Proposta Radicale 11/12 2023
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Scalia

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Questa è la dimensione del mondo moderno

di Gianni Scalia

Per prima cosa direi questo: il problema della violenza è un problema “eterno”. Nel senso che si ripropone continuamente nella storia dell’umanità, della civiltà, in sostanza nella storia dei rapporti tra gli uomini. Direi, se mi è concesso, che ci sono tre grandi tesi sulla violenza: non possiamo dimenticare la tesi della psicanalisi, di Freud: la storia dell’umanità è una storia del conflitto perenne di due pulsioni. La pulsione di vita e la pulsione di morte; Freud mitologicamente le chiamava Eros e Thanatos. Questo conflitto è permanente, e non può essere superato. Queste due pulsioni sono però inseparabili, si mescolano continuamente e trapassano l’una nell’altra. Da un lato la pulsione di vita (e anche quella sessuale), chiamata Eros, e dall’altra quella distruttiva, chiamata Thanatos.

Tutti ricordiamo quel famoso carteggio tra Einstein e Freud sulla guerra, Perché la guerra? Entrambi, convinti pacifisti, il primo pacifista con passione e ottimismo, il secondo pacifista con distacco e pessimismo. Quelle pagine di Freud in risposta ad Einstein credo valga ancora la pena di meditarle. In sostanza Freud rispondeva ad Einstein con il suo pessimismo, che chiamerei “metodologico”. Freud sosteneva che la violenza, la “forza”, sembra in contrasto con il diritto, la legge, la possibilità di un’organizzazione sociale. La violenza è una condizione ineliminabile della condizione “uomo”. È vero che nel corso dell’evoluzione, e dunque della civiltà, c’è una strada che porta dalla violenza al diritto. Ma il diritto ha come precursore la violenza. Il diritto – la legge, le istituzioni che danno la possibilità agli uomini di convivere – crea in sostanza il potere della comunità. In altre parole, Freud dice che l’unico modo non tanto di abolire la violenza, che è ineliminabile, ma di mediarla, di trasformarla, è appunto la comunità, un “patto” tra gli uomini.

Per quanto riguarda la condizione dell’uomo non è possibile non pensare a questo conflitto permanente tra le due condizioni, Eros e Thanatos: tutte e due le pulsioni sono entrambe indispensabili alla vita, e anzi tutte le funzioni della vita dipendono dal contrasto di queste due funzioni. Il problema quindi, la possibile soluzione di volta in volta, è l’equilibrio tra queste due pulsioni.

Si può dunque mediare la violenza, ma non abolirla. Deviarla in modo che non possa trovare espressione nella guerra. Freud fa una specie di elenco sui metodi: l’amore in senso cristiano, intanto, facile da affermare ma difficile da mettere in atto. Un altro metodo è l’identificazione, il “patto”, il contratto tra gli uomini. Un altro metodo potrebbe essere la cultura, la possibilità cioè del rapporto tra gli uomini, di cui la maggioranza non è autonoma e delle persone che invece possono essere indipendenti e critiche, qualcosa come la ragione. La tesi di Freud in sostanza è questa, anche se, ripeto, in definitiva Freud e pessimista. Non si può guarire dalla violenza, dice, ma si può curare la violenza. Questa è la tesi di Freud, della psicanalisi. Lacan accenna a questo problema, e fa una distinzione tra violenza e aggressività. La violenza, deve essere distinta dalla aggressività; quest’ultima è una condizione umana insuperabile. La violenza è invece qualcosa di storico, istituzionale, culturale, politico, economico, ecc.

 

La violenza: Eros e Thanatos?

La nozione di aggressività corrisponde a una tendenza fondamentale ed è provocata dalla disgiunzione di Eros e Thanatos, il cui equilibrio è l’unica possibilità della non abolizione, ma trasformazione e deviazione della violenza. Noi invece siamo abituati ad un’altra tesi, “dialettica”, hegeliana. Questa tesi è anche marxista, e la nostra cultura ne è intrisa. Cercherò di riassumere questa idea: la violenza e un fatto storico, cioè la stessa razionalità della storia, e costituisce dunque il progresso. Ha un aspetto non solo di distruzione, ma anche di “fondazione”, della società, della civiltà, dell’organizzazione a tutti i livelli degli uomini. Ricordiamo tutti la polemica tra Sartre e Camus. Si diceva, in sostanza, che esiste un “impegno”, una violenza “rivoluzionaria”, che non è solo quella dei singoli, ma è quella di una massa, di una classe, portatrice di valori, il cui fine non è la violenza, anche se ne è il mezzo, ma l’abolizione di tutte le violenze. È quella che possiamo chiamare “l’utopia” della violenza che si supera da se stessa e che ha la sua radice, appunto, nella concezione violenta. La violenza è pensata e praticata, come un fine che può permettere il superamento della violenza.

C’è infine un’altra ipotesi, che è quella della nonviolenza

Intanto cosa vuole dire nonviolenza? È un termine molto ambiguo equivoco, difficile da capire, non foss’altro per quella negazione. È possibile praticamente, ed è pensabile teoricamente la nonviolenza? È evidente che ci sono i grandi teorici della nonviolenza, anche nel nostro secolo, in cui la violenza si è manifestata nelle sue forme più clamorose. Ci sono tre aspetti del mondo contemporaneo che dovrebbero farci riflettere, anche a proposito di questa questione. Ci sono tre caratteristiche. La prima fondamentale, è quella della tecnica. Viviamo cioè in un mondo che è della tecnica. Un’altra caratteristica della nostra condizione è la produzione, e il circolo “produzione-consumo”, un aspetto legato alla “tecnica”, cioè alla trasformazione della natura al dominio dell’uomo e alla possibilità e alla fiducia dell’uomo sulla terra. Infine viviamo in un mondo in cui i rapporti sociali sono visti e praticati secondo quella condizione dialettica che in definitiva è quella del riconoscimento: la dialettica del “servo-padrone”; la lotta cioè per il riconoscimento. Ecco, la lotta per il riconoscimento è una lotta “a morte”, diceva Hegel.

 

La violenza, condizione permanente del “moderno”

In questo senso la violenza, e qui non lo dico soltanto in termini psicanalitici e freudiani, non è inscritta soltanto nella natura umana, ma è determinata da queste caratteristiche del mondo moderno: la tecnica, la produttività, il lavoro, insomma e la dialettica “servo-padrone”, o freudianamente “figlio-padre”. Qui è violenza. La violenza è quindi l’essenza della organizzazione del mondo, della situazione del mondo contemporaneo. Ecco, mi sembra che la violenza sia insita, proprio in quanto viviamo in un mondo dove si è ridotta la vita a valore. Questo è un modo non di abolire la violenza, che freudianamente credo che non si possa abolire, ma di mediarla. In realtà la violenza non viene trasformata o alleviata, ma viene affermata nella forma del valore, della ricchezza, del potere, della cultura. Allora se è così, il problema nonviolenza si pone solo nei termini del “riconoscimento” di questa violenza costitutiva al mondo contemporaneo. La nonviolenza, dunque, non è il richiamarsi a valori originali, che il mondo moderno avrebbe abbandonato, ma si tratta invece di riconoscere che è proprio la riduzione al valore della vita, la condizione permanente della violenza. 

Direi che anche Lenin sia dentro questa concezione, chiamiamola dialettica, della violenza. La violenza come razionalità; quindi che la violenza singola o collettiva sia pensata rispetto alla radice del problema, che vuole che la violenza può essere superata da se stessa e con se stessa. Fino a quando noi abbiamo della violenza una concezione “dialettica”, noi non possiamo pensare a un tipo di violenza, razionale, storica, che si supera da sola, che ha il fine della nonviolenza, una società senza classi, ecc.; come prima, citando le lettere tra Einstein e Freud, si tratta di un’illusione, non c’è speranza di superare la violenza nella forma della violenza rivoluzionaria.

Sono sospettoso, dicevo prima, del termine nonviolenza: perché questo fine è il fine per esempio dei marxisti-leninisti, e lo perseguono come sappiamo. Il fine della classe, che usa la violenza, come fine ha la nonviolenza. Quindi si potrebbe dire, paradossalmente, che le radici teoriche della violenza del nostro secolo (non solo Lenin, ma anche il fascismo e il nazismo), vengono dai nonviolenti: nel senso di coloro che credono che questo fine sia possibile perseguirlo con la violenza definitiva. È sbagliato, secondo me, perché non parte dal riconoscimento vorrei dire quasi terapeutico della esistenza della violenza nella “natura umana”. Non c’è niente di male nel riconoscere questa condizione umana. Il problema, se si vuole, è proprio riconoscerla. Infatti la concezione dialettica è egualmente realistica e utopistica. Del resto il pensiero politico moderno non oscilla sempre su questi due grandi perni, concezioni? E non ci stiamo accorgendo adesso, sulla nostra pelle, che lo stato assoluto di Hobbes assomiglia al contatto sociale di Rousseau?

 

La società umana nasce sempre da un “crimine”

Qui potrei parlare anche dei radicali come i portatori di un ritorno ai valori puri in senso chimico. E difatti in questi ultimi anni uno dei temi fondamentali del mondo della cultura (non solo politica, ma anche filosofica) è il problema del potere. Siamo affezionati da un po’ di tempo a questo problema. Per esempio la cultura francese, che noi italiani conosciamo meglio di altre: Gilles Deleuze, Felix Guattari, ecc., si pongono proprio questa questione. Direi che si può fare forse un piccolo schema, pensando ai libri letti in questi anni: c’è una concezione su che cos’è la violenza? La violenza è ineliminabile, e fondatrice. La società umana, la città, la “polis”, nasce sempre da un crimine, un delitto originario. Per Freud era l’uccisione del padre, e il padre, perpetuamente ucciso, viene commemorato con la violenza: una violenza divenuta formale, legale, una violenza consentita e accettata del “patto”, della fraternità. La violenza fraterna è la caratteristica dei movimenti di contestazione. Ci sono per esempio alcun i sociologi che sostengono che la violenza ha un doppio senso: quando si dice violenza dobbiamo intenderla in due modi diversi: la violenza non è pura negatività, il residuo di uno stato di natura che lo stato di società non ha ancora eliminato, e che progressivamente, illuministicamente, con l’uso della ragione, del consenso, del controllo, elimina. La violenza, insomma, in sé, non è negativa. C’è un duplice aspetto reale, quindi significato, in questa parola: è distruzione e fondazione dell’ordine sociale. Ogni città, ogni società riposa su questo crimine originario e ogni atto di violenza dell’uomo commemora questa violenza originaria costitutiva del patto sociale. La violenza ha anche un altro senso: non solo commemorazione, riconferma, ma anche immolazione, il desiderio di vivere insieme in un altro modo.

È la caratteristica dei movimenti del ‘68. Vivere insieme in un altro modo, che secondo la violenza tradizionale, cioè istituzionale, è fatale. La ricerca di una nuova identità di stato. C’è una violenza repressiva, dello Stato, delle istituzioni del potere. E c’è la violenza in liberante del “desiderio”, per cui in sostanza la violenza in questo secondo senso assume un carattere di immolazione, trasformazione e superamento, in un certo senso, anche se qui non è dialettico, ma antitetico, della violenza costituita o istituita.

 

La pretesa dell’uomo al dominio assoluto

Ci siamo allontanati dalla tua domanda, ma forse solo fino a un certo punto. In realtà anche la concezione che ci è sembrata nella cultura di sinistra “dialettica” (democratica progressista, ecc.), di assumere la violenza per superarla, nella coscienza della violenza attraverso la pratica, è una concezione secondo me sbagliata, direi metafisica. Allora si potrebbe dire un’altra cosa ancora: è cioè un aspetto, una dimensione fondamentale nel nostro mondo dominato dalla tecnica, dalla produttività, dall’industria culturale, come una forma di valore dei rapporti sociali. Questa è una nozione di violenza assolutamente fondamentale, la metafisica del soggetto, che in parole povere vuol dire la pretesa dell’uomo come soggetto, quindi come coscienza, del dominio assoluto della natura e della società. Si incontrano in questa umanistica metafisica del soggetto, la cui essenziale è appunto la violenza, la produzione della vita e della natura e della società cioè, vale a dire, l’aspetto utopico, che è l’aspetto oscillatorio tra utopia e la real-politik, il realismo politico dell’umano sovraumano, direbbe Nietzsche, e oltrepassa la cosiddetta coscienza dei suoi limiti. Si potrebbe dire anche questo: che la violenza, una definizione possibile, la si può vedere come l’abolizione della differenza. Ci sono, per tornare in un altro modo a Freud, due grandi modi di abolire la “differenza”: l’amore, come funzione totale, e la violenza assoluta, cioè la soppressione della “differenza”. Ecco perché in questi ultimi anni sento molto il motivo di quello che Nietzsche chiamava il pathos della distanza. La capacità diciamo di comunicare anche attraverso il linguaggio, in “forma di parole”, il motivo della capacità della distanza.

Lo schema politico è quello del nemico-amico: non c’è politica senza questo schema. Avere l’altro, che si riconferma nella propria unità, la propria coesione di amici, sempre lo schema originario, della violenza purificatrice e fondatrice: la violenza come sacro, per cui ci vuole una vittima sacrificale, che assicura l’ordine sociale, il patto; se abbiamo un altro che ci è nemico, possiamo essere amici tra noi. È quello che “sento” molto in questi anni: l’essere amici senza che ci sia un nemico, e quindi il non essere “amici” in quanto c’è un nemico. Non riesco a sentire più l’amicizia dialetticamente in rapporto con l’esistenza di un nemico. Di fatto c’è che in queste settimane voi radicali, amici inconsapevoli, vi siete comportati come se non ci fosse il nemico, nel momento in cui invece si parlava di guerra: la forma più alta e terribile dello schema amico-nemico. Diceva Freud che quando si va in guerra si uccide anche colui che non si vorrebbe. Le ragioni di uccidere sono quei valori che stanno alla base della vita moderna, il potere, il prestigio, il “riconoscimento”. Ecco, se nonviolento vuol dire: nemici/non ci sono amici; nemici/non ci sono nemici, allora mi sento nonviolento, sono nonviolento. Radicalmente, non da radicale. Ma viene in mente una frase di Borges: “Io sono pacifista, non violento, fino in fondo, fino al punto di farmi ammazzare. Ma non di farmi ammazzare per la mia nonviolenza, nel senso che la nonviolenza diventi un valore”. Sono convinto che la nonviolenza sia proprio nella concezione dialettica della violenza. Come dicevo prima, la nonviolenza non elimina la violenza, la pone come stato finale, come utopia da raggiungere, e che viene raggiunta e realizzata. In fondo, per esempio, il dato terribile del comunismo reale consiste nel fatto che è un’utopia che si realizza.

Per riferirmi a una questione di questi giorni, all’appello di Sciascia [per il caso d’Urso, n.d.r.] io ritenni di aderire senza riserve all’appello. Avrei voluto dire anche queste frasi: non so bene perché lo faccio, o meglio, non voglio aderire all’azione che stanno facendo i radicali, ma ero con voi perché mi sentivo un democratico senza la democrazia, un cittadino senza la cittadinanza, e un intellettuale senza la cultura. Cioè un democratico in un momento in cui la democrazia non c’è, che non può richiamarsi ai valori di una democrazia pura, ideale, perché stiamo vivendo un’assenza reale di democrazia, non tanto un’assenza di democrazia reale; insomma il pericolo ritengo sia quello di camuffare la violenza in una concezione dialettica. E in questo c’è anche la nonviolenza. Non so come si potrebbe cambiare questo termine. Mi sento non violento, ma non so come dire la mia nonviolenza, attraverso questo termine di nonviolenza. Questo “non” cos’è? Una negazione, la violenza che supera se stesso; oppure è un a privazione, l’assenza di violenza? Nel primo caso dobbiamo essere violenti contro la violenza, per superarla. Nel secondo caso dobbiamo invece accettarla.

 

È ancora il problema del rapporto tra mezzi e fini

Il rapporto tra mezzo e fine è un rapporto non completo, ma che nella concezione dialettica, moderna, si è trasformato. In realtà non si tratta di fare l’analisi della forma di valori, della merce (il nucleo della società capitalistica, secondo la sua definizione); il valore non è soltanto un mezzo che si fa portatore di fine, ma un fine che diventa mezzo di se stesso. Cioè è una riproduzione. In altre parole, nel rapporto tra mezzo e fine, tra te e l’altro, l’altro è dialetticamente compreso nel processo di unità tra sé e altro. Quindi in sostanza la società capitalistica è anche quella socialista.

Allora la differenza tra nonviolenza e rivoluzionario è che questo ultimo non rifiuta la violenza. Mentre il nonviolento non usa lo strumento violenza. Il fatto è che nell’epoca in cui viviamo, la violenza non è soltanto un mezzo, è la dimensione della organizzazione della nostra vita. Quindi io sono d’accordo con i nonviolenti. Lo sono anch’io, perché rifiuto il mezzo della violenza. Ma il mio rifiuto non significa che io non debba e non possa riconoscere che la violenza non è un mezzo ma, nel mondo in cui viviamo, l’unità mezzo-fine. In sostanza è un riconoscimento. La nonviolenza consiste nel saper riconoscere questa “terza” violenza tra le due violenze, quella istituzionale, statale e dall’altra quella “rivoluzionaria”, terroristica. Non do soluzioni. Credo che la violenza non sia la soluzione, ma è il problema stesso. Il primo problema, che sta alla base degli altri. Il nonviolento si deve porre questo ulteriore problema, di una terza violenza: come mai dalle due violenze contrapposte, stanno insieme? Basta dire che il terrorismo è prodotto dalla violenza istituzionale? Basta dire che la violenza istituzionale si serve del terrorismo, per giustificare la propria violenza? Basta questo? Certo che questo va detto, è la prima cosa, e lo diciamo da nonviolenti. Però facendo della nonviolenza un valore, richiamandosi a quei valori “puri” di democrazia, di libertà, di diritto della vita che sono quei valori che sono alla radice anche storica del mondo in cui viviamo. Il nonviolento che si pone il problema delle due violenze unite e contrapposte si deve chiedere dove è il punto in cui la ragione, la democrazia, si sono “rovesciate” nel loro contrario, che è un contrario speculare, come stiamo vivendo e lentamente comprendendo. Proprio perché si tratta di due termini dialettici. È forse una cosa terribile, quella che sto dicendo. Ecco perché contemporaneamente sono in crisi la democrazia “liberale” e il marxismo. E di qui i miei dubbi, e la volontà di discutere, in primo luogo con voi, radicali, che siete, mi sembra, i democratici e i liberali “puri”, di questo problema, ulteriore.

iMagz