Proposta Radicale 11/12 2023
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Mughini

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Gesto politicamente inutile, militarmente sbagliato

di Giampiero Mughini

L’attentato partigiano a via Rasella, dove persero la vita 33 militi di un battaglione tedesco che era appena arrivato da Bolzano e che costò alla Resistenza la tremenda rappresaglia delle Fosse Ardeatine (335 vittime), fu un atto politicamente inutile e militarmente sbagliato.

Politicamente inutile perché colpiva, come ha raccontato Robert Katz nel suo “Morte a Roma”, un bersaglio scelto a caso, uomini che non avevano in sé alcun elemento per assurgere a simbolo della prepotenza dell’occupazione nazista. Politicamente inutile perché non faceva compiere un salto di qualità alla Resistenza romana, che dopo via Rasella restò quel che era prima: opera minoritaria di poche decine di persone. Il tremendo botto non cambiò nulla nel vivere e nel sentire della città. Fu un atto talmente “interno” alla sfida tra la componente comunista della Resistenza romana e l’apparato di occupazione, che è pura leggenda che i nazisti abbiano invitato i partigiani a presentarsi in cambio della vita dei 335 delle Ardeatine. È una leggenda alimentata dai collaborazionisti e, nell’Italia del dopoguerra, dai fascisti, i quali speravano così poter sfruttare un elemento di fatto reale: e cioè che l’attentato di via Rasella portava il marchio dei gappisti comunisti e non dell’intero arco della Resistenza.

Alcide De Gasperi si trovava nel collegio di Propaganda Fide, in piazza di Spagna, quando la bomba esplose. “Ne avrete combinate una delle vostre”, disse amichevolmente a un comunista (mi pare fosse Giorgio Amendola) che in quel momento si trovava da lui. “Bandiera rossa”, una componente importante della Resistenza romana, si dissociò subito dall’attentato, che giudicò sconsiderato.

Sconsiderato, militarmente lo era. Colpiva 33 contadini altoatesini in divisa tedesca, né speciali assassini né speciali torturatori, nel momento in cui, a Regina Coeli, centinaia di antifascisti erano in mano ai nazi. La legge della rappresaglia era ben nota in Europa, quel che la sinistra ha dimenticato di dire quando Walter Reder riuscì a scappare dal Celio. La rappresaglia fu ad esempio normalmente praticata dall’esercito italiano in Jugoslavia e in Albania. Questi sono i termini di un discorso possibile su via Rasella quasi quarant’anni dopo, per come lo stesso Norberto Bobbio lo ha detto necessario: “Il giudizio storico non è un giudizio di assoluzione o di condanna: il suo scopo è di capire e far capire come sono andate le cose, perché sono andate in un modo piuttosto che in un altro”.

È fin troppo ovvio, e nel discorso di Marco Pannella al congresso radicale questa premessa era più volte esplicita, che un tale giudizio storico stiamo tentando proprio perché si applica alla nostra parte. Chiunque di noi avesse avuto i suoi vent’anni al tempo di “Roma città aperta”, avrebbe potuto scegliere e agire “esattamente” come fecero Giorgio Amendola, Carla Capponi, Roberto Bentivegna, Antonello Trombadori. La “nostra Carla”, il “nostro Antonello”, secondo Pannella. Sicuro.

 

Ieri e oggi: un filo rosso lega tutti i terrorismi

E ciò nonostante – qui il merito scandaloso dell’intervento di Pannella – è vero che c’è qualcosa di comune, una specie di tenace filo rosso, tra tutti i terrorismi: un meccanismo psicologico ma forse qualcosa di più, il modo in cui si struttura la scelta e l’azione che ne consegue. Quel che c’è dentro la Carla Capponi del 1943, temeraria avversaria del nazismo, somiglia incredibilmente a quel che c’è dentro la Mara Cagol del 1974, illegittimata avversaria di una democrazia costituzionale. Basta leggere alcune pagine di diario della Capponi (le riporta Katz nel suo libro). Avrebbe potuto firmarle la Cagol di trenta anni dopo. C’è un universo comune alla scelta di ogni violenza minoritaria, terroristica appunto. Come si fa a parlare di violenza minoritaria per un’azione concepita entro alla scenografia di una guerra mondiale, di uno scontro tra civiltà?, hanno argomentato. Non porterò mai dei fiori alla tomba di un soldato che indossava la divisa nazi, ha scritto l’ex partigiano e mio carissimo amico Roberto Guiducci.

Ecco il punto. Tra la drammatica esistenza della scenografia di una guerra mondiale e la scelta di colpire in via Rasella gli uomini del battaglione Bozen, e a quel modo, non c’è alcun nesso obbligato, necessario. Il nesso lo si trova solo esaminando una cultura particolarmente carica di volontarismo, com’era quella comunista degli anni della clandestinità (iniziati nel 1925, non dimentichiamolo) e di cui era parte cospicua la concezione della violenza come risolutrice, positivamente chirurgica. Non mi pare che, anche a voler scegliere via Rasella come un “pretesto”, l’alternativa sia tra violenza e non-violenza. Non credo che un dibattito del genere sarebbe sorto se a via Rasella fosse stato colpito un Heydrich romano, e cioè un capo di esecuzioni e torture, come riuscirono a fare i partigiani cecoslovacchi a Praga.

Il mirino della discussione, che non vuol essere minimamente arrogante e rimproveratrice verso chi concepì ed eseguì quell‘attentato, è puntato sul fatto che una cultura trovasse motivazioni etiche e politiche sufficientissime per agire a quel modo. E sul fatto che una parte di quelle motivazioni, né poteva essere altrimenti, sono poi divenute bagaglio ideale e psicologico del terrorismo moderno che è figlio pressoché diretto del comunismo clandestino e terzinternazionalista, rinverdito e aggiornato dai fasti cattocomunisti ed esistenziali della generazione studentesca. Antonello Trombadori e Giovanni Pesce, il comandante dei Gap di Torino e di Milano, autore del bellissimo “Senza tregua”, non se l’abbiano a male. I nessi storici-politici sono tragici e perversi.

 

E invece i comunisti se la sono avuta a male!

E invece i comunisti se la sono avuta a male, eccome. Hanno trovato oltraggioso che si parlasse a “suocera comunista” perché “nuora terrorista” intendesse. Vorrebbero che nessuno sindacasse la loro giovinezza e all’idea di avere qualche parentela con i personaggi descritti da Dostoevskij ringhiano accuse infamanti (“Pannella ha fatto un discorso fascista”) e querele. Ciò che la dice lunga su come il mondo comunista, dopo aver rinunziato alla facciata e alla metodologia del terzinternazionalismo e della sua cultura, non abbia saputo rinnovarla e sostituirla. È rimasto un mondo bambino. Con quali sciagurate conseguenze per i possibili destini della nostra democrazia, è stato cento volte scritto.

iMagz