Proposta Radicale 11/12 2023
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Saltini

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Ideologia della violenza, ieri, oggi ideologia del terrorismo

di Giuseppe Saltini

È abitudine degli uomini politici e dei sociologi di formazione recente attribuire al termine “violenza” il suo connotato più vistoso: quello di violenza fisica, brutalità barbarica, crimine, assassinio, terrore. Tale uso è determinato da un bisogno contingente di chiarezza: rendere evidenti, ossia epurate da ogni residuo di ambiguità, le proprie posizioni di condanna di un fenomeno grave e drammatico come il terrorismo, che ha posto e pone alla coscienza di ognuno l’urgenza di risposte nette. Ciò non esime dall’interrogarsi sulle sue motivazioni ideologiche, sulle sue origini e radici, sul sostrato politico-culturale che ha servito da fertile humus alla sua nascita, o meglio rinascita, nelle forme attuali. Concordo dunque con l’invito di Pannella: “Nel momento in cui il terrorismo e la violenza inducono a disperazione e sono frutto di una strategia, la storia della violenza va ripercorsa e rivista”. Ed è indubbio che in quella storia si possano e si debbano inserire anche episodi della lotta resistenziale. Se l’uccisione di quaranta soldati tedeschi a via Rasella sia stato un atto terroristico “necessario” non è affatto scontato, e le conseguenze tragiche da esso innestate (Fosse Ardeatine) è bene siano presenti alla memoria di tutti. È invece necessario affermare, a distanza di quasi mezzo secolo, che un riesame critico della violenza correlata ai principi teorici e alla prassi della sinistra marxista e leninista va fatto, e va fatto nel modo più spregiudicato e magari scandaloso, senza timore di venire accusati di favorire il gioco della destra o, come ha detto Bobbio, di essere tacciati di fascismo.

 

La nonviolenza, strategia politica innovatrice

Nel cosiddetto “Mein Kampf di Pannella” c’è un concetto più generale: l’etica della non violenza come programma e “strategia politica” innovatrice. A questo punto sorge il problema del rapporto tra morale e politica, tra mezzi e fini, tra esercizio dell’autorità e della libertà. L’assunzione della non violenza stravolge i termini di questi rapporti, nel senso che ne elide le aporie, senza risolvere la contraddizione di fondo.

Mi spiego: già nel principio kantiano – “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona che nella persona di chiunque altro, sempre anche come scopo e mai soltanto come mezzo” – è implicito un valore, il riconoscimento di sé nell’altro, che un tempo fu del cristianesimo come delle religioni orientali. Lo scarto da questo valore implica un uso della violenza (beninteso: non più soltanto fisica, o assassina o terroristica); nello stesso tempo, il valore è qui dato come imperativo: “Agisci”; sottintende, quindi, un’autorità. L’uso pratico di tale autorità, qualora non si limiti all’enunciazione del principio ma operi affinché esso venga messo in atto, comporta, di per sé, una costrizione. Per superare l’impasse di una costrizione comunque impositoria Pannella fa appello al valore del dialogo, al rispetto e alla tolleranza delle idee dell’altro, affinché, potremmo dire venga affermata la giustizia. E qui entra in gioco un enunciato di Walter Benjamin: “Il compito di una critica della violenza si può definire come l’esposizione del suo rapporto col diritto e con la giustizia”.

 

Diritto naturale e diritto positivo

Si dice: se la violenza è mezzo, il criterio della sua critica è dato dalla domanda: mezzo a fini giusti o ingiusti? Ma ciò non è già un criterio che esamini la violenza come principio, ma un criterio per i casi in cui essa viene applicata. Rivela una dogmatica: che un sistema di giusti fini sia al riparo di ogni dubbio (chi lo stabilisce? perché? per chi? come?). Di tale dogmatica, il tratto più spiccato si rivela nel diritto naturale. Secondo la tradizione giusnaturalistica – che servì da base ideologica al terrorismo della Rivoluzione francese – la violenza è un mezzo, per così dire, “naturale” il cui impiego – purché non si abusi di essa a fini ingiusti – non solleva problemi di sorta. A questa tesi si oppone quella del diritto positivo, secondo la quale la legittimità dei mezzi (anche violenti) utilizzati garantisce la giustizia dei fini. Una critica della violenza come principio è dunque possibile se si supera il binomio mezzi/fini e, in definitiva, se si supera la separazione tra politica e morale. E quindi non concordo più con Pannella quando afferma che i suoi scopi sono “politici” e non morali. Merito del Partito Radicale è di depistare i comportamenti e i modi tipici del fare politica, rivendicando per sé valori di carattere etico esistenziale. La contraddizione di fondo, di cui parlavo sopra, permane proprio perché “quei valori morali si vuole farli agire come valori politici”, peraltro conferendo alla sfera politica una qualità in più – dunque ancora una separatezza – rispetto a quella morale. Il riconoscimento di tale separatezza è certo realistico, ma contraddice i postulati etici del “linguaggio” radicale.

 

Liceità del “tirannicidio”?

Nel discorso di Pannella su via Rasella c’è infine un altro aspetto che è stato evidenziato dal dibattito successivo. Riguarda, in termini storici, il problema della legittimità dell’insurrezione armata contro il Tiranno (leggi: lo Stato costituito, il Potere reazionario, il Dominio di classe, il Governo repressivo, etc.). Il nucleo ideologico che fonda le azioni di tutto il terrorismo di sinistra nasce dalla fede in tale legittimità. E l’asserzione del PCI, secondo la quale il terrorismo nei suoi nessi teorico-pratici è estraneo alla storia del comunismo è falsa (basta citare The Defence of Terrorism di Trockij, del 1921). Ma, oltre la questione del terrorismo, il ricorso a un’azione violenta e illegale già veniva sollecitato da Marx ed Engels nel Manifesto (“i fini dei comunisti possono essere raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente”). Ciò che viene sottoposto a critica da Pannella e dai radicali è l’idea della rivoluzione intesa come violenza emancipatrice degli oppressi. Su questo punto vale citare Enzensberger: “Fino ad oggi tutte le rivoluzioni sono state contaminate dal vecchio stato prerivoluzionario, e hanno ereditato la struttura fondamentale del governo contro il quale sono insorte”.

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