve corrispondere alla coscienza della nostra centralità; non da noi auspicata, ma ormai evidente. Noi avevamo sempre auspicato di vivere per poco, per dissolverci non nel triste “cupio dissolvi” delle siringhe o delle P38, ma per dissolverci al più presto possibile in più ampie forme di unità organizzata della sinistra socialista e libertaria. Noi eravamo radicali per finire presto – il più presto possibile – come radicali nella organizzazione del protagonismo socialista. Avevamo ed abbiamo, dunque, il dovere di renderci conto della nostra centralità fra il PDUP e DP, della possibilità di dialogo e di responsabilità, che è passata e passa attraverso la centralità dell’iniziativa radicale. La possibilità per i compagni di Lotta continua di riportare il loro giornale a quello che fu, qualitativamente e quantitativamente, nella stagione dei referendum, uno o due anni fa, traendolo dal disastro qualitativo e quantitativo di oggi, passa anche attraverso la centralità, senza complessi e senza trionfalismi, del dialogo al quale noi radicali dobbiamo costringere tutti questi compagni senza le varie “Licola” che ritrovano d’un tratto sul loro cammino quando scoprono, nientemeno, il corpo, la musica, e tali altre cose: eppure, fanno in modo ogni volta che queste scoperte siano ridotte ad un nuovo abisso in cui precipitare ed annegare.

Nel Sud Tirolo una sinistra alternativa distrutta, resa cattolica, piagnona, piena di evasioni, di emarginazioni, dolorante; con Alex Langer che stava per lasciare non solo Roma ma forse anche l’Italia; con gli altri compagni nemici per sé e per gli altri, come quando non ci si rende conto (perché, da piccole chiese e sette quali si diventa, ci si rinchiude nell’odio e nel pianto), che si è battuti dal nemico, e si va sempre invece a ricercare la responsabilità del vicino; lì nel sud Tirolo noi siamo andati consapevolmente per ricostruire sul piano elettorale il nostro partito e per contribuire al salvataggio della grande ricchezza umana rappresentata dai compagni che, negli anni fra il 1965 e il 1970, avevano rappresentato in quella regione non noi ma quello che noi rappresentavamo altrove.

E la centralità radicale è tale che non tollera l’errore di rivendicare o difendere la pretesa appartenenza – che all’improvviso anche il Quotidiano dei Lavoratori scopre – dei radicali “all’area”, “al movimento”. Né è possibile accettare questa storia dell’unità con il seguente marchingegno: ci sarebbe un’operazione sociale, DP, e un’opposizione democratico-borghese progressista dei borghesi onesti che saremmo noi. E in momenti difficili – ora dicono – bisogna pure unirsi, rivoluzionare tutto, unendo sinistra sociale, sinistra di classe, fenomeni sociali e sinistra politica democratico-borghese-costituzionale che pure – qualche volta lo si ricorda – fa parte del “patrimonio di classe”.

Si dice. Ma, ahimè, cosi non è! Se io infatti fossi convinto che il compagno Gorla o il compagno Capanna (per dire il migliore nelle sue attività nelle istituzioni) rappresentino la sinistra sociale, la sinistra di classe, starei con loro, e non qui, perché non credo che Toqueville, Bertrando Spaventa, tutto il grande pensiero borghese della destra storica, dello stato di diritto, possano essere sorretti altro che, come reputava Gobetti, dalla sinistra di classe. Ditemi allora però perché da venti anni l’intollerante (soprattutto contro i comunisti, contro i socialisti, contro i compagni) burocrazia comunista tiene a stipendio e neutralizza in funzioni di vertice Antonio Lettieri, Elio Giovannini? Come se essi potessero parlare, soli, in termini sociali, della classe, e più di noi! È un assurdo, non è vero? Semmai, essi rappresentano la propaggine, l’espressione forse più degna della subalterna contraddizione della burocrazia del sindacato, che ha interesse ad avere questo momento di copertura al vertice invece che alla base.

Questa caricatura di unità, dunque, non ci commuove. O la realizziamo anche in ciascuno di noi, nel nostro essere quotidiano, oppure avremo una sinistra di classe incapace di porsi come prefigurazione dell’ordine nuovo dello Stato. Una sinistra che non abbia questa capacità è però destinata ad essere battuta, come sempre; così come quella sinistra borghese e liberale che pensasse di poter realizzare l’alternativa dello Stato di diritto, della legge uguale per tutti, dell’uguaglianza dei punti di partenza, del rispetto dei diritti di coscienza, senza però compiere la scelta gobettiana di classe. Sarebbe ancora una volta anch’essa vinta o dovrebbe trasformarsi in “indipendenti di sinistra”, per avere, in cambio della sconfitta, i momenti di legittimazione di stare lì dove ogni giorno si celebrano il processo e la messa socialista e comunista di legittimazione di chi tale non sia, per dare una copertura ai burocrati borghesi, borghesissimi, che storicamente dominano il movimento democratico di classe. Così si è riusciti ad espungere dal sindacalismo italiano quella che era poi una caratteristica dei laburisti inglesi di un tempo, quella delle Trade unions, quella grazie alla quale sindacati e partiti insieme possono fornire un’alternativa democratica di classe!

Solo sindacati e partiti uniti, anche organizzativamente, sia pure con specifiche autonomie, possono proporre un’organizzazione democratica e classista del mondo del lavoro contro quella democratica e classista (ma interclassista nella sua copertura) del mondo della produzione capitalistica che opera attraverso strutture clientelari e burocratiche.

 

Non ripetere il massacro del ‘72

Vittorio Foa, Lelio Basso, Tonino Lettieri (quando scriveva di ideologia e non circolari), tutti riconoscevano il carattere necessariamente di classe, pena la sua morte, degli ideali borghesi della rivoluzione francese. Noi non possiamo dunque accettare questa messa in scena: ci si insulta fino al giorno prima, poi ci si incontra, ci si autogratifica come sinistra di classe, si fa un inchino a chi “deve” essere democratico borghese: “Piacere, onorato di fare un pezzo di strada assieme! Io credo che già qui sia – non altrove – la sinistra di classe, ed è proprio per questo che la nostra proposta tecnica diventa proposta politica. Noi diciamo che, abbiano torto loro o si abbia torto noi, nascano domani dal nostro seno i Corvisieri o nascano dal loro seno le Emma Bonino, non c’è problema: per noi non un voto deve essere portato al macello del 1972, al quale si preparano di nuovo. Per quanto mi riguarda, ribadisco che, se Mimmo Pinto, Marco Boato o altri, senza ammonimento, senza organizzazione, malgrado i vizi di Marco che emergono in questi momenti disperati, lo vorranno, noi potremmo loro assicurare di essere pronti a dare una mano ai compagni di Lotta Continua che restano, se così si riesce a frenare la corsa alla loro disperazione, e salvare un potenziale di pulizia enorme. Noi vogliamo dare loro, come ad Alex Langer a Bolzano o a Sandro Boato a Trento, la possibilità di dirci, l’11 giugno, “arrivederci e grazie; siamo stati eletti con voi ma ora, visto che siamo di nuovo armati di qualcosa, ricominciamo ad organizzare il movimento, il partito, l’area; quello che vorranno!”. È una ricchezza da non perdere. Io avverto come una perdita per il Partito radicale e per il protagonista socialista il passaggio di chiunque dalla speranza alla disperazione, dall’ottimismo della volontà alla rassegnazione o al cinismo.

La nostra e la vostra centralità, compagne e compagni, quando siamo riuniti come questa mattina, è centralità che non riguarda il dato un po’ razzista dei venti o venticinquenni (anche se siamo poi arrivati ai trentacinquenni del periodo tra il 1968 e il 1977). C’è sempre stato, anche nella scelta dei mezzi di lotta, un razzismo feroce, sia pure istintivo e non consapevole, nei cosiddetti rivoluzionari del 1968-1977: una scelta di lotta che emarginava la terza età, se non altro perché si esigeva che si fosse quanto meno capaci di correre per strada o di resistere per dieci ore nelle assemblee.

Questo impediva l’uscita dalla morte civile di tutti coloro che sono stati condannati dal sistema capitalistico ad essere ad un certo punto espunti dal processo produttivo per il solo fatto di essere titolari di quella antica conquista della classe operaia che si chiamava pensione, ma che oggi è diventata un elemento di maledizione, di paura, essendo stata riassorbita dalla scarsa coscienza di classe, dalla scarsa consapevolezza che non si può essere di classe se non si pensa, se non si sa, se non si considera con amore il corpo, il letto, tutto; anche l’età è di classe e lì è il fronte sul quale dobbiamo difenderci e vincere, anche per gli avversari, in nome della speranza di una classe che è legittimata – ma non dalle ideologie – ad essere un punto di riferimento obbligato.

La storia dimostra che non è affatto vero che i più siano sempre stati portatori del meglio. Solo chi sa quello può avere fiducia nei più e non abbandonarsi a populismi e demagogie.

Questo tipo di classe dirigente, che intende il socialismo soltanto come occupazione della classe del socialismo, continuerà a porre in rilievo figure come quelle di Palmiro Togliatti, per metterne in ombre altre, magari a livello europeo, come quelle di Jean Jaurès o anche di Turati e di altri socialdemocratici i quali erano, almeno nella loro umanità, socialisti e mai, per nessun motivo, per nessuna ragione di partito, per nessuna paura, si sarebbero costituiti in torturatori e assassini dei compagni con i quali avevano vissuto tutta la loro esistenza.

 

La terza età, quando la vita è tremenda…

La nostra, dunque, è centralità rispetto alla terza età, così come è centralità rispetto alla donna italiana proletaria e sottoproletaria, ad ogni donna, anche di ceto medio, che sia stata per tutta la sua esistenza tenuta in condizione proletaria e sottoproletaria. È centralità rispetto a quella donna che aveva come unica concessione la fede, la possibilità di credere: quando tutto ti frana intorno, quando la vita è tremenda, quando non rimane che suicidarsi ed ammazzare o rassegnarsi o sperare nell’aldilà. Il giorno che la nonna, la settantenne sempre sfruttata, che ha sempre votato “democrazia”, cioè Democrazia Cristiana, capirà queste cose, la donna avrà vinto la sua battaglia storica contro coloro che hanno fatto scempio della religiosità, della donna, della classe.

La nostra è l’unione delle mani aperte, di quelle mani che stringono la penna solo occasionalmente, quando firmano sui marciapiedi per i referendum. Sono mani povere, anche quando sono troppo laccate; di quante vengono a firmare dopo che si è loro insegnato che così possono essere davvero donne o vincere la loro battaglia per l’amore (cioè – intendono – per il matrimonio); o laccate come per l’amore, mamme in libera uscita una volta a settimana. Sono mani operaie, ma non di quelle raffigurate in manifesti che sono pericolosamente uguali, a livello stilistico, nel realismo fascista o in quello socialista. O sono mani solide e dure, mani contorte di quelli che (ancora ci sono) furono pescatori e le hanno distrutte dall’artrite e che votarono anch’esse “democrazia” molto spesso, Democrazia Cristiana. O sono mani rose dal bucato, anche ora che sono arrivare le lavatrici: adesso basta anche un minimo contatto con i superdetersivi per ridurre le mani uguali a quelle che si consumavano per tante ore a lavare i panni con la vecchia “lisciva”.

La centralità radicale è anche questa intuizione che i nostri avversari hanno avuto prima di noi stessi, con la conseguente feroce ricerca di imbavagliarci, di sfigurarci o di impedire che la gente ci conosca e giudichi per quello che effettivamente siamo: io ho sempre più la presunzione di ritenere che, quale che sia il nostro aspetto esteriore, da quello di Mario Appignani a quello di Jean Fabre, la gente, conoscendoci, saprebbe riconoscerci e riconoscersi in noi.

Questo della onesta informazione come condizione di democrazia è un problema fondamentale. Certo noi siamo “borghesi”, per ideali, in questo. Ma siamo poi e anzitutto anche socialisti e socialisti “romantici”, cioè gli unici “scientifici” dell’inizio del secolo, quelli delle certezze storiche e non delle verità assolute. Per noi non è possibile che vi sia democrazia non fondata sul sapere dei più e di tutti, sull’informazione per tutti, sulla possibilità che tutti giudichino tutti, da Almirante a Pannella. Se il Paese avesse saputo, come aveva il diritto, di sapere, grazie ad un libero contraddittorio, cosa fossero Almirante e il MSI (come era innanzitutto diritto di Almirante), nel 1964, nel 1965, nel 1966, non sarebbe stata loro possibile fare l’apologia che Almirante, il MSI, il paleofascisti facevano allora del codice Rocco, delle leggi fasciste, del corporativismo.

E questo non avrebbe poi consentito alla sinistra tradizionale l’attuale politica di difesa delle leggi fasciste e dei codici Rocco, dei codici Reale, dei tribunali militari, delle immonde leggi sull’aborto di stato di Giovanni e Enrico Berlinguer e del cardinale Benelli. Con Almirante alla televisione, il paese avrebbe meglio compreso cosa è stato il fascismo e cosa è stato l’antifascismo. A parte il fatto che il feroce “antifascismo” contro Almirante non c’era contro Michelini: gli è che Almirante è un figlio d’arte, sa parlare meglio di loro e quindi ne avevano e ne hanno paura.

 

Sì, ci fu una dignità del fascismo

Ma chi ha gettato nella polvere Almirante? Coloro che hanno avuto bisogno di non far sapere che nella zangheriana Bologna – poco fa – una Corte d’appello, in cinque minuti, ha mandato assolto Almirante dall’accusa di essere stato un fucilatore, dopo aver fatto tanta demagogia su altre sentenze, per cinque o sei anni? È successo un mese fa, ma voi non ne sapete nulla: in base a precedenti sentenze della magistratura si era detto che Almirante era un fucilatore, ma quella Corte di appello di Bologna ha dato in cinque minuti ragione ad Almirante. E sappiamo che nessuno a Bologna può essere in dissidio radicale con il potere degli Zangheri: figuratevi se una Corte d’appello potrebbe non sentire il richiamo di quella organizzazione ferrea della città, della regione, dei ceti sociali. Se quella Corte di appello avesse avuto torto tutti i giornali avrebbero scritto di quella sentenza. Invece, nessuno ne ha saputo nulla.

Ma – dicevo – chi ha dunque veramente “consumato” Almirante? Chi è riuscito a farne una caricatura, cioè quello che è? Perché non è un rottame fascista: il fascismo è qualcosa di molta maggiore e tremenda dignità. Giorgio Almirante non c’entra. Gli esecutori, i killers, i mandanti non sono il fascismo di oggi. Diciamolo fino alla noia: il fascismo è Oronzo Reale al posto di Alfredo Rocco, è Pedini al posto di Giovanni Gentile. Almirante sarebbe fascista? No, lo è Moro, lo è una persona della sinistra storica che amo moltissimo – devo avere il coraggio in questi giorni di ripetere quanto ho scritto dieci anni fa – come Ugo La Malfa. Semmai, Ugo La Malfa, Giuseppe Saragat, senza volerlo e saperlo, hanno la dignità storica di aver imposto e proposto, in questi venti anni, un processo di crocifissione, per realismo politico, della nostra Repubblica, della nostra anima, dei figli che verranno, alle leggi di Giovanni Gentile e di Rocco, fatte, per di più, diventare immonde anche a livello tecnico.

Anche a destra ci sono dei giullari, dei guitti: non dobbiamo pensare che il guitto sia solo di sinistra solo perché ce lo ha insegnato Dario Fo. Quando quel guitto, quello che si presentava e veniva presentato come l’erede di Benito Mussolini, è andato a fare lo zuavo pontificio in occasione del referendum sul divorzio e metà del suo elettorato (che nel 1972, due anni prima lo aveva plebiscitato) lo abbandona per venire a votare con noi; quando quel guitto è ora ridotto a chiedere alle donne del MSI di fare il “femminismo nazionale” dimostra ancora e anche lui la nostra centralità. Perché la nostra è centralità di classe, innanzitutto per chi ha votato comunista, ma anche per chi ha votato Democrazia Cristiana e per chi, inducendo allora in grave errore i compagni di Lotta continua e Adriano Sofri, si faceva capitanare a Reggio Calabria, nella rivolta popolare, da Ciccio Franco; e per chi votava per coloro che li avrebbero poi necessariamente e storicamente sfruttati, e gettati nella disperazione, come Lauro, che votavano perché amavano.

 

Il Movimento ci accusa: ultraleninisti!

Questa è la nostra centralità, che noi lo si voglia o no. Ma dobbiamo volerla, compagni! Dobbiamo distoglierci, possiamo evitare di preoccuparci di essere accusati di “ultraleninismo”: capisco che sia fastidioso aver ogni giorno a che fare con queste accuse e sospetti nei nostri confronti, accuse che ci vengono dall’“area” e che vanno da “borghese” a “esibizionista”. Che ci volete fare, ciascuno ha la sua croce e noi siamo legati a questi compagni! Personalmente, sono un “pregiudicato” perché dieci anni fa sono stato, senza nulla chiedere, direttore di Lotta continua quando nessuno lo voleva fare. Non ho passaporto, perché pur deputato della Repubblica mi sono rifiutato di avere passaporto senza avere la certezza che gli altri 60 compagni con me incriminati otto anni fa come Lotta continua avessero avuto indietro anche il loro passaporto. È il mio provincialismo, per cui potrete vedermi difficilmente a Varsavia o altrove, tranne che nei paesi del MEC. Questo perché io sono marcato come uno di Lotta continua, uno degli organizzatori delle stragi di Trento o di cose del genere. E questo fino ai trenta milioni prestati a L.C. l’altro giorno. Sono – a volte – come quei figli viziati che ritengono che tutto sia loro dovuto ma, con un rapporto di odio-amore, rimproverano a papà e mamma anche di aver loro dato troppo: da una parte esigono, ma dall’altra si vergognano di aver troppo avuto.

La centralità deve essere conseguente al nostro disegno statutario democratico di classe alternativo. Ma vi pare possibile che nonostante il 43 per cento degli italiani che ha votato “Sì”, noi saremmo dediti alla rapina dei compagni militanti non radicali che con noi hanno raccolto le firme referendarie?

Ma scusate: se non ci fossimo noi (nonostante ci coprano di merda e ci dicano che quella era un’alleanza radicalfascista) a dire, anche ora, che noi difendiamo tutti, tutti quei “Sì” (senza andare con il lanternino a contare quanti siano quelli “buoni” e quanti quelli cattivi, sport preferito di quelli che non salvano neppure il 23 per cento che ha votato contro la legge Reale), che cosa si dovrebbe dire del 60 per cento che votò per il divorzio nel 1974? Anche allora il PDUP (allora Manifesto) era in parte contro i referendum. Ma noi dobbiamo rappresentare e riconoscere le cose come sono, dobbiamo riconoscere che quelle vittorie le dobbiamo a coloro che non essendo di sinistra hanno ugualmente votato con noi, affinché anche altri si schierino attorno alla bandiera dei diritti civili e di classe.

Nel messaggio al nostro congresso, scritto il giorno in cui fu ucciso, c’è una bellissima pagina di Pasolini, dove dice: guardatevi dal recupero che dei vostri diritti civili faranno gli intellettuali comunisti e marxisti, i gruppettari e via dicendo, perché allora non varranno più un soldo. I diritti civili per chi è compagno, cioè per noi? Va bene. Ma per l’“altro”? Io conosco un solo “altro”: il fascista; poiché l’antifascismo è la quintessenza della milizia radicale, a tutti i livelli. Io penso che gli Ernesto Rossi e i Terracini hanno lottato proprio perché non ci siano più dei Rossi, dei Terracini o magari dei ragazzini messi dentro perché leggevano, dieci anni fa, Nietzsche, oggi Cacciari o Evola. Magari avevano comprato sulla bancarella Mein Kampf ma non potevano leggerlo, senza andare in galera o essere criminalizzati, non potevano avere i loro fremiti, le loro compensazioni con quanto il caso aveva loro offerto.

 

Siamo tutti fascisti, sette volte al giorno

Quindi, l’“altro” nostro è il fascista; diciamo meglio: “penso che ciascuno di noi sia fascista sette volte al giorno, abbia cioè comportamenti fascisti”. Il nostro “altro”, cari compagni de l’Unità, il fascista nel comportamento, oggi – per esempio – siete voi! Qual è il “fascismo” che ci fa paura? Quello di Pino Rauti? Qual è, in Italia, la forza “fascista”? Gianni Agnelli, il grande capitalista, Baffi, Infelisi? Noi radicali diciamo di no; ma allora diciamo anche che oggi non si muore di “fascismo”. Sappiamo che il fascismo è cosa grave; fascismo è la guerra, fascismo è l’imperialismo, fascismo è il maschilismo. Ma fascismo è anche il potere che non fa dare rilievo giornalistico a certe notizie per autocensura (come accadeva sotto il fascismo), come a certe notizie venute dall’America sulla centrale nucleare. Non ho visto i fogli dei grandi giornalisti, né quello di Di Bella, né quello di Afeltra, ma so che se avessero agito da giornalisti avrebbero dedicato tutta la prima pagina non alle tre ore di Berlinguer bruciate dalla televisione (perché, tra radio e televisione, sono state trasmesse tutte e tre a 50 milioni di italiani), ma a questo avvenimento, che dalla televisione di Stato è stato solo accennato qua e là; perché oggi bisogna morire per l’Enel, invece che per la Libia e l’Albania!

Compagni non radicali che siete qui presenti: andateglielo a dire che noi non ingiuriamo i compagni! Perché noi, anche quando ci accusavano per questo di essere dei vermi nello schieramento di sinistra, abbiamo sempre detto che per noi nessuno era un verme e non c’erano topi da ricacciare nelle fogne. Ma c’erano semplicemente gli “altri” e gli altri non erano gli altri antifascisti, ma i fascisti. Noi ci siamo rifiutati di ingiuriare perfino i missini; per non ingiuriare loro, oltre che per non caricaturizzare il fascismo. Non è per rabbia, non per mancanza di amore da compagni, che oggi avvertiamo che il “fascismo” siete anche voi. Perché fascismo sono le leggi fasciste, gli assetti economici nazionali e internazionali fascisti. Se la partecipazione consociativa è il parametro della democrazia di oggi, ne abbiamo già – di questa democrazia – il grande giurista, il grande politico, il grande sindacalista (in questa grande democrazia partecipata: e non dispiaccia questo al compagno Ingrao perché non mi riferisco a lui) che si chiamano Alfredo Rocco, Rossoni, Bottai.

Non hanno da fare nessuna fatica, tanto è vero che quando Giovanni Berlinguer (favoloso compagno di medicina democratica, fino a quando non si scopre la democrazia consociativa e partecipata) diventa legislatore sul problema dell’aborto, fonda il suo »compromesso sul recupero culturale di una nozione che nella storia italiana può essere ritrovata solo nelle posizioni di Nicola Pende, di Gedda e di padre Gemelli (concezione di un materialismo dozzinale che fa paura al vero materialista e ad ogni umanesimo: figuratevi a quello comunista libertario, marxiano) per affermare, con una parte minoritaria della Chiesa (con San Basilio contro Sant’Agostino), che nel momento in cui scatta un processo biochimico già si ha l’uomo, tutta la persona, nella sua dignità; e che quindi la legge è fatta per proteggere quell’uomo e non la donna vittima delle leggi fasciste ancora in vigore.

Ma quando si arriva a tali dimissioni culturali, scientifiche, intellettuali, non c’è nessuna differenze con i motivi per cui il comunista e antifascista Togliatti dal 1936 al 1940 divenne il torturatore della memoria e dell’umanità di Trotzky, di Bucharin e di tutti i suoi compagni comunisti, divenendo così, per ragion di Stato, di partito e di comunismo, alleato del boia.

A queste cose il compagno Berlinguer deve stare attento. Io non penso mai che gli altri da me siano peggiori di me. Questa storia di Benito Mussolini che diventa fascista solo perché l’ambasciata di Francia alla vigilia della guerra lo compra… Avrà pure preso del denaro! Ma non si è stati a lungo il figlio di fabbro ferraio e di maestrina romagnola, esule, povero, carcerato in mezza Europa; non si è stati acclamati come compagno carismatico del grande partito unitario socialista italiano, da cui si viene designati a dirigere l’Avanti! sia pure contro i riformisti, per quattro soldi dell’ambasciata di Francia, senza trovare continuità reale di questo passato anche nel 1935, quando diceva che l’Italia era la grande proletaria che chiamava a sé, contro la demoplutocrazia internazionale, capitalistica e imperialistica, la solidarietà dei poveri e dei popoli per la “missione di civiltà” in favore dei negri “sfruttati” dal colonialismo della perfida Albione. No, tutto questo non si spiega con quattro soldi: al tri torbidumi interiori, altre difficoltà devono farci stare attenti. E noi, proprio perché siamo radicali, sappiamo bene che anche la peggiore delle leggi vale enormemente di più della legge della giungla, della legge della violenza (anche la barbara legge del taglione vale di più), proprio perché da quel momento si diventa soggetti possibili e non più solo oggetti di altre leggi, perché si induce il potere a riconoscere che c’è una norma alla quale anche lui deve adeguarsi.

 

Restituire il protagonismo socialista all’80% dei comunisti,
dei socialisti, dei radicali

Se teniamo presente questo, ci rendiamo ben conto di come la centralità radicale si debba oggi proporre il recupero della crescita del protagonismo socialista per l’80 per cento dei comunisti italiani, per l’80 per cento dei socialisti italiani, per l’80 per cento dei radicali italiani. Su questo terreno ciascuno di noi è atteso per confrontarsi.

Andiamo allora, compagno Landolfi, a vedere insieme il discorso di ieri del compagno Berlinguer. Il “blackout” antiradicale del quale hai parlato era obbligato: non si poteva parlare dei radicali, per due motivi. Innanzitutto perché parlarne confermando la dozzinalità togliattiana e stalinista della Tesi congressuale numero sessanta (o qualche altro numero: è quella in cui siamo accusati di radicalfascismo e che non è stata emendata), era in fondo un po’ difficile, ci voleva molto coraggio a farlo con tutte le televisioni davanti. Pensate la bella sghignazzata dell’80 per cento dei compagni del PCI che hanno votato con noi l’anno scorso contro il loro partito, se avessero ascoltato da Enrico Berlinguer quella che sta comunque per diventare una decisione ufficiale del partito e che fa di noi dei radicalfascisti appestati e pericolosi.

L’altro motivo è che, per quanto Berlinguer abbia parlato per tre ore, non ha parlato dell’11 giugno, non ha parlato di tutto l’anno scorso. Perché? È la logica dei Barbato, della televisione: se si comincia ad aver bisogno di abrogare i radicali, si deve poi abrogare almeno un anno di storia italiana, compagno Berlinguer! E non puoi andare a dire cosa è successo l’11 giugno, cosa è successo a Trieste e a Bolzano, non puoi parlare della nostra solidarietà ai ferrovieri, a coloro che lottavano negli ospedali. Non potevi farlo senza ricordare la vergogna di Ugo Spagnoli che andava in televisione a dire, con menzogne goebbelsiane, che votare per l’abrogazione della legge Reale significava scarcerare Curcio, Vallanzasca e Concutelli. Queste cose furono dette per ingannare i fascisti? No! Ma per ingannare i comunisti, i socialisti, i democratici!

A un certo punto, il compagno Berlinguer ha detto: non posso parlare in questa sede del come siamo giunti, a novembre o a dicembre, a formarci la convinzione che si sarebbe dovuti venire a fare questa sceneggiata congressuale.

Lo credo, compagno Berlinguer: tu hai dovuto farlo perché il tuo compagno funzionario Celso Ghini aveva fatto, all’inizio di novembre, un sondaggio da cui risultava per il partito comunista uno scollamento elettorale del 14 per cento nei centri operai: figuriamoci negli altri! E lo hai fatto perché c’erano stati quei fatti (i referendum, Trento, Trieste e Bolzano, i sindacalisti, i ferrovieri) e si preannunciava la primavera delle rivendicazioni sindacali nel settore pubblico (che così, a parte un po’ di sceneggiata, si è persa per strada).

Ma un capo (perché di questo pare che si tratti, se può impunemente non rendere conto di certe cose al congresso) che ha bisogno di abrogare l’analisi, l’esistenza di anni di lotta politica, che capo è? Uno che non parla di quanto è avvenuto nella centrale nucleare americana, che dice che bisogna lottare per la società socialista ma non dice nulla sulla scelta dei comunisti francesi e sulla società al plutonio! Almeno, i comunisti francesi sono ancora – formalmente – contro la NATO, ma come poteva Enrico Berlinguer urlare contro il plutonio, se ha spiegato che solo sotto l’ombrello della NATO si può meglio lottare per realizzare il socialismo nel nostro paese?

 

Una logica infernale, il centralismo PCI

Non solo non si parla dell’anno scorso, ma si ha bisogno del fascismo alla televisione, delle mafie, dei riciclatori dei quattrini dei Sindona e degli altri che si finanziano con le leggi per l’editoria, che noi abbiamo avuto l’onore di bloccare: e i giornalisti che oggi censurano i radicali perché li ritengono eccessivi verranno domani a piangere per come loro stessi saranno trattati – fra un paio d’anni – se vorranno continuare a essere comunisti o socialisti nei loro giornali; e ci diranno: avevate ragione; ma il realismo oggi li piega: una testa in più o in meno, che conta?

È facile abrogare il passato; ma il guaio è che così bisogna evitare anche ogni discorso sul vero avvenire. Siamo stati rimproverati (non so se dall’Unità o da quale altra “sotto-Unità”, il Quotidiano, La Sinistra) che da questo congresso sarebbe totalmente assente qualsiasi riferimento ai dati reali della “classe” (il lavoro, il pane, eccetera). Ma – abbiate pazienza! – per questo assetto della vita sociale, salariale, ci sono le Camere del lavoro o ci siete voi: oggi comunque è difficile esprimersi, tentare di comunicare nonostante i nostri “bavagli” cosi scurrili, plebei, gigioneschi (senza i quali però, Democrazia Proletaria non avrebbe avuto un quoziente nemmeno nel 1976). Oggi voi vi state sbranando per le elezioni, mentre noi ci sbraniamo con i Selva, con la DC, con i comunisti, per guadagnare anche per voi un po’ di verità, per salvare noi ma soprattutto voi. Per voi, invece, una sbranatina al radicale, così, en passant, è ancora lo sport preferito di questi giorni.

Dicevo che il problema è questo, per Bettino Craxi (arriveremo anche a lui) così come per Enrico Berlinguer: come si fa a protestare contro il plutonio e la società nucleare essendo a favore della NATO, magari anche con i comunisti di ieri contrari alla NATO ma favorevoli alla scelta nucleare? Come si fa a parlare di socialismo senza tenere conto che questo è il momento delle scelte delle tecnologie di domani, che già contengano in sé il destino dell’autogestione o del supercapitalismo!

 

Lotta di classe è anche tecnologia “dolce”

L’autogestione non è un “flatus vocis”, una speranza o un sogno; è un fatto “tecnico”, come quell’accordino, elettorale, insito in una tecnologia, escluso invece in un’altra. Lotta di classe significa quindi anche cercare di imporre una tecnologia al posto di una altra, scegliendo quella definita dolce, alternativa. Ma questo non è poi un motivo per venire a dire, come a Genova, che i radicali, gli Amici della terra (che queste battaglie le fanno) sono “nemici” di classe. Io, per esempio, posso essere a favore o anche contro il solare, visto che è possibile, nel giro di sei o sette anni, concepire e realizzare un satellite capace di immagazzinare tanta energia solare da incenerire quindici chilometri quadrati di terra al suo passaggio.

E questo è anche il problema del piccolo artigiano, quello di Trastevere e di Testaccio, quello della Roma papalina che è andato dai socialisti o dai repubblicani. Era quello del piacere del lavoro, del rapporto creativo con un certo tessuto sociale e che finisce per essere recuperato all’estrema destra, dal corporativismo contro il collettivismo. Ed è solo con l’energia alternativa che si può ricreare il piacere e la dimensione del lavoro artigianale, magari quello della cura energetica del proprio giardino o di quelli vicini, che versi energia nelle reti di quell’Enel che dovrebbe essere banca dell’energia e non monopolio della spesa energetica incontrollata.

Su queste cose, concrete e coerenti, dovrà aver luogo lo scontro e dovrà essere compiuta la scelta, per la vita di tutti noi, per la vita dei partiti, per la vita del partito comunista, del Parlamento.

Noi radicali siamo soprattutto seri e responsabili in economia: siamo il partito dell’economia, facciamo economia dell’economia, non la spendiamo continuamente. Ci occupammo dei fatti fondamentali, dell’interclassismo, dell’ENI, dell’Immobiliare, dell’assistenza, della 167, ci occupiamo del settore energetico: al congresso comunista discuteranno degli incontri fra cattolici e comunisti ma non di questo, non della riforma dei codici, ad esempio. Il Partito Comunista, compagno Berlinguer, ha accettato, a settembre, che il Parlamento italiano rinviasse per l’ennesima volta l’attuazione di quel Codice di procedura penale che era già pronto da un anno e che il compagno Ingrao, violando il regolamento, non mi ha consentito di effettivamente presentare alla Camera (anche se poi, comunque, lo abbiamo presentato). E questo perché l’approvazione di quel Codice di procedura penale è incompatibile con la scelta comune di Pecchioli e di Cossiga, di affidare la speranza dell’ordine in Italia ad una ulteriore novellistica reazionaria – altri quattro decreti – a sua volta incompatibile con il Codice di procedura penale già elaborato da una loro commissione.

Non si parla, dunque, di tutto questo; ma allora, di che cosa si parla? Sembra che la vita sia molto semplice e che, in fondo, noi saremmo anche quelli dell’irresponsabile isolamento. Ci riconoscono di essere gente di lotta, magari sciatta, guitta, ma sempre lotta, ma non certo gente di governo. Io invece credo che il Partito Radicale sia e sia stato in tutti questi anni partito di governo (come ci siamo trovati a dover manifestare in Parlamento), governo delle situazioni, governo dei sentimenti per i quali questa società sta cadendo nel caos, governo di chi si governa con la propria responsabilità e tende a poter governare non sugli altri ma con gli altri… Allora, c’è da governare, pare… Non si è vergognato il compagno Berlinguer – ognuno ha i suoi analfabetismi – di riparlare di “pace” religiosa da garantire in Italia! Roba che nelle elementari del 1932-34, quando Benito Mussolini cercava di spiegarcela, veniva accennata con maggior pudore, perché improponibile.

Insomma, non ci faremmo carico noi di questo tipo di incontro fra comunisti, socialisti e cattolici!

Compagni, ho in proposito una proposta da avanzare. Dopo le tante proposte all’unità dei credenti in altro che nel potere e nel denaro, io rivendico al mio essere uno di voi il fatto che da gennaio lo scempio della religiosità cattolica (come della nostra vita civile) che consisteva nell’agitare embrioni e zigoti dinanzi agli occhi di tutti, urlando e strappandosi i capelli, è terminato!

È bastato evocare il bambino che muore assassinato davvero, perché ci venisse un messaggio da parte di qualcuno a cui nuoce il fatto che i mass-media ancora non ne hanno compreso la profonda intelligenza innovatrice e che si rovescia ogni giorno su di noi solo come quella di un giornalista e politologo.

Gianni Baget-Bozzo, in realtà don Baget Bozzo, è uno dei tomisti più impegnati in Italia, è un uomo che afferma chiaramente di poter comprendere e praticare la vita politica italiana perché i referenti e i riferimenti che come teologo ha guadagnato alla sua cultura gli servono per meglio leggere anche la realtà delle ideologie e della sociologia del nostro paese. Su Argomenti radicali se ben lo intendo, non si limita, come lui e Angelo Panebianco sanno fare, a spiegare noi stessi a noi. Non si limita a questo, ma rivolge un appello ai radicali per questa battaglia in difesa della vita, di cui ci offre lui stesso tutte le pezze d’appoggio teologiche, perché quello è un articolo di teologia.

Proprio questo chiedevo quattro mesi fa! Dinanzi a coloro i quali ci dicevano che – ed era vero – la teologia aveva trovato nella sua storia la scomunica “latae sententiae” per chi praticava l’aborto, cioè la scomunica “in re”, rivolgevo un appello ai teologi cattolici perché trovassero, ad onore della propria teologia e della propria religione, nella loro teologia anche la “latae sententiae” contro gli assassini (ladri di 400 mila miliardi spesi in armi) di forse mezzo miliardo in dieci anni di uomini e di donne.

Gianni Baget Bozzo ci propone che il movimento radicale per la vita e la pace e il movimento della vita di Benelli si incontrino e si confrontino. Può essere scandaloso, ma, compagne e compagni, ricordate sempre Pasolini: “siate sempre irriconoscibili!”. Non avete avuto paura né del pubblicano né del fariseo, né del fascista, ed è tutto dire!

 

Propongo ai cattolici un incontro sui valori…

Non faccio mio questo appello per rispetto verso colui il quale lo lancia, ma me ne faccio tramite e portavoce al cardinale Benelli, al Movimento per la vita, ai clericali e ai cattolici italiani, aderendo per mio conto all’appello di Baget Bozzo perché ci si incontri e confronti in questa opera che (non dispiaccia a Franzoni, per quel che ci riguarda non vincola nessuno) è sicuramente, come dice Salvatore Sechi, anche un battaglia antimperialista, socialista, antimilitarista, democratica di classe, che ci unisce tutti.

Compagno Berlinguer, è sui valori che si può unire l’uomo di fede cattolico socialista o comunista! Sulle battaglie per la vita, non sulle leggi Reale, non sulle diplomazie della NATO! Compagno Berlinguer, la sinistra è questa!

Forse qualcuno di voi – non tutti – può lecitamente dubitare, perché viviamo insieme o siamo stati accanto in questi giorni, che non solo irridotta ma piena è la mia felicità di poter aspettare la felicità del vivere. Mai come in questo momento, compagni di Lotta continua, sento di essere nutrito anche della storia dei Wolf e dei Tristan, dei tanti sottoproletari come loro e dei tanti ragazzi delle anfetamine, il cui sacrificio non siamo riusciti ad impedire – e lo sapevamo – ma per lo meno abbiamo tentato in qualche misura di vivere con loro, notti e giorni nei luoghi e nelle strade comuni.

Ripeto qui la proposta politica, il progetto di parte, socialista, comunista, cristiano del 2 per cento, il progetto del diritto di rifiutare come fatale lo sterminio di decine di milioni di persone. Perché se un mondo si degrada al punto di poter vedere nel suo presente e futuro come normale l’assassinio di decine di milioni di persone, non è che io non voglia più viverlo questo mondo, ma è questo mondo che mi ammazza o mi ammazzerà, perché ci sono tanti modi per andarsene quando non si ha più voglia di restare.

Ripeto qui che lego ed intendo mantenere legata alla mia esistenza, almeno quella di altre centinaia di migliaia di persone. La loro e la mia, perché questo prezzo classista e razzista è necessario pagarlo, perché alcuni si muoveranno – che non si muovono su milioni – per salvarne uno, forse. Io difenderò con ferocia questo mio e loro diritto alla vita! Lo farò, compagni del Manifesto, di Lotta continua, dell’Unità, ricordandovi che essere compagni è innanzi tutto un modo di vivere e non un modo per riempire i vostri giornali di discorsi sulle elezioni e sulla proposta Pannella, dopo che da nove mesi avete abrogato questa battaglia dalla vostra esistenza di donne e di uomini della sinistra di classe!

Propongo al comitato, al compagno Terracini, ad Emma, a voi tutti che il giorno di Pasqua – è lontano, ma dovremo arrivarci tutti senza eccezioni – non con il capo o altro cosparso di cenere, ma con tutta la nostra vita e le nostre ragioni, si parta da Porta Pia, dopo una veglia – non so se dal venerdì di passione o dal sabato – laica, nostra, militante, magari di marcia (dalle Fosse Ardeatine o da altrove).

Apro una parentesi: Bene, compagni del PCI, andiamo pure fino alla delazione di massa, irresponsabili e stupidi come oggi siete, per combattere le Brigate rosse, ma allora preparate un’altra caterva di insulti a chi vi parla e agli altri. Se non si rifiutano le leggi barbare della guerra rendeteci conto – se siete così feroci contro i Curcio, il loro errore e la loro disperazione – dei 44 ragazzi altoatesini fatti saltare per aria a via Rasella solo perché portavano un’altra divisa, e per cui sono morti poi i compagni di Giustizia e Libertà e ebrei alle Ardeatine! Non possiamo fare la storia senza questi dilaniamenti interiori e senza dire che se si è barbari ed assassini, non è il fatto che la causa sia giusta o meno che ci può affrancare.

Se barbari ed assassini sono i ragazzi dell’Azione Cattolica, Curcio che, sulla base delle iconografie dei San Gabriele e San Michele, con il piede schiacciano il demonio e diventano giustizieri contro il drago capitalista ed anche loro da giustizieri ammazzano, massacrano e si immolano, allora anche Carla Capponi, la “nostra” Carla, medaglia d’oro della Resistenza, per averla messa a via Rasella, con Antonello, con Amendola e gli altri, debbono ricordare quella bomba.

Dobbiamo dire che se abbiamo un rapporto di intimità con la storia fascista, abbiamo (e lo ho per il rapporto oggettivo cui la classe mi inchioda) lo stesso rapporto con i torturatori peggiori, con i miei compagni Togliatti e Curcio.

Chiusa questa parentesi, propongo sul piano dell’unità vera per la vita che il giorno di Pasqua tutte le nostre organizzazioni escano con i loro tavoli. Potrebbero non esserci le elezioni. Riscopriamo la bellezza ed il valore del tavolo sul marciapiedi per raccogliere le firme. Non siamo radicali senza questo strumento. Non siamo nuovi e non ci rinnoviamo senza questo modo diverso di servire gli altri e se stessi.

Il giorno di Pasqua, per quel 2 per cento e per quelle centinaia di migliaia di persone delle quali faccio parte, dovremo partire da Porta Pia – da riconquistare a cardinali abusivi e a sindaci abusivi – con le nostre rose ed i nostri ramoscelli d’ulivo, dopo aver invitato a questa unità i cattolici socialisti e comunisti, il Partito comunista, le sezioni comuniste, i deputati, il sindaco Argan; partiremo da Porta Pia per arrivare anche noi a Piazza San Pietro con i nostri cartelli un’ora prima della benedizione “urbi et orbi” di Pasqua, laicamente supplicando Giovanni Paolo II perché dica in quella occasione, in cui le televisioni di tutto il mondo saranno puntate su di lui, non che la Chiesa piange sulla morte come da sempre fa, ma si schiera con coloro i quali quest’anno vogliono intervenire perché almeno alcuni di quelle centinaia di milioni di assassinati vengano salvati. Questo chiederemo e questo dovremo saper chiedere anche nelle piazze.

Compagne e compagni, questo non apparirà sui giornali di domani. Figuratevi! Se oggi Gianfranco fosse andato lui da Selva, gli sarebbe andata bene ai direttori dei giornali! Avrebbero potuto spostare un po’ i riflettori su Selva anziché su questo intervento. Non c’è nulla che li distrae oggi, e Mario Appignani non ha fatto il coglione e quindi non gli ha dato troppo l’occasione…

 

…e alla DC (e PCI) un patto costituzionale

Personalmente propongo ai compagni non una cosa, ma il riconoscimento di un fatto; e lo annuncio, amici giornalisti, da questa tribuna. Propongo un patto costituzionale alla Democrazia Cristiana. Parlo molto seriamente. Andremo alle elezioni con una offerta di patto costituzionale. Vedo che i compagni ridono, ma fanno bene, perché probabilmente sanno che, in realtà, lo abbiamo sempre fatto. Solo, la stampa non se ne è accorta.

Come ramoscello d’ulivo prepasquale, agli insulti delle tesi comuniste avanziamo questa proposta di patto costituzionale a Dc e Pci assieme: che volete, l’interclassismo li unisce e quindi dobbiamo farlo! Noi proponiamo che, chiunque vinca le elezioni, il governo (di destra o di sinistra che sarà) abbia come compito – e dovrà essere libero di assolverlo; l’opposizione non dovrà dargli fastidio – quello di varare leggi di attuazione costituzionale.

Noi siamo qui. La Costituzione conquistata dai partigiani cattolici, comunisti e socialisti uniti tutti… eccetera, la grande unità popolare… eccetera eccetera, che non bisogna distruggere nei momenti gravi in cui il terrorismo incalza… eccetera eccetera. Certo, compagni! Sappiamo allora seriamente Giulio Andreotti, Fanfani e gli altri, che forse c’è un nuovo ascaro nell’orizzonte oltre quelli tradizionali della politica e della sinistra italiana! C’è anche l’ascaro radicale!

Siamo pronti, se andranno loro al governo e diranno no alla politica ingraiana e berlingueriana della consociazione partecipativa (con la poltrona non solo della banca ma anche del ministero) a non dargli fastidio, se non quando andassero contro la Costituzione! Ma in tal caso (vero, compagno Berlinguer?) come si è detto nel ‘53 e nel ‘60, non solo si fa ostruzionismo alla Camera, ma addirittura si scende in piazza! Credete che sulla riforma – quella vera – della Commissione inquirente gli elettori democristiani, quelli onesti che hanno sempre discusso e votato come cristiani, sarebbero con la Dc e non con noi?

Pensate che cosa sarebbe accaduto in questi anni se fossimo riusciti a far passare la nostra tesi secondo cui, come dice la Costituzione, l’Inquirente sarebbe legittimata a sottrarre al magistrato solo i ministri in carica e non gli ex ministri!

Da questo congresso rivolgiamo a Benelli l’invito formale, umile, sincero, e fiducioso della proposta di Baget Bozzo. Ma chi vorrà raccoglierla? Fanfani? I fanfani di oggi non sono quelli di ieri! Dopo il 13 maggio Fanfani non è più Fanfani Fanfani, ma un Fanfani dimezzato… Il Fanfani che faceva paura giocava delle carte arroganti e difficili, mentre oggi mi sembra che abbia capito e in certi momenti il garantismo del Presidente del Senato è sicuramente stato maggiore di quello del Presidente della Camera.

Devo dire che anche il compagno Berlinguer parla poco con la gente, è troppo chiuso in sé, si scrive le cose. Ma come fa ad affermare con quel tono che tutto quello che rimprovera alla DC è l’arroganza? Scusate, compagni ma come fa a dirlo con quel tono, dopo che il partito ha detto agii ospedalieri e a tutti i compagni nelle sezioni di stare zitti, perché non capivano nulla e di non disturbare il manovratore? Dopo la loro arroganza, dopo l’arroganza del loro giornale per cui Umberto Terracini esiste solo quando qualche giornale borghese gli va a chiedere una dichiarazione e non esiste mai per l’Unità? L’arroganza vi unisce e nell’arroganza vi batteremo, compagno Berlinguer! Per l’arroganza comune sarete sconfitti!

 

Non c’è socialismo senza capovolgere i rapporti di produzione    

Questa nostra proposta di nuova unità è importante e possiamo andare avanti, compagne e compagni, comunisti e socialisti, ma a condizione che chiariamo i nostri problemi di vita e di morte, che sono anche vostri. Facciamo parte della politica. Per fortuna dalla sinistra ora non verranno più gli attacchi se io dirò che la mia preoccupazione è che il nostro partito rischia di perdere. Non perché lo vuole, ma perché su quel fronte lo scontro è tremendo. La battaglia che gli è propria, è una battaglia che deve essere continua, sulla droga, sulla sessualità, sulla morte, sul suicidio, sull’aborto, sui non-vedenti (dobbiamo tornare a dire: “ciechi”, perché con il termine non-vedente ci liberiamo a buon prezzo) sugli storpi che siamo (non sugli handicappati; ributtiamogli questa parola! Ci hanno fatto concessioni semantiche, oggi le pagliuche direbbero che i loro bambini sono…, non so che cosa, non vedenti, eccetera). Di questo dobbiamo preoccuparci, ma dobbiamo essere molti di più come iscritti, ma anche alla Camera e al Senato, perché badate, forse possiamo vincere la lotta contro la NATO e le grandi cose, ma dove rischiamo di non passare se non siamo venti o trenta è su queste cose che paiono nulla: sul “braille” in cui sia tradotta la cultura e non la non-cultura, il triste catechismo, come è oggi. Per queste liberazioni dobbiamo essere in tanti!

Il nostro socialismo è questo. Debbono mutare ed essere capovolti i rapporti di produzione. Non c’è socialismo all’infuori di questo. Oggi abbiamo da conquistare le tecnologie alternative, non la proclamazione di classe con il “k”.

Giustamente ricordava Jean, nella sua ottima relazione, che il salto qualitativo socialista della rivoluzione bolscevica è quando all’equazione soviet + elettricità = rivoluzione e società socialista per “realismo” politico e di partito Lenin per primo accetta di mettere tra parentesi il soviet, per farne un “obiettivo”. Cosi impera l’imperativo dell’elettrificazione a ogni costo e Stalin obbedisce, perché se l’imperativo è quello dell’industrializzazione e dell’elettrificazione eretto a unico e primo obiettivo e mezzo, allora il programma dei redditi di Stalin aveva bisogno di far morire di fame i milioni e milioni di contadini del Volga-Don e quindi poi di sterminare ed ammazzare quelli che si ribellavano contro la morte per fame degli altri.

Questo è il problema! Ma come dirlo? Noi non possiamo, perché chi mai ci consentirà di entrare in contatto ed in confronto con Enrico Berlinguer e magari con Bettino Craxi su queste cose, quando tutto l’imperialismo del mondo, tutto il complesso industriale e militare, tutto il capitalismo italiano ha interesse che il regime ci impedisca proprio di discutere di questo con Enrico Berlinguer? Se ci fosse un confronto televisivo su questo, allora la maschera dovrebbe essere abbassata, perché oggi socialismo è appunto soviet + elettrificazione; è tecnologie alternative. Questo significa autogestione, diversi rapporti di produzione eccetera. Tutto questo significa mettere in crisi la tecnologia militare; non necessariamente i militari, ma la tecnologia militare esistente, che ha bisogno proprio di questo tipo di opera.

Se su questo dobbiamo andare al confronto io credo, compagne e compagni, che sempre di più diventa essenziale riflettere sul fatto che la vostra forza è nella consapevolezza che la violenza di classe e la violenza della guerra costituiscono il terreno privilegiato nel quale vogliono portarci. Ecco la nonviolenza!

Se fosse qui e se potesse ascoltarmi direi a Curcio, a questi fratelli disperati che hanno scelto di divenire assassini per le cose che amano e per le quali magari si illudono anche per noi, se non è forse meglio rischiare di vivere, come sto facendo, come fa Paolo Carotta e come hanno fatto sempre coloro che sono stati a questo tavolo, con un digiuno, che almeno mette in luce comunque che la violenza è altrove, è nell’interlocutore, che morire come Mara e come tutti i compagni che vivono come te, fratello Curcio, compagno Curcio, lì dentro con centinaia di altri.

Anche su questo lanciamo la sfida. Noi ci facciamo carico, compagno Curcio e compagni dell’Autonomia di Roma e di via dei Volsci, di dire che la nostra è una indicazione di lotta e una centralità diversa. Non la vostra; non possiamo, pena di divenire uguali a tutti i nostri avversari, non fare anche la battaglia del “due per cento” e non ricordare ai nouveaux philosophes o ai “vecchi traditori” o rinnegati borghesi, che oggi più che mai la lettura del Manifesto del 1848 può essere istruttiva e di una evidenza che accieca. C’è, c’è, c’è… il proletariato, il sottoproletariato; c’è chi sfrutta, chi muore, chi non ha nemmeno diritto alla vita e chi ha il dovere di lasciarsi insidiare dalla morte per obesità per nutrire gli stessi meccanismi di sviluppo e di profitto che da un’altra parte vogliono che ci sia la morte per decine di milioni…

 

Il P.R. vive se vive nelle realtà sociali, morali, culturali…    

Compagni, avrei certo molte altre cose da dirvi, ma ritengo sarebbe un privilegio anche solo il ritenere di avere il diritto di dirle tutte; e forse sarebbe eccessivo sperare che io possa anche solo ricordarle; ma ve ne sono alcune cui non posso non fare cenno.

Ad esempio, quella che per me è sicuramente è una nuova battaglia radicale, che mi è stata imposta dai congressi del partito che – a mio avviso senza molta precisione – l’hanno ricordata: il cosiddetto problema della regionalizzazione del Partito radicale. Questo problema non esiste.

Il Partito radicale, compagne e compagni, non si regionalizza nel momento in cui in cinque ci vediamo a Teramo, invece di far venire continuamente questi cinque compagni a Roma. Al limite, ritengo che se questi cinque compagni continuano ad essere nomadi e ad avere un contatto continuo con la crescita delle idee e del lavoro di Roma, saranno più armati quando torneranno a Teramo per condurre qualche azione politica in sintonia con gli altri compagni.

In cinque non c’è partito delle diversità, non c’è nemmeno l’antagonista radicale; figuratevi il protagonista! E una vita grama, tremenda, un errore. Magari si diventa dei dolci settari, perché difficilmente credo che noi possiamo essere, come modello, feroci rivoluzionari giacobini. Si può essere dolci, ma anche settari nella realtà, costituirsi in setta e poi vivere settariamente anche nel proprio interno.

La regionalizzazione significa lotta politica per esaltare nella loro diversità, ma anche nella loro realtà, le storie di dove viviamo e da dove veniamo.

L’alleanza con i regionalisti che sono già radicali e socialisti è l’alleanza con noi stessi; è l’alleanza di una setta divisa da opportunismi diversi, perché quelli sono come noi, magari più realisti o opportunisti e guidano il movimento Friuli o la lista per Trieste, o non so che cos’altro. Questo non serve a nulla, il problema è un altro.

Regionalizzazione significa fare quello che abbiamo fatto con le donne clericali e cattoliche e con altre, nella lotta per l’aborto o contro l’aborto. Nella loro diversità non capivano, ma è nei fatti che si sono unite. La regionalizzazione c’è quando vive nella coscienza della Regione, non quando la si impone continuamente nella coscienza dei “dirigenti nazionali” del Partito Radicale, come condizione di conflitto contro il centralismo e la centralità. Il Partito radicale esiste lì dove, come a Roma con la battaglia contro Petrucci e l’Immobiliare, ci insediammo nella nostra specificità e nelle concrete realtà sociali, morali e culturali di questa città.

Non si arriva nemmeno attraverso una lettura erudita delle tradizioni popolari specifiche del luogo. Questa è un’altra via per perdersi ed essere poi annessi, in quanto eruditi, allo schema nazionale di classe che esiste. Le vie dell’integrazione nazionale sono infinite; fra l’altro, la propria attività, i moduli e i modelli d’azione. Il problema è che noi dobbiamo assumerci la responsabilità di un confronto quotidiano con le liste e le realtà locali quando queste siano ancora ambigue e contraddittorie, cioè vive; certo non con PP.TT; ma quando c’è un 30-40 per cento di una città, come a Trieste, dove si danno voti per cause giustissime ad una lista che è fatta per la metà, e forse anche per l’80 per cento da antifascisti e da un certo tipo di persone, il mio tentativo deve essere di salvare quella lista nella sua contraddizione e nella sua unità, mentre il gioco del regime è quello di mangiarsela piano piano, di dividersela fra i partiti delle ammucchiate. Stanno lì come corvi per toglierle lo specifico popolare di lotta.

Questo è un tema grave. Ai compagni più realisti e più politici sembrava molto facile – e infatti su questo non hanno molto discusso – che la lista di Trieste, in quanto tale, entrasse nella lista radicale. Per me era un obiettivo e non una certezza e quindi sostenevo che il problema era quello di portare nella lista l’ala destra, il cattolico della lista per Trieste, cioè quello che impedisce che i voti che fino all’anno scorso erano democristiani, missini, liberali o non so che altro tornino alla DC, all’MSI, ai liberali o a non so che altro: quell’uomo che l’anno scorso ha risolto i suoi problemi di coscienza, che è stato per tutta la sua vita democristiano, socialdemocratico, liberale o non so che altro, e poi rompe per la difesa del Carso ed è condannato per un anno a praticare l’alleanza con i radicali, quello è l’uomo dell’unità popolare giusta.

 

La “diversità” deve essere contraddizione al sistema

Perché il problema non è quello di andare a vedere se chi conduce con noi la lotta per l’aborto sia anche antimilitarista, come vorrebbero certe compagne femministe che amano fare del femminismo per restare sole. Sul divorzio siamo riusciti ad aggregare in una lotta democratica di classe poderosa gente del MSI e di tutti i tipi. Se poi se ne sono andati, questo è un altro discorso, ma noi abbiamo tolto ad Almirante ed a Fanfani dei voti, non loro a noi. Non ce li siamo fatti togliere come hanno fatto le sinistre in questi anni, cambiando, loro e non noi, la propria bandiera.

Nessuno ci può rimproverare di avere sia pure per un attimo dimenticato o fatto dimenticare la nostra diversità. Dicevamo che chiunque avesse preso la nostra tessera rappresentava una contraddizione, non nostra ma sua. Dobbiamo rispettare questa realtà e dobbiamo essere non settari. Dobbiamo esaltare la diversità che tendenzialmente scelga la parte per noi giusta.

Quello che mi interessa, compagne e compagni, è – come ho detto prima – di portare nella lista, ad esempio di Trieste, anche l’ala destra delle liste locali. Non “solo” quella; magari ci fosse, ma non c’è più, la Destra sardista. Non c’è perché è stata mangiata, rischia di esserlo, è tutta e solo “destra”, perché quando si è trasformati e legati ed obbligati al carro elettorale del PCI, del PRI, del PSDI e via dicendo, si è morti come forza autonoma e di sinistra, si è “destra” e non si ha più nulla a che vedere con Lussu e con un certo sardismo.

Il problema vero, compagni, è che chi rompe a destra per fare la lista di Trieste, chi rompe con la Dc, con la Chiesa magari locale, chi rompe con i liberali o con i socialdemocratici, è sicuramente anche un credente in qualche cosa d’altro che nel potere o negli uomini di potere.

Io credo che è in quei credenti in buona fede che risiedono le contraddizioni esplosive della borghesia. Quelli che continuano a credere in buona fede che noi vogliamo costringere la donna a schiacciare lo zigote e a divenire assassina e non comprendono che noi siamo gli unici che possiamo disarmare Cesare nel suo immondo aborto di Stato e alzare alta la bandiera della libertà e della responsabilità nell’amministrare e vivere il proprio corpo nella maternità e nella paternità, possono essere e in parte già sono donne e uomini con i quali un lungo cammino su molte cose può essere compiuto, mentre non lo si può compiere con i “politici”, con quelli delle “ideologie”, con i “realisti” democratici; perché costoro sono ormai alienati dalla politica interclassista e di classe.

 

Il P.R. partito omnibus delle autonomie

Sarà faticoso, ma io penso che in occasione di queste elezioni noi dobbiamo essere la testa di ponte, come lo siamo stati a Bolzano e a Trento, dei compagni che ho nominato di Lotta continua, o già di Lotta continua, perché vengano a Roma, non da ascari o clienti. Con gli autonomismi, per salvarli. Senza questa testa di ponte, senza costringerli, senza aggregarli e farli eleggere in Parlamento saranno distrutti e riassorbiti con il vecchio gioco della borghesia o di una certa borghesia che ha fatto nascere i Lauro e i Giannini, perché sapeva che attraverso queste proteste senza solidità culturale e nazionale sarebbe poi stato facile riassorbirli progressivamente con l’interclassismo della sinistra cattolica e della grande destra del Partito comunista e del sindacato interclassista e corporativista.

Compagni, su questo sono troppo duro? No, è vero invece che non c’è grande partito che non sia potenzialmente anche grosso, che non sia omnibus; non c’è grande partito nella storia che non si presterebbe all’accusa dei piccoli scrivani “rivoluzionari”, di essere interclassista.

Il Partito Comunista è invece, compagni e amici, Fosso e non grande nella sua politica di oggi, non perché, come è giusto ed auspicabile, vi sono dei piccoli aristocratici o delle famiglie aristocratiche e di altissima borghesia quasi in maggioranza rappresentate nella sua direzione e ovunque, non perché abbia una situazione sociale corrispondente, come spaccato, alla società civile italiana. Non è questo. Quello che fa il carattere di classe o interclassista di un movimento sono le battaglie che esso conduce, gli interessi che difende, le alleanze che pratica, gli obiettivi che impone e che conquista. Ritengo che se non si comprende questo, si comprende ben poco della grande potenzialità socialista e democratica.

Non una virgola dei propri obiettivi da cedere; ma su questa virgola, nel momento in cui viene accettata, chiunque la accetti deve essere nostro alleato per la politica democratica di classe alternativa, piena di speranze di vincere, come ci si riconosce, nel quotidiano, anno per anno, in tutte le battaglie che conduciamo. Ciò che io propongo e ripropongo al congresso, è sulla linea – come tutto quello che ho detto – dell’ottima, corale davvero, relazione del compagno Jean Fabre. Anche voi lo avete ascoltato e dinanzi alle sdrucciole che sdrucciolavano, agli accenti e agli errori, ero commosso dalla reazione del congresso. Sarebbe stato facile che calasse lo spessore del sorriso e del distrarsi; ma tutti quelli che c’erano hanno ascoltato il segretario nazionale senza esseri distratti dall’accento, interessati e coinvolti dalla parola e dalla proposta.

Compagni, mi parlavano di congressi che non sono congressi e di segretari nazionali che non sono tali, del carisma di Pannella che passa e di altre cose del genere. Cari compagni, non credo affatto che stiamo crescendo altro da quella che è l’intuizione dello statuto libertario.

Compagni dell’“»area”, compagni, noi siamo sempre stati partito! Abbiamo detto tante volte – lo avete dimenticato – che ritenevamo di avere nel nostro statuto sicuramente il segmento più alto di teoria politica della prassi e dell’organizzazione in Europa oggi. Ci credevamo. Per questo non ci avevate capito, e noi abbiamo resistito, quando ci accusavate di aprirci ai Plebe. Noi volevamo semplicemente non chiuderci nemmeno alla plebe perché la plebe che si organizza diventa allora proletariato. Non ci siamo chiusi e Plebe non è entrato.

Ci hanno accusato di aprirci ai fascisti, ci hanno accusato di essere infiltrati. È vero che esistono patologie per le quali si preferisce a volte guardare dal buco della serratura quello che si potrebbe vedere a porte spalancate ed è vero quindi che si tende ad interpretare la realtà del Partito radicale attraverso il voyeurismo del buco della serratura della propria storia, ma non abbiamo che farci… l’unico guaio è che quello statuto era ed è improprio per un “partitino”. Era ed è la proposta della teoria della prassi, dell’organizzazione al protagonista socialista italiano ed europeo.

Allora, vorreste davvero, compagni che ci criticate di trionfalismo e di leninismo, che noi rinunciassimo non alla chiarezza, ma al compito che ci sta sempre più riuscendo, di mantenere a voi e a noi questa crescita, nella disperazione dei crolli che vanno da quelli del partito d’azione a quelli di unità popolare, a quelli del PSIUP, a quelli del Manifesto e a tutti quanti gli altri, quando abbiamo qui una testimonianza di potenzialità e di forza…? Invece, in questa occasione, diciamo ancora a voi di prendere anche la tessera radicale in attesa che offriate anche a noi la possibilità di prendere anche altre tessere. Magari, compagni, voleste offrirci qualche volta l’occasione di essere strumentalizzati da voi, di prendere le vostre tessere!

Quindi, partito “grande” e anti-interclassista. Eccoci, con le parole tradizionali del socialismo francese, del grande socialismo riformatore (sconfitto anch’esso dal socialismo scientifico oltre che dalle proprie limitatezze e dalla troppo grande ambizione di fare la rivoluzione del mondo, la società, l’uomo e la donna nuovi in cento o in ottanta anni, cosa che non poteva essere), ad affermare poche semplici cose: sì laico ai dialoghi, ai confronti, all’unità nei valori con tutti per la vita, per la pace, per la politica di pace con tutti. E augurio, auspicio che i diversi da noi, il clericale, l’uomo di chiesa autoritaria, il fascista, il repubblicano, il socialdemocratico, il giacobino sia lui a proporci in un momento la sua superiorità nelle nostre contraddizioni, per affermare lui un valore di vita! Ma no, compagno Berlinguer, compagno che scriverai domani per l’Unità: no alla collaborazione organica di classe: questa vecchia cosa che è tutto il socialismo proudhoniano, marxista, marxiano, craxiano e tutto quello che volete… perciò le robe antiche vengon fatte passare come vecchie e ogni giorno si è alla ricerca di un nome nuovo per una politica fradicia e presocialista nel tempo, quella scelta da Togliatti e rinverdita nell’autunno della sua politica e della nostra, quando si è voluta chiamare compromesso storico. Già adesso c’è il giusto pudore: in tre ore l’ha pronunziata una sola volta.

 

Caro Terracini, aver ragione è peccato tremendo!   

La pagherà cara Terracini: sarà sempre di più censurato perché avere ragione in certi partiti è un peccato tremendo. Come quando con Gramsci era in galera e non era d’accordo con Togliatti, il comunista era Terracini, il socialista era Terracini, era un Gramsci, non l’esilio organizzato a Mosca o a Praga. E infatti Gramsci e Terracini sono stati battuti e accantonati.

Questi compagni, compagni operai, hanno ragione, avevano ragione, con i loro voti ci dicono qualcosa. Donne e uomini, radicali che chiedevano di divenirlo, come spero di divenirlo anch’io sempre di più. Ci hanno insegnato qualcosa i compagni operai, non gli ultimi arrivati a dirigere il PCI a Torino. C’è lì un ultimo rampollo di una famiglia liberale, quella di Mario Ferrara, che ho molto amato, ma che era certamente alto-borghese; e va facendo le delazioni su La Repubblica; Giuliano Ferrara, e lui che rappresenta il PCI lì, a Torino. Il proletario classista, dovendo scegliere fra l’uomo d’ordine Giovanni – il lapsus per chi lo sa è comprensivo – Giuliano Ferrara e noi…; non gli ultimi arrivati, non i giovani compagni operai – quanto ci manchi Pasolini o forse come hai fatto a tempo ad andartene! – ma i vecchi e le vecchi compagne operaie di Torino hanno scelto noi, hanno avuto ragione quando l’11 giugno dello scorso anno, per difendere la verità delle loro esistenze e delle nostre, hanno votato sì, hanno votato radicale dicendo no alle menzogne del partito e del sindacato che, con terrorismo ideologico, voleva costringerli a votare per le leggi fasciste. Hanno ragione quelle donne e quegli uomini! Queste ragioni, compagne e compagni, sono tremendamente importanti nell’umiltà dei nostri meccanismi e delle nostre riflessioni.

Diciamo ai compagni del partito socialista: non temiate! Temete piuttosto voi stessi! Noi andremo come avrete voluto! Antonio Landolfi, vecchio paziente compagno Antonio, al quale da tanti anni delegano solo l’incarico di venirli a rappresentare qui, dove non ci sono potenti ma compagni, e che di rado mandano a rappresentare il Partito socialista negli altri congressi; se hai detto il vero, non perché io dubiti della tua sincerità, ma se è esatta la tua previsione, noi confermiamo e confermeremo la nostra proposta di un accordo sostanziale in molte regioni d’Italia, anche al Senato, con i compagni socialisti.

Il “socialista” presidente della Rai-Tv ha la tragica responsabilità di aver dato corpo al più fascista e terrorista dei telegiornali italiani: il “socialista” Tg2, anche se poi giustamente questo corpo vi è scomparso: altri avevano più “denari” di voi! Anche se avete questa tremenda responsabilità di rappresentare con i vostri uomini il momento più grave e pericoloso per la democrazia italiana…

Curcio può ammazzare mille democratici, Concutelli può ammazzare mille democratici, Vallanzasca può ammazzare mille, diecimila o centomila persone, ma Grassi, Barbato, questa gente ammazza ogni giorno la democrazia e dà l’Italia in mano alle stragi… Se ci fossero nella nostra Italia democratica solo tre posti in galera dovremmo lasciare libere le belve – divenute belve – dei fratelli Curcio, dei compagni e degli altri, dovremmo lasciare libere queste belve perché per la democrazia e per la nostra società i più pericolosi terroristi, i fascisti veri sono innanzitutto appunto coloro i quali ho prima nominato e che non a caso in parte nominava per suo conto spesso proprio Pasolini nei suoi ultimi mesi di rabbia, di sdegno, di dolore, di impossibilità di riconoscersi in questi altri, che riteneva assassini…

Antonio Landolfi, non ci avete degnato di un incontro per mesi. A che vale il nostro, forse reale, antico volerci bene con Bettino, i nostri venticinque anni di convinzione che in fondo forse vogliamo le stesse cose, se poi di questa fiducia di fondo reciproca (ho sempre detto a chi amo che l’amore non è tanto sentimento, quanto attività; se è sentimento e basta, è consumazione e non creazione) dobbiamo nutrirla di separatezza quotidiana, e il povero Bettino è continuamente prostrato, frustrato e distrutto dai balletti degli incontri con tutti tranne che con i radicali?

Landolfi, voglio terminare assicurandoti questo: se andremo alle elezioni con questa solitudine e questa difficoltà addosso, se non bruceremo le schede e ci saremo tutti, per quel che mi riguarda, in campagna elettorale, ma soprattutto dopo la campagna elettorale, il nostro primo impegno sarà di dare avvio al processo costitutivo del grande partito italiano dell’alternativa socialista rivolto a tutti coloro che a questo guardano, cristiani, cattolici e comunisti. Un grande partito dell’alternativa alla società scelta, nella sua stanchezza e nel suo declino, da Willy Brandt e perfino da Olaf Palme.

Guardatevi dallo scegliere, dopo la subalternanza al PCI e alla DC quella alla socialdemocrazia che ha scelto in Europa di suicidare se stessa nei prossimi anni diventando il gestore della politica NATO della politica del plutonio e della politica del no al “2 per cento” ad ogni livello! Questo è l’impegno.

Compagne e compagni, questo discorso è stato elettoralistico? È stato elettorale, è stato anche pasquale, tenendo presente che mai gli emblemi religiosi ridotti alla loro verità sono estranei alla storia di ciascuno di noi e dell’umanità. Quindi, proporremo e proponiamo al servizio di Stato della radiotelevisione di fare semmai musica classica – tanto per noi è bella ed allegra al limite anche quella, quando non è data male da Radio Radicale – non solo il venerdì santo, ma l’intera settimana di passione, per sottolineare la passione di quei centomila, donne e uomini, che moriranno venerdì e sabato santo e che non risorgeranno domenica mattina.

Chiederemo e chiediamo insieme che il servizio di Stato della radiotelevisione faccia una settimana per la vita, per la pace, per il disarmo. Allora insieme, nomadi e pellegrini di sempre come sempre siamo stati, ma degli itinerari interiori nei nostri dubbi potremo dire che da Porta Pia a Piazza San Pietro una volta di più è passata la civiltà e un messaggio d’amore.

(intervento del 31 marzo 1979, trascrizione non revisionata dall’autore)

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