Proposta Radicale 11/12 2023
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Manconi

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Violenza, nonviolenza, una riflessione incompiuta

di Luigi Manconi

Due brevi premesse:

a) per ragioni che, spero, il mio ragionamento successivo renderà più chiare, credo sia assolutamente impossibile definire una teoria della violenza o, per altro verso, una teoria della non-violenza. Un sistema compatto di categorie teoriche mi appare, prima ancora che di ardua definizione, del tutto inefficace in relazione a una materia, quale quella relativa agli strumenti della lotta politica e al rapporto mezzi/fini, così profondamente intrecciata con la terribile quotidianità dell’agire collettivo;

b) il mio ragionamento pecca di approssimazione e rivela incertezze e contraddizioni – oltre che per limiti di elaborazione – anche (e forse soprattutto) perché assolutamente incompiuto. Si tratta infatti di una riflessione iniziata una dozzina di anni fa, all’interno di un movimento di massa e di un’organizzazione collettiva, proseguita individualmente e in luoghi che si volevano comuni (ma che raramente lo erano) e che, a tutt’oggi, è giunta solo a poche, provvisorie e parziali conclusioni. Il carattere discorsivo e interlocutorio, spesso confuso, del mio discorso non è quindi dovuto solo ed esclusivamente alle modalità – una conversazione largamente improvvisata – nelle quali si è svolto.

 

Via Rasella, “dolorosa necessità”.

Dunque, partiamo dalla definizione dell’episodio di via Rasella come “dolorosa necessità”. Non si tratta di una terminologia così scontata come si potrebbe pensare: quelli che ci appaiono termini ragionevoli, direi di buon senso, non sono poi tanto diffusi, in realtà. Voglio dire: sul fatto che l’esercizio della violenza sia in determinate circostanze storiche necessitato, c’è larga convergenza di opinioni; sul fatto che questa necessità sia “dolorosa” non mi pare che ci sia altrettanta convergenza e spiego cosa intendo dire: l’enfasi, la retorica e il trionfalismo sull’esercizio della violenza considerata “necessaria” non esclusivo appannaggio delle manifestazioni più recenti e tragiche del terrorismo contemporaneo; ma è, questa enfasi, una costante di tutte le lotte antifasciste di liberazione e rivoluzionarie; una enfasi che mistificava e mistifica la portata, ribadisco, “dolorosa”, di quella violenza qualunque sia la sua legittimazione storica e morale. L’insistenza, quindi, sul carattere “doloroso” di quella necessità mi sembra, intanto, una prima cosa da affermare. Non v’è dubbio, ad esempio, che l’esercizio della violenza, comunque legittimato, comporti una deformazione, fino a una radicale trasformazione, nella costituzione psicologica primaria di colui che alla violenza ricorre.

Quando vediamo nel terrorismo contemporaneo una tendenza, indubbia, a comportamenti sanguinari (in cui, quindi, l’originaria – seppur malriposta – aspirazione sovversiva e di liberazione viene annullata e mortificata da una carica di efferatezza che è ormai solo pulsione di morte) rileviamo semplicemente la esasperazione estrema di una tendenza presente sempre e comunque nell’esercizio della violenza.

Credo dunque che si possa dire che nel corso della guerra di Liberazione nazionale, e tanto più nella relativa memorialistica (così come nella produzione di agiografia su tutti i movimenti di liberazione anche recenti), queste tendenze all’efferatezza e la retorica su di essa siano state ben presenti e hanno contribuito a produrre successive e analoghe accentuazioni e inflessioni in quelle manifestazioni più recenti del terrorismo che alla guerra di Liberazione facevano riferimento: penso all’esperienza dei GAP in Lombardia e al gruppo 22 Ottobre a Genova.

Io credo, in ogni caso, che un dibattito impostato in questi termini: la violenza rivoluzionaria è giusta o no, non può portare molto lontano; e credo che sia assolutamente impossibile, se non per irresponsabilità morale o per insipienza culturale, dichiararsi nonviolenti e basta, rifiutando di sottoporre questa che è una petizione di principio al vaglio delle concrete congiunture della storia. Mi spiego: una dichiarazione di nonviolenza assoluta, totale e priva di qualunque condizione ed eccezione, può portare – forse necessariamente porta – all’astensione da ogni forma ed esperienza di lotta di liberazione. Faccio un esempio che, nella sua unilateralità, mi sembra utile: nel caso di oppressione di tipo fascista che significa la scelta nonviolenta?

Non voglio certo dire che essa sia espressione di pavidità o di agnosticismo, ma mi chiedo semplicemente: tale scelta si estende fino a rifiutare, per esempio, qualunque forma di collaborazione (o protezione o assistenza) nei confronti di chi invece decide di ricorrere alla forza? Mettiamola così: io nonviolento decido di non usare le armi; un combattente antifascista ricercato dal nemico mi chiede aiuto. E io? Io mi rifiuto di prestargli aiuto perché domani, forse, userà le armi contro l’oppressore? Non è una domanda virtuale, dal momento che si tratta di avvenimenti storici che si possono verificare (magari non in Italia) e che si sono già verificati; né la ritengo una volgarizzazione o una banalizzazione dell’interrogativo di fondo. Al contrario l’affermazione della nonviolenza, come scelta assolutamente incondizionata, o ha la forza (e bisogna oltretutto vedere se di forza si tratta) di giungere fino alle sue ultime conseguenze oppure, nel momento in cui introduce delle eccezioni – sia pure estreme, sia pure relative ad altre epoche e ad altre latitudini – deve, di necessità, confrontarsi con la storia, con i suoi imperativi e con i suoi limiti. E allora va detto (per tornare al precedente esempio) che proteggere un combattente che, una volta in salvo, userà le armi, implica in qualche modo – prima che giuridicamente – moralmente un collaborare all’uso di quelle stesse armi.

 

Astensione dalle lotte di liberazione?

Proteggere dunque quel combattente – e mi chiedo chi rifiuterebbe di farlo – significa introdurre in una affermazione, che presupponevo incondizionata, una condizione che ne rappresenta il limite e l’eccezione: e che ne denuncia la costituzionale debolezza. Ma allora come evitare nuove eccezioni rispetto a un’altra eventualità, ad un’altra ipotesi, ad un altro possibile avvenimento? Nasce da qui la mia convinzione che un’affermazione di nonviolenza totale, assoluta e incondizionata, può produrre, come necessaria conseguenza, l’astensione dalle lotte di liberazione. E ribadisco dunque che, a mio avviso, un dibattito condotto nei termini di violenza giusta/violenza ingiusta rischia di essere del tutto inefficace: e di rappresentare il rovesciamento speculare di affermazioni che in passato anch’io ho contribuito a divulgare, come: solo la violenza rivoluzionaria è giusta, perché il suo fine è quello di abolire ogni altra violenza. Insomma, una discussione condotta in questi termini introduce immediatamente concetti di tipo teologico, integralistico e assolutistico che hanno poco a che fare, in realtà, con fondamenti morali della politica: e dico che in quel complesso intreccio tra fini e mezzi che rappresenta la sostanza profonda della politica, c’è ben poco spazio per interrogativi quali quelli; e non perché la politica si debba sottrarre alla morale, ma perché quegli interrogativi “teologici” – piuttosto che illuminare l’attività politica – contribuiscono all’autonomizzazione dei due campi. E consideriamo pure l’esempio che tu facevi: viene uno con il fucile, me lo punta addosso e io decido di non difendermi: ebbene, è una cosa che comprendo e che trovo estremamente degna ed è una scelta che oltretutto appartiene ad un filone nobile del pensiero e della filosofia di ogni tempo. Ma non trovo altrettanto degno e altrettanto nobile l’esempio che il primo si tira necessariamente dietro: dunque, viene uno con il fucile, il dito sul grilletto pronto a sparare, punta il fucile sul bambino che sta accanto a me, e io non intervengo. Ecco: questo mi sembra un tantinello meno degno e meno nobile. E allora? Allora posso forse disarmare il potenziale fucilatore? Certo. E adottando quali mezzi? La forza della parola, la dissuasione amichevole, il buffetto, lo schiaffo, il cazzotto, lo stordimento o, infine, un’altra fucilata… Voglio dire insomma che tutto ciò richiama quella che Benjamin definisce “una casistica senza fine”, la negazione cioè di ogni presunto sistema teorico e di ogni affermazione di principio. D’altra parte, non ci si può sottrarre a questa sequela di esempi dicendo: questo è tradurre in termini banali un quesito filosofico. Al contrario, questa banalizzazione rende evidente come sia il quesito iniziale – violenza giusta/violenza ingiusta – a essere del tutto banale. Si tratta di un interrogativo che – lo ribadisco – piuttosto che illuminare con la luce della morale il terreno della politica, in realtà autonomizza totalmente il campo della morale da quello della politica.

 

Le istituzioni sono illegali, perché “violente”…

Altra questione: siete stati voi radicali a insegnarci che il concetto di violenza è strettamente legato a quello di legalità e a ripetere, per anni, affermazioni come: il governo è “violento” in quanto illegale, i comportamenti delle istituzioni sono “violenti” in quanto illegali. La cosa mi sembra quanto mai ragionevole. Io però a questo replico: come faccio a dirmi nonviolento dal momento che io sono, e voglio essere – scusa il termine un po’ ridicolo – extra legale, in quanto ritengo che qualunque strategia di trasformazione e di liberazione dentro questo Stato e dentro questo sistema politico necessita, oltre che dell’adozione di strumenti “legali”, anche dell’adozione di strumenti extra-legali? E allora io confermo la mia fiducia nella possibilità di una iniziativa extralegale ed extra-istituzionale dotata di efficacia nonostante che Stato e terrorismo tentino di ridurla e appiattirla a pratica della clandestinità e della lotta armata. E penso dunque che esistano spazi di extra-legalità e di extra-istituzionabilità praticabili senza che ciò porti l’adozione di mezzi violenti. Su questo punto mi sembra che il PR abbia fatto un passo indietro insistendo su una sua semi-istituzionabilità.

Assumere, come fa il PR, l’alveo istituzionale come confine estremo della propria politica e l’attuazione del dettato costituzionale come obiettivo massimo, mi sembra insomma estremamente riduttivo. È frutto di una inspiegabile timidezza teorica in campo giuridico-istituzionale, dal momento che una strategia di mera applicazione della Costituzione porta ad ignorare un dibattito estremamente ampio, e non certo recente, sui seguenti temi: relazioni tra Costituzione formale e Costituzione materiale, rapporti di forza e loro trascrizione istituzionale, movimenti collettivi e produzione di diritto, e così via.

Detto questo, il problema a mio avviso decisivo è ancora una volta quello di rifiutarsi a qualunque idolatria delle forme di lotta. È vero infatti che la nuova sinistra ha, per anni, un atteggiamento subalterno nei confronti delle forme di lotta e ha, di conseguenza, creato una “retorica” dei mezzi. Questi si caratterizzavano per i loro connotati di violenza, di radicalità e di durezza. Non vorrei che ora la negazione di questa cattiva retorica si rovesciasse nell’idolatria di forme di lotta nonviolente. Ancora una volta, dunque, un feticismo dei mezzi. Le forme di lotta vanno innanzitutto analizzate in base al loro coefficiente di efficacia; in caso contrario non sono forme di lotta: sono semplici espressioni culturali.

D’altra parte nemmeno il criterio – da altri proposto – del carattere “di massa” della violenza è incontrovertibile ed esaustivo. Sarebbe “di massa” un esercizio della violenza che fosse espressione di settori rilevanti di popolazione, che avesse un fine “positivo” e che nel suo procedere consentisse aggregazione di consenso: ma a questo punto ritorniamo, e ci cadiamo dentro pesantemente, in quella casistica senza fine che citavo prima: chi stabilisce qual è la “porzione” di massa sufficientemente ampia da rappresentare la legittimazione collettiva della violenza?

 

Minoranze che rappresentano le maggioranze

Chi stabilisce qual è il tempo in cui essa si deve esprimere? Chi stabilisce che il suo fine è quello giusto? Faccio un esempio, ancora una volta “estremo”: le BR non ammetteranno mai di essere un gruppo minoritario, che intende attuare un colpo di mano. Assolutamente no.    Esse dicono: “Noi siamo una minoranza, ma siamo l’espressione della tendenziale maggioranza della classe operaia che vuole il socialismo”. Analogamente le formazioni partigiane, durante la guerra di Liberazione, dicevano: “Noi siamo una minoranza, ma siamo l’espressione della tendenziale maggioranza del popolo italiano che vuole liberarsi dalla dittatura nazi-fascista”.

Beninteso, non penso assolutamente di fare un’equazione tra le due esperienze: sono del tutto persuaso che la lotta minoritaria dei partigiani fosse effettivamente espressione della volontà di una larga maggioranza, e sono profondamente convinto che quella condotta dalle BR sia la lotta di una infima minoranza, espressione della volontà di una infima minoranza. Ma faccio questo esempio, volutamente provocatorio, per indicare come non possono esistere dei coefficienti statisticamente rilevabili, in grado di misurare una volta per tutte, e rispetto a qualunque latitudine ed epoca storica, criteri come: fine positivo, consenso di massa, dimensione collettiva, “buon” uso della forza.

D’altra parte, anche indicare l’intangibilità della vita umana come soglia insuperabile della lotta politica, è una soluzione solo apparente. Resta vero, infatti, che tale intangibilità – e la conseguente supremazia della vita umana su ogni altro interesse – è ben lungi dall’essere assunto come fondamentale metro di giudizio, criterio di scelta, guida dell’azione nel campo dell’agire politico. Ne sono riprova più recente e inequivocabile le argomentazioni portate dai partiti e dagli organi di stampa del “fronte della fermezza” per rifiutare lo “scambio” proposto tra la vita di Giovanni D’Urso e la pubblicazione dei comunicati dei detenuti.

L’assunzione, quindi, della soglia rappresentata dalla intangibilità della vita umana come limite invalicabile può essere adottato come principio soggettivo della propria deontologia e della propria concezione dell’attività politica: non può essere indicata come criterio oggettivo e scientifico per la delimitazione dello spazio del “lecito”. L’omicidio nel sistema politico italiano ha infatti larga cittadinanza: l’assassinio di Mino Pecorelli di cui il segretario di Aldo Moro rifiuta la paternità (“non l’abbiamo ucciso noi”), indicando i mandanti in opposte fazioni democristiane, non sorprende più di tanto. L’omicidio politico si conferma una delle forme in cui si manifesta la lotta politica nelle società contemporanee, oltre che uno dei mezzi a cui ricorrono gli apparati dello stato per mettere in condizione di non nuocere gli avversari politici.

Questo sembra confermare che l’assunzione della intangibilità della vita umana come primario interesse e limite invalicabile può essere proposta come opzione “soggettiva” e “unilaterale”: non come norma interna a un sistema di regole del gioco che già governerebbe la dialettica politica. “De facto”, così non è. Di conseguenza, si troverà sempre qualcuno – singolo o gruppo – che darà al suo “scegliere” la lotta armata una legittimazione difensiva; nella storia delle teorie prodotte dal movimento operaio, del resto, quella della legittima difesa è stata sempre la principale motivazione portata all’esercizio della violenza. Dal Manifesto del partito comunista in avanti, la violenza rivoluzionaria è stata indicata, infatti, come “levatrice”: come uno strumento, dunque, proprio di una “situazione di dolore”. Da qui l’immagine del parto; da qui l’allusione a una “forzatura”, e il riferimento ad una situazione drammatica.

 

Tribunale popolare, giustizia di classe?

Mi preme dire ancora una cosa: non apprezzo quella linea di interpretazione storica per cui, ad esempio, la “degenerazione” della Rivoluzione d’Ottobre nella sua forma attuale di socialimperialismo sarebbe dovuta al fatto che essa è nata da una serie di atti violenti. Ecco, questa mi sembra proprio una sciocchezza straordinaria. Il problema della “degenerazione” rimanda piuttosto a quell’altro grande tema che, meglio di chiunque, ha trattato Michel Foucault: quello del consolidamento e della conservazione della violenza in istituti; cioè del passaggio della violenza da atto di rottura e momenti di sovversione a strumento di nuovo dominio. Il contenuto di liberazione e di emancipazione, che può essere presente nell’atto dell’insorgere e nell’eventualità che, compiendolo, si possano “sfondare” delle porte, mandare a gambe all’aria degli oppressori, produrre “dei dolori”, tali contenuti, dicevo, ad un certo punto del loro percorso trovano istituzionalizzazione in strutture di potere. Così l’atto di sovversione si autoconserva e si traduce, a sua volta, in strumento di oppressione. Una manifestazione vistosa di tale tendenza è riconoscibile nell’istituto del “tribunale popolare”: esso ha una lunghissima storia nella tradizione del movimento operaio ed è stata la nuova sinistra a riprenderlo e a riproporlo, ben prima che fosse adottato dalle BR.

Nell’attenzione della nuova sinistra per l’istituto del “tribunale popolare” era contenuta la volontà di affermare la parzialità dei bisogni proletari come alternativa alla parzialità degli interessi delle classi dominanti: e di imporre concretamente i primi come applicazione normativa di un’idea emergente di giustizia parziale di classe. Cosa si intendeva con questo?

Si intendevano gli episodi che in quegli anni sono stati indicati dalla sinistra rivoluzionaria come manifestazione di giustizia popolare e proletaria: e pensiamo all’episodio, ormai remoto, della »gogna operaia ai fascisti che avevano aggredito i picchetti davanti alla Ignis di Trento e a tutti i »processi popolari che successivamente, di quell’episodio, mutarono le forme e spesso (va detto) solo i caratteri più esteriori; e pensiamo ai molti fatti che all’interno di lotte sociali di varie zone d’Italia fecero pensare alla sinistra rivoluzionaria di assistere a una amministrazione dal basso della giustizia. E di una giustizia che aveva la sua “fonte” di diritto e le sue “garanzie” di legittimità altrove dai luoghi ad essa deputati nel sistema politico borghese.

Personalmente, non ritengo necessaria alcuna frettolosa sconfessione del valore di quelle esperienze: esse rappresentavano, appunto, la possibilità palpabile del rovesciamento: la concreta verifica della trasformabilità dei rapporti sociali che proprio nella relazione di autorità (e nel sistema di leggi e di comportamenti che ne assicurano e regolano il funzionamento) hanno il loro cuore. Nessuna critica doverosa delle forme regressive che da quelle esperienze sono in qualche modo derivate (e che da esse in effetti derivino sarebbe sciocco negarlo) può azzerare un contenuto essenziale di quella idea: la possibilità/volontà di affermare una diversa concezione di giustizia. Ma se si intende ribadire e riconfermare questo, dov’è che va individuato l’errore? Io credo che esso consista innanzitutto nella trasformazione (nella volontà di trasformazione) di quel principio di parzialità assunto come assoluto e massimo in istituto.

Qui sta, a mio avviso, il vizio determinante. E qui soccorre egregiamente il Foucault di Microfisica del potere, quando afferma: “(…) Le forme d’apparato statale che l’apparato borghese ci ha trasmesso non possono in alcun caso servire da modello per le nuove di organizzazione. Il tribunale, che porta con sé l’ideologia della giustizia borghese e le forme di rapporto fra giudice e colui che è giudicato, giudice e parte civile, giudice e difensore, che sono applicate dalla giustizia borghese, mi sembra aver svolto un ruolo molto importante nella dominazione della borghesia”.

 

Non esiste la “controgiustizia proletaria”

Come non ci deve essere burocrazia così non deve esserci tribunale; il tribunale è la burocrazia della giustizia. Se si burocratizza la giustizia popolare le si dà la forma del tribunale. È per questo ch’ero contro il tribunale popolare come forma solenne, sintetica, destinata a riprendere tutte le forme di lotta antigiudiziaria. È uno strumento pericoloso oggi, perché funzionerà come modello, e pericoloso più tardi, in un apparato di Stato rivoluzionario, perché vi scivoleranno forme di giustizia che rischiano di ristabilire le divisioni.

Io penso che non possa esserci controgiustizia in senso stretto. Perché la giustizia, quale funziona come apparato di Stato, non può aver altro ruolo che quello di dividere le masse tra di loro. E dunque, l’idea d’una contro-giustizia proletaria e contraddittoria non può esistere. È esattamente a quella logica così efficacemente denunciata da Foucault, che s’ispira la conduzione del sequestro di D’Urso, e del suo esito. Vicenda che io interpreto così: le BR negano – già, si può dire, con la loro semplice esistenza – legittimità a questo Stato, alle sue istituzioni e ai suoi apparati.

 

Lo Stato: monopolio della forza e del diritto

Negano la sua autorità politica e il suo diritto ad esercitare il potere. Per fare ciò, devono contestare e rifiutare quelli che sono i capisaldi e fondamenti teorici e pratici dello stato moderno: “il monopolio dell’uso della forza e il monopolio della produzione di diritto”. Da qui la necessità di opporre alla forza dello Stato altra forza e di organizzare quest’ultima in esercito antagonista. E ancora da qui la necessità di amministrare giustizia “alternativa” – che definiscono “proletaria” e “popolare”. Ne consegue tutto il rituale – macabro e grottesco – dei “processi”, degli “interrogatori”, delle “sentenze”: un sistema di procedure giuridiche che mima quello degli apparati statuali e ne rappresenta il rovesciamento speculare. All’interno di questa logica è del tutto evidente che il diritto penale rivoluzionario possa comportare, oltre che la condanna, il condono di essa; oltre che la sanzione, il perdono giudiziario: proprio in base a quello che il comunicato numero 10 chiama “magnanimità”. Ma non solo. L’esercizio della “clemenza in determinate circostanze” – e il sequestro di D’Urso era uno di queste – può risultare il procedimento più efficace per riconfermare e rafforzare il funzionamento del potere; intende dimostrare tra l’altro che chi esercita “la clemenza”, non teme i propri nemici. Al punto tale da poterli “perdonare” e “rimettere in libertà”. Ecco, questo mi sembra l’approdo – tragico e caricaturale – di una concezione aberrante del contropotere, e l’atto finale di una procedura di istituzionalizzazione autoritaria dei possibili processi di emancipazione e liberazione contenuti “in nuce” anche all’interno di azioni di rottura, di violenza di massa, di affermazione di giustizia “alternativa”. Di quelle azioni, l’attività “giustizialista” delle BR rappresenta, appunto, la caricatura. La riproduzione pantomimica, gestuale, mimetica. Ancora una volta prevale la procedura speculare: a uno Stato spettacolo si contrappone un anti-Stato che si affida essenzialmente alla spettacolarizzazione dei propri atti.

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