Proposta Radicale 11/12 2023
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Galli della Loggia

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Pannella tra utopismo e ricerca di verità

di Ernesto Galli della Loggia

Allora alcuni Scribi e Farisei, venuti da Gerusalemme, si avvicinarono a Gesù e gli dissero: “Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? Infatti non si lavano le mani quando mangiano il pane”. Ma egli rispose loro dicendo: “Perché anche voi trasgredite il comandamento di Dio per la vostra tradizione?”… E chiamata a sé la folla disse loro: “Ascoltate e comprendete! Non quello che entra per la bocca viene dal cuore, ed è questo che contamina l’uomo; poiché dal cuore vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie: queste cose contaminano l’uomo, ma il mangiare senza lavarsi le mani non contamina l’uomo”.

Il testo evangelico è l’esempio mirabile di alcuni meccanismi propri della “leadership” carismatica. Primo: la prova suprema del carisma è la violazione del tabù collettivo, della tradizione ricevuta; ma questa violazione – ed è il secondo elemento – lungi dal rappresentare una rottura, dal fondare cioè una nuova tradizione, suona all’opposto come una riconferma di questa, una riconferma però della sua sostanza vera di contro alla sua degenerazione formalistica. E infine, terzo elemento, la riconferma di questa sostanzialità avviene in nome dei valori esistenziali assoluti di cui essa è pegno.

Nel discorso di Pannella sull’attentato di via Rasella si ritrova l’insieme di questi meccanismi con la ovvia (ed in certo senso desiderata e necessaria) appendice di “scandalo” da parte degli Scribi e Farisei di turno. L’antifascismo e la Resistenza sono “la” tradizione e la fonte legittimante della classe politica repubblicana; ma la loro sostanza – proclama Pannella – è sostanza di Vita, di Giustizia, di Intelligenza e di Amore, laddove, viceversa, la loro pietrificazione celebrativo-formalistico ne ha fatto qualcosa di diverso, qualcosa che nella vita quotidiana del paese contribuisce a diffondere, o perlomeno a non combattere con sufficiente vigore – la morte, l’ingiustizia l’ottusità e l’odio.

Al centro di questa contraffazione, e quasi uno “scibboleth” di tutta la vicenda italiana, sta il problema della violenza: il suo diffondersi come i tentativi di farvi fronte. Per riuscire a estirparla, dice Pannella, dobbiamo, la sinistra soprattutto deve, scoprire cosa vi è di sbagliato nella tradizione dell’Antifascismo e della Resistenza, illuminare e giudicare la violenza di questa tradizione che è la sua, e che più in generale sta in ognuno di noi. In questo modo il giudizio storico si salda con il giudizio morale; alla “purificazione” del primo si accompagna la nostra purificazione come persone. E il tema della nonviolenza diviene il passaggio obbligato per una società e per soggetti umani finalmente migliori.

 

La nonviolenza come utopismo politico?

Tralascio tutte le altre cose che sono nel discorso di Pannella e mi soffermo su questo che mi sembra il suo ordito di fondo e che ho provato a riassumere. Dicendo subito che mi convince e non mi convince. In che senso? Mi convince, naturalmente, il desiderio di verità (“penso che ciascuno di noi sia fascista sette volte al giorno”), di comprensione storica (il fascismo non si spiega con gli assegni dei capitalisti: “altri torbidumi interiori, altre difficoltà devono farci stare attenti”), l’imparzialità di giudizio. Non mi convince, invece, l’utopismo politico che pervade il discorso: non mi convincono, cioè, né la non violenza elevata a visione del mondo e regola immutabile della prassi, né i tanti virtuistico-esistenziali che dovrebbero costituire l’anima di una sinistra rigenerata “à la” Pannella.

Tra le tante cose che esistono nel mondo degli uomini esiste anche la violenza, così come esiste il male. Certo, il moralista o il religioso hanno diritto di sostenere che la violenza e il male sono in tutti e in ciascuno, e che quindi a nessuno è lecito “scagliare la prima pietra”. Ma nella realtà vi sono infinite gradazioni di male e di violenza; c’è il Testo unico di Pubblica Sicurezza e le Leggi di Norimberga, c’è Mario Tanassi e Hitler, e alcune forme di male o di violenza mettono in pericolo le esigenze più elementari della persona umana, per esempio la sua integrità fisica. Se la non violenza ambisce a dare quella risposta che la sua stessa pretesa di essere una visione del mondo impone, è il problema dell’esistenza di questo male e di questa violenza che deve affrontare.

Qui cade l’esempio di via Rasella. È pacifico che i territoriali altoatesini vittime dell’attentato di nulla erano soggettivamente colpevoli, che quindi ucciderli fu scelta morale terribile e dunque, si spera, presa con tutta la sofferta coscienza che scelte simili richiedono. Ma è altrettanto pacifico che si trattò di un atto contro una violenza spaventosa e pericolosissima (il nazismo). Non chiediamoci ora se esso era davvero necessario, se si doveva o poteva scegliere un altro obiettivo; chiediamoci invece, e chiediamo ai sostenitori della non-violenza: cosa bisognava fare contro quella violenza e quel male che si riassumevano nel nazismo? Essi, che giustamente e con pieno diritto, discutono ciò che fu fatto, hanno l’obbligo di dire ciò che si doveva fare. Non rispondere a questa domanda non possono, e rispondere “bisognava agire da non violenti” mi sembra nella sostanza una non risposta.

L’indipendenza può essere soltanto conquistata ed organizzata”, si legge all’inizio del discorso di Pannella. Ebbene, in che modo ciò poteva avvenire sotto l’occupazione della Wehrmacht e delle SS? La verità – la verità storica, non quella morale che spesso si nasconde nei recessi della coscienza – è che la non violenza ha un senso, funziona politicamente, solo quando colui contro il quale è esercitata si sente bene o male legato, ed è di fatto legato, a un codice di comportamento che prevede certe autolimitazioni all’esercizio della forza (per esempio un quadro istituzionale liberal-democratico), ovvero è sottoposto a vincoli esterni (per esempio l’opinione pubblica internazionale). La battuta è fin troppo facile, ma cosa ne sarebbe stato di Gandhi se invece di organizzare le sue proteste di fronte a compassati funzionari del “Civil Service” di Sua Maestà Britannica se la fosse dovuta vedere con un Heinrich Himmler? È vero che, durante la seconda guerra mondiale, i danesi riuscirono con una protesta pacifica e di massa ad opporsi alla cattura dei loro connazionali ebrei. Ma ciò accadde semplicemente perché i Tedeschi non ritennero politicamente conveniente deportare un paio di milioni di danesi per mettere le mani su poche decine di migliaia di ebrei. Sappiamo bene, però, che se fossero stati di diversa opinione nulla li avrebbe trattenuti dal farlo. E allora?

 

La nonviolenza come scelta morale?

Nella storia reale del mondo reale la non violenza ha un senso “solo” a certe condizioni e in certe circostanze. Volerne fare un principio assoluto è certo possibile ma con la consapevolezza che, trattandosi allora solo di una scelta morale, con novanta probabilità su cento il risultato che ci si deve attendere è il martirio e il sacrificio della vita senza alcuna conseguenza pratica. Personalmente non mi rallegro affatto di una conclusione del genere, ma vorrei mi si convincesse che può non essere così con un ragionamento fattuale, non con appelli etici che trovo rispettabilissimi ma incongrui alla reale natura del problema. L’astrattezza universal-moralistica che sta dietro alla non violenza e la medesima che s’intravede dietro il progetto di una sinistra “nuova” quale viene abbozzato nel discorso di Pannella e del Partito radicale in genere.

Questa sinistra irenica, autogestionaria, pacifista, antinucleare, per un terzo freak, per un terzo obiettrice di coscienza e per il rimanente terzo convinta dell’attualità del Manifesto del ‘48, mi sembra del tutto inadeguata al compito storico di divenire classe di governo in un paese industrializzato. Ma non solo c’è al fondo di questa prefigurazione di Sinistra “nuova” un ottimismo irenico, una fiducia nei buoni sentimenti (cancellati dal cuore degli uomini per virtù diabolica del Potere) che, a pensarci bene, mette un po’ paura. Se c’è una cosa certa è che i prossimi 500 anni – come ebbe a scrivere qualche tempo fa Italo Calvino – saranno di ferro e di fuoco. Ora a me pare che proprio gli atteggiamenti semplificatori del reale e lo sfondo moraleggiante-utopistico, che si avvertono in questa idea di una sinistra diversa, potrebbero, nei tempi così difficili che ci aspettano, essere di nuovo fonte di violenza, anche contro le intenzioni dei singoli. Perché così è sempre stato. Pannella afferma giustamente che “il terrorismo è nella nostra storia” e ci invita a ripercorrere tutta la storia della violenza della sinistra. Ma poi si accontenta di citare qualche nome e passa oltre. Se questa storia avesse provato invece a ripercorrerla davvero allora si sarebbe accorto che la sua matrice più importante – psicologica e pratica – è stato il sogno della Città del sole in terra, l’illusione di fabbricare “l’uomo nuovo”, di eliminare il Male, e il desiderio di cancellare a ogni costo la realtà che si frapponeva all’Utopia. Da Togliatti a Curcio all’origine della violenza della sinistra si trova immancabilmente il sogno di un mondo di fratelli “liberi ed eguali”.

Bisogna guardarsi dagli idoli e dalle semplificazioni, così come bisogna guardarsi dal mischiare la politica all’assolutezza del giudizio etico. È sufficiente un minimo di decenza realizzabile con un minimo di costrizione.

iMagz