La nuova società respinge una mitologia ottocentesca
di Roberto Roversi
Non essendo, con autorità, un addetto ai lavori, ma un leggitore di giornali e un guardatore di cose e un ascoltatore di notizie e un pensatore di alcuni semplici pensieri per proprio uso e consumo; insomma un cittadino che legge vede ascolta pensa, credo che dobbiamo interrogarci se tutto deve essere buttato perché tutto va buttato, dato che tutto deve essere ripensato. Ma ripensare tutto, in termini di riflessioni che investono gli ambiti delle varie situazioni, non vuole dire a mio parere continuare a cimentarsi con il passato nei soliti modi e usando i soliti moduli (paternalistici o sentimentali); misurarsi ancora con le sue contraddizioni; con le sue scadenze non mantenute o eluse nonostante l’urgenza; ma cominciare a sgombrarsi la testa da tante ovvietà storicizzate o da tanti magmi ideologici ormai mollicci o solo opprimenti, per fare i conti con le cose progettate e probabili del futuro; prefigurando le necessità tutte diverse di quel mondo e di quella società. Perciò non mi sembra accettabile la definizione o la conclusione davvero ritardante quale è quella della “crisi del marxismo”; mentre mi sembra molto più circostanziata quella di “marxismo in crisi”, che concede spazi di riflessione e di valutazione molto più allargati e indipendenti; al riparo in ogni caso dalle strettoie di uno schematismo sempre troppo rigido per arretratezza o per ripetitività; e postillato anche di tragiche incongruenze.
I momenti della grande depressione o delle improvvise precipitose recessioni, gestite dall’economia di potere e dalla comunicazione di potere, sono un contrassegno periodico della nostra società e della nostra cultura. Maurice Dobb, nei Problemi di storia del capitalismo scriveva: “La fine del secolo XIX è caratterizzata da una lunga crisi economica che porta il nome di “grande depressione” e che ebbe inizio nel 1873 protraendosi, con alti e bassi, fino al 1895”. Questa depressione cominciò con un violento crack, ma assunse presto un andamento più blando sebbene di estenuante lunghezza; ciò che in parte consentì a molti contemporanei di non identificarla come una vera e propria crisi in senso classico. E Karl Kautsky ricorda: “Noi ci aspettavamo dalla crisi non solo il rafforzamento del movimento socialista in Inghilterra, ma il crollo del capitalismo nel mondo intero. Questa attesa andò delusa. Il capitalismo sopravvisse alla crisi, malgrado la enorme estensione di essa nello spazio e nel tempo e la sua inaudita intensità. Spuntò una nuova era di prosperità capitalistica. Ma quello che ora venne era un capitalismo interamente mutato. Il vecchio era bell’andato”.
E se dalle crisi esce più forte il capitalismo?
Il riferimento conferma una regola di verità mai considerata dalla sinistra nella sua inevitabile insistenza, cioè che dalle crisi, sempre e comunque gestite, a uscirne rafforzato – soprattutto rinnovato negli schemi e nel bagaglio culturale e nelle metodologie conseguenti – è stato il capitalismo. Le timide o, se si vuole, le tragiche anticipazioni rivoluzionarie della sinistra, insinuate alle incrinature tattiche di queste crisi, restano sforzi marginali o letture spesso ritardate della situazione; e comportano prolungati fraintendimenti, quando non sono arretramenti. Inoltre, data questa confusione di termini, e dato che si esce dalle crisi non in un modo autonomo ma con fatica e in un modo eterodiretto, alla conclusione ci si ritrova condizionati da una differenza di potere culturale e linguistico tale da consentire i recuperi solo nella prospettiva di tempi lunghi. Molto lunghi. Mi sembra che l’occasione di considerazioni simili a quella appena detta possa essere data anche dalla situazione attuale; che vede una crisi generalizzata gestita secondo l’uso da chi deve, ma letta dall’ufficialità sindacale e da parte della classe operaia come una crisi strutturale; con le conseguenze metodologiche che una tale scorretta lettura comporta e suggerisce. Intanto possiamo constatare che al riparo di una simile interpretazione il potere compie quelle operazioni restrittive che sono ritenute urgenti. In ciò confermato da un terrorismo solo violento, disumano; politicamente indecifrabile nella sua approssimazione ambigua e retrodatata, stantia. Invece dovremmo essere confortati a tirare questa conclusione (dopo l’esame di tante vicende accatastate dietro alle spalle): per uscire da una situazione bloccata nel suo processo d’avanzamento, dobbiamo imporci di cavarci fuori da ogni tipo di giuoco ideologico; fuori dai giuochi verbali e metodologici che inducono a qualche riflessione solo se restiamo seduti al lume di vecchie candele. In poche parole: bisogna sottrarsi agli impacci di letture “tradizionali” (nel migliore dei casi) della situazione attuale. La quale lettura tradizionale, disposta in formule di vetero-marxismo o di un utopismo approssimato e sfuggente, poggia su interpretazioni che conviene buttare e sostituire con altre (che si cominciano ad intuire) se vogliamo raggiungere risultati di una qualche chiarezza. Termini quali “classe, fabbrica, lotta di classe, Stato, rapporto fra cittadini e lo Stato” (foglie morte linguistiche) è urgente non tanto che siano riverificati e aggiornati ma che siano sostituiti con altri meno ambigui, i quali sappiano definire e cogliere la realtà sociale e istituzionale dei nostri giorni con più esattezza.
Fabbrica? Lotta di classe?…
Per esempio: la classe è ormai interferita da una quantità di variazioni e di improvvise divaricazioni che la segmentano, tali da lasciarla scompaginata. La “classe” a me pare come una città fortificata a cui siano fatti saltare i bastioni, e dentro alla quale ogni sera possa ormai entrare chi vuole: gente nuova e diversa; scomponendosi in tanti rivoli, confondendosi con gli altri, tanto da rendere ogni riconoscimento impossibile, ogni ricognizione confusa, contraddittoria. D’altra parte se in un primo momento questa “scompaginazione” comportava molta confusione (magari una confusione tatticamente utile circa la possibilità di circoscrivere e identificare queste nuove stratificazioni o sovrapposizioni sociali) è accaduto in seguito che molti dati si sono precisati; che le forze sociali emergenti e ancora emarginate, prima si sono opposte genericamente e poi proposte, con la forza dell’evidenza, da protagoniste. Quindi per capire, per pensare, per impostare una lotta efficace, il problema di fondo è di ridisegnare (controllando ogni dettaglio) la mappa del nuovo agglomerato sociale che sta diventando un protagonista – protagonista violento, a volte spietato; comunque sempre molto deciso sotto il segno delle novità di cui è portatore, che si oppongono agli schemi tradizionali ormai sbrindellati. Un agglomerato sociale non più legato da una memoria storica di lotta ad osservare la ritualistica di determinati comportamenti: non più soggiogato dall’ideologia dei maestri; da miti rabbiosi, sfuggenti, ma ironicamente attestato dentro una rabbia dissacratoria, che non ha più il dovere e la costrizione di identificare antropologicamente il padrone come “quel” padrone; in quanto la proprietà si è parcellizzata dentro a macrocosmi o microcosmi di una raffinatezza tecnologico-amministrativa fino a ieri impensabili. Questo nuovo agglomerato sociale non è più legato a schemi metodologici stretti dentro una tradizione protottocentesca di lotta, che ha contrassegnato fino a quasi agli anni Settanta con pochi aggiornamenti ogni momento di scontro sociale. Al contrario; si presenta molto composito, direi straordinariamente composito; scaricato dalla zavorra di una mitologia politica che l’ingolfava ritardando ogni movimento (e ogni progetto di nuovo pensiero); nell’atto di riordinarsi e riaggiuntare i fili per avviare nuove forme di opposizione generale. Si sta riorganizzando anche nella scelta dei sistemi di lotta (e discute sul vecchio uso e abuso della violenza, rifiutandola). La società politica sta sparendo consumata dalle occasioni e dagli errori, ma siamo ancora lontani dall’avvento della società regolata. L’attuale momento è contraddistinto da formule approssimative, fortemente critiche e dubitative, rivolte prevalentemente agli schemi istituzionali del passato. Che promettevano il progresso sociale, legato però al progresso della ragione; tesa a cogliere, e in qualche modo a ordinare, le speranze; sia pure le speranze violente; legate a una “realtà della speranza” piuttosto che a una “speranza della realtà”. La preponderanza del marxismo nel catalizzare le grandi masse si fondava prevalentemente sulla sua supposta e dichiarata scientificità; cioè nella presunzione di avere architettato e arricchito il bagaglio di una somma di dati e di conclusioni così aggiornate a una corretta lettura della situazione sociale da garantire come inevitabile un successo nella lotta (o un successo di lotta): anzi, un successo definitivo a scadenza prestabilita, ravvicinata. Ma adesso, riguardando in controluce il passato, sembra di dovere constatare che anziché progredire riflettendo sui dubbi, le novità, gli errori, i progressi scientifici, il dibattito ufficiale era troppo spesso limitato ad identificarsi con alcune formule, di un fulgore superficiale o troppo rassicuranti; e a contrastare solo alcuni schematismi evidenti. L’identificazione persisteva su un Marx letto “goduto” divulgato come riferimento immediato rassicurante; anzi assunto in una globalità che disarmava. Il pensiero marxista si proponeva strumentalmente (mi riferisco al consumo di massa) come un insieme di regole esemplificate e approssimative; che conducevano a conclusioni utopistiche, sentimentalmente inebrianti nella loro durezza carica e nella speranza totale delle loro conclusioni queste regole riuscivano a trovare alimento per riciclarsi e sopravvivere, emarginando o addirittura soffocando ogni obiezione e togliendo spazio a qualsiasi contraddizione. Questa frigida lettura di un massimario politico-ideologico a cui attenersi non è più possibile; non dovrebbe essere più possibile; o non sarebbe più tollerabile, anche se torna a esplodere con una burocratica e ottusa perfidia che offende; come nei mesi scorsi a Praga; e come adesso a Kabul. Oggi non si ascolta più passivamente o “sacralmente”, affidandosi alle icone della lotta di classe; nessuno si accontenta dei dati, né alcuno si illude più sui dati della tradizione storica o della memoria. È ovvio che questa situazione di acribia culturale, determinando lo stivaggio di tanta mitologia dentro gli armadi della storia, ha prodotto molte difficoltà sia generali che particolari; nonché vuoti di conoscenza e di riferimento politico che è urgente riempire. Ma non in un modo qualsiasi o in modo affrettato. Al contrario, con i dati di nuove riflessioni e di nuove conclusioni; badando alle circostanze che ci stanno sotto gli occhi e alle occasioni che ogni giorno ci vengono sottoposte.
Inutile ogni massimario ideologico
Se è vero che il capitalismo esce fuori dalle crisi violente e di periodica durata rinnovato (o comunque fortificato in modo determinante nel senso del futuro; quindi rinnovato anche nella capacità di fagocitazione e di adeguamento alle esigenze dei tempi reali), è altrettanto vero che bisogna inserirsi in questa crisi seguendo una metodologia che sia più avanzata, e non legata a una ricerca semplicistica – sempre inutilmente violenta – dello scontro frontale. Perché altrettanto datata, nella sua atroce inutilità – in riferimento alla ricerca e all’apprestamento di nuovi modi di lotta da opporre alle istituzioni del potere reale – è la violenza amministrata e condotta secondo le regole solo feroci e vili che oggi è in atto; e che si deve rigettare; non moralisticamente (semmai sul piano morale, quindi con un rifiuto molto preciso) ma in quanto non produce che effetti generali negativi; con inglobamenti strumentali da parte dei mass-media; e in conclusione con effetti svuotati di ogni ragione, di ogni efficacia ai fini politici. Ecco perché questa materia è tutta da ripensare e riconsiderare. Il “marxismo della crisi” conferma che la scientificità regolata e regolare che stava lì a promettere palingenesi a breve scadenza (da nuovo mondo) era invece scorretta, approssimativa. E sballava i dati particolari.
Era insomma una illusione; sia pure una illusione che, in momenti passati di più accentrata tensione, era stato un alimento necessario alla pratica della speranza. In realtà la supposta scientificità si era poco per volta scomposta, appannata; e infine si era legata al palo di scadenze storiche museografiche, ormai ferme o spente. Non aveva compiuto, per arroganza culturale, nessuna operazione di rinnovamento – tenendo fermi gli occhi al progresso dei tempi. Questo è capitato anche nel corso degli anni Sessanta, quando la lotta (disposta al modo di scontro frontale sulla base delle novità emergenti ma anche sulla base di una lettura delle scadenze storiche abbastanza entusiasmante seppure precipitosa) non ha portato avanti che i soliti elementi rilevati da dentro la lotta di classe secondo i codici otto-novecenteschi. Così anche i successi parziali (dovuti piuttosto, credo, a un arretramento tattico del potere economico, secondo abitudine nelle situazioni di emergenza) venivano a collocarsi in un contesto che oltre a non poter essere controllato non era neppure definibile. Ci si occupava quasi esclusivamente di economicità (anche quando sembrava che il dissenso si sbloccasse per arrivare a toccare temi perspicui di politica generale); mentre nei fatti la realtà politica, quindi la sostanza delle cose, cominciava a frantumarsi e i veri termini del dibattito (che si rivolgevano alle scienze umane, alla linguistica, alla semiologia, a una nuova identificazione della scienza in genere, all’ecologia, all’antropologia, all’informatica) neppure erano considerati; o venivano appena sfiorati. A conferma di una inquietudine sospettosa; di una cautela alimentata da una persistente arroganza che dava poca curiosità e molta approssimazione.
Siamo buttati nell’angolo, spintonati e ammoniti…
È al fondo di questo intervento la speranza – anzi, il proposito inteso come una necessità – che da questi giorni di grande depressione, iniziata nel ‘73 e non causata da eventi tanto straordinari ma modulata dai detentori del potere reale (che è quello che mai si indebolisce anche quando finge agonia) debba fuoriuscire non soltanto un capitalismo ringalluzzito, come pure accadrà; ma almeno, e contemporaneamente, un assetto più fortificato culturalmente e metodologicamente delle classi emergenti; che non dovrebbero più permettersi di riflettere (prefigurando il futuro e le proprie ragioni di lotta) solo dietro la spinta di formule invecchiate e inefficaci. Questa volta bisognerà uscirne fuori con una robustezza di temi e di dati che consenta un lavoro prolungato in profondità (unito a una lucida pazienza). Che questo sia possibile a breve scadenza non lo so. So invece, d’altra parte lo sappiamo tutti, che è inevitabile per ricominciare a progredire un poco. Adesso, ripetiamolo, a scadenze decennali (nonostante annotazioni che nel passato toccavano toni trionfalistici) ci accade ancora di ritrovarci buttati negli angoli. Spintonati e anche ammoniti. C’è del paternalismo irritato e qualche volta un tono ironico nella voce. È arrivato il tempo di cambiare modi programmi e lingua.
Guardiamo meno al padrone (con la fissità che è diventata negativamente nevrotica) e consideriamo di nuovo noi stessi; riprendiamo contatto e confidenza con noi; all’interno di noi, nei pressi di noi; con una ricognizione minuta e assidua. Le alternative frontali a mio parere non sussistono più come metro di confronto. L’altro da sé si è spappolato in una miriade di elementi. Ciò che adesso conta, come terrificante necessità, è l’insieme dei nuovi dati che ci accingiamo a radunare – con volontà di farlo. Proprio come in un laboratorio del futuro. Dobbiamo ricominciare a sperimentare sulle cose e sulle idee, senza che alcuno anticipi gli eventuali risultati; o in qualche modo li inquini. Un mondo nuovo aspetta di essere ascoltato; riempito; scritto. Bisogna cominciare a costruire. Poiché l’inutile disperazione ha toccato il fondo.