Va bene l’elogio degli “angeli del fango” per l’occasione trasformati in chi burdel de paciug: i ragazzi che pale in mano liberano strade e case da fango e detriti. Bene anche la mistica del Romagnolo che non si perde d’animo, si rimbocca le maniche, “qui sono, qui resto”. Va bene Romagna mia e tutta la mitologia di questa regione, che fa di un brigante, il “Passatore”, il suo simbolo e marchio; bene tutto quello che dopo la disastrosa alluvione di maggio si è detto e scritto.
Poi, però… Non è il caso di scomodare il Padreterno, come fa Achille Occhetto, sia pure per paradosso. Non sono punizioni e nuovi Diluvi e per non aver ascoltato quei sedicenti ambientalisti che imbrattano monumenti e opere d’arte (e perché la Romagna e non un’altra regione o paese?).
Le “cose” concrete e dure sono le parole del sindaco di Ravenna Michele De Pascale. Rivelano più di quanto non dicano: “Le opere del passato hanno salvato la città’”. Significa che in passato avevano meno tecnologia ma più sapienza e previdenza; più coscienza di quello che va fatto, come va fatto, cosa non si deve fare.
Le “cose” concrete e dure sono quelle che dice Romano Prodi quando ricorda che in Emilia Romagna si è trasformato il territorio senza che ci si rendesse conto delle conseguenze; che occorrono opere di contenimento delle acque che non si sono fatte; che occorre pulire i fiumi e non lo si è fatto; che vanno curati i boschi; ripristinati i canali di scolo, mettere in sicurezza gli edifici a rischio, abbattere quelli costruiti in luoghi proibiti.
Cose che si dovevano fare e non sono state fatte. In Romagna e in tutta Italia. Ci si dovrebbe ricordare di quello che fin dagli anni ’70 dicevano e proponevano Marco Pannella e Aldo Loris Rossi, a partire dall’inascoltata proposta di ampliare e valorizzare il corpo dei geologi, farli diventare un’istituzione di quartiere. Fare tesoro delle loro proposte: che non erano (non sono) utopie di visionari sognatori, ma concrete cose da fare, politica nel senso più alto e nobile.
Un particolare non irrilevante: Elly Schlein prima di essere eletta segretaria del Partito Democratico era vice-presidente della regione Emilia Romagna. Emiliani sono Prodi, Dario Franceschini, Pierluigi Bersani, una quantità di altri dirigenti ed esponenti di primo piano dei passati governi: hanno ricoperto incarichi di responsabilità e gestione del potere. Per anni la regione si è trastullata accreditando una politica di “buon e saggio governo”. Non sufficientemente “buono” e “saggio”, a quanto pare.
In questo maggio indimenticabile la dorsale appenninica è investita da una incredibile massa d’acqua che si riversa in un’area grandissima: i colli bolognesi, i territori montani delle province di Modena, Reggio Emilia, Rimini, Forlì-Cesena e Ravenna; impressionante il numero delle frane e delle esondazioni. La Protezione civile ne censisce più di mille, oltre 370 “molto significative”, interessano 56 comuni. Ben 170 interessano 18 comuni della provincia di Forlì-Cesena; ben 90 minacciano due soli comuni del ravennate: Casola Valsenio e Brisighella. “Molto significative” significa che creano situazioni di impatto con i centri abitati. “Dai nostri rilievi sul territorio e dalle informazioni disponibili, le frane sono molto molto numerose, probabilmente nell’ordine di diverse migliaia”, valuta Matteo Berti, professore di geologia all’Università di Bologna, a capo della task force che lavora alla mappatura delle frane. “Erano attese, ma certo non ce ne aspettavamo un numero così elevato…In certe zone è cambiata la morfologia dei versanti. Una cosa così non l’abbiamo mai vista e non ci sono notizie storiche recenti di questo tipo”.
Erasmo De Angelis è un’autorità in materia. Matteo Renzi, quando era presidente del Consiglio lo ha voluto a palazzo Chigi per occuparsi specificatamente delle questioni ambientali. Incarico che il governo presieduto da Giorgia Meloni ha revocato. C’è una sola certezza, dice: “Nella pianura dall’idrologia più complessa e artificializzata d’Europa, con i terreni tra i più molli e destinati naturalmente al ristagno e alle acque basse che la terrebbero sempre sommersa se non ci fosse l’opera dei bonificatori con le idrovore a tenerla all’asciutto, non basta alzare muri di terra e, con catene umane interminabili come spina dorsale della ricostruzione, anche muraglie di sacchi di sabbia per rafforzare argini, e nemmeno gonfiare barriere di plastica”. Serve invertire il corso del canale Emiliano-Romagnolo, un serpentone d’acqua artificiale gestito dal consorzio di bonifica lungo 135 km, la più lunga asta irrigua d’Italia, che sfocia nel mare riminese dopo aver attraversato 336.000 ettari di territorio di 227.000 di campi coltivati con 158.000 irrigati con canalizzazioni e idrovore. È solo un tratto dei complessivi 200.000 km di reti irrigue artificiali italiane, 23.000 km di condotte di adduzione, 16.000 km di arginature, circa 30.000 briglie e sbarramenti, migliaia di opere di presa, e oltre mille idrovore. Il canale Emiliano Romagnolo, costruito tra il 1955 e il 1960 per pescare l’acqua del Po deviandola verso la Romagna, fino a ieri procedeva in una sola direzione ha subito la prima inversione a “U” della sua storia, con le acque in parte riversata nel Savio e parte in un Po ancora per poco in grado di reggere le portate aggiuntive. Un’impresa mai tentata prima.
Le difficoltà non sono solo nella morfologia e nell’orografia molto complicate, con i moltissimi fiumi che scendono dall’Appennino: “È anche nell’idrografia pazzesca e più volte modificata del Po che dalla sorgente sul Monviso in 652 chilometri raccoglie 43 affluenti principali bagnando 71.000 km2 di terre, un quarto della penisola con 3.200 città dove vivono 16 milioni di italiani, e confluendo nella Bassa con sette rami del suo Delta. Il suo bacino in realtà è l’insieme di tre bacini interconnessi, tre vaste aree idrologiche, ognuna con la sua specificità e con i suoi problemi”.
Il primo problema è l’Alta Pianura delle Prealpi: i terreni argillosi e arenosi assorbono acqua piovana che scende anche fino a 200 metri di profondità e crea grandi sacche di falde freatiche. “È la linea di ricarica dell’intero sistema idrologico della pianura. L’acqua, nei suoi intricati percorsi nel sottosuolo, scende poi fino al secondo bacino, la Media Pianura, molto ricca di sacche idriche anche in pressione con tendenza alla risalita dove affiora anche con le risorgive”. Da questo confine idrologico inizia la Bassa Pianura: le argille impermeabili del suolo da sempre favoriscono stabili impaludamenti tra Pavia e le Valli di Comacchio, il mantovano, il parmense, il reggiano, il modenese e la pianura romagnola.
Facciamo ora un salto nel tempo. Agosto 2012: un medico di Faenza, il dottor Arturo Frontali scrive una lettera-appello a numerosi giornali locali. Lettera pubblicata. Frontali contatta inoltre l’ufficio dell’Autorità del Bacino della regione Emilia-Romagna.
Questo il testo della lettera:
“Dal ponte di Castel Bolognese fino a valle di Lugo e oltre, il fiume è ridotto ad una foresta impenetrabile tipo Mato Grosso, una selva di acacie spinose, di pioppi alti più di dieci metri, il tutto avvolto da un roveto impenetrabile, costituito da rovi alti più di un metro e mezzo, frammisti a canne da fiume e da fittissime e altissime felci; pertanto l’alveo del fiume risulta inaccessibile, e le rive impraticabili per il roveto spinoso. La galena, un tempo lavorata e seminata a grano ed erba medica, ora è talmente ristretta e ingolfata dagli alberi e dai rovi da non permettere il passaggio in molti punti. Se il fattore tempo cambierà e ritornerà a piovere abbondantemente (personalmente ricordo del fiume da riva a riva) neppure una goccia d’acqua potrà filtrare attraverso questa selva e il tutto esonderà prima della via Emilia, invadendo a valle terreni agricoli, case e aziende. Di chi la colpa? Il Senio, una volta alle dipendenze dell’ufficio Reno di Bologna, è ora alle dipendenze della spett. Autorità del bacino Reno di Bologna il cui responsabile è l’architetto Petri. Come è stato possibile un abbandono così totale completo? Immagino per mancanza di fondi! Ho parlato con due sindaci, che conoscono la pericolosa rovina del fiume; sperano soltanto che non pioverà più con abbondanza, in modo che non avvengono piene pericolose. Gradirei una risposta”.
La risposta non è mai arrivata.
Più in generale. Negli ultimi dodici anni, alla guida di questo Paese si sono succeduti nove governi (centrodestra, centrosinistra, “tecnici”). Per la difesa del suolo si sono spesi appena 9,1 miliardi di euro, a fronte di progetti presentati per oltre 66 miliardi. Open Cup, la piattaforma sugli investimenti pubblici gestita dal Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica (Dipe) della presidenza del Consiglio, fornisce dati eloquenti. Dal loro incrocio se ne ricavano una quantità impressionante di ritardi, rinvii, bocciature e omissioni. Risultato concreto: decine di miliardi tra fondi nazionali, regionali ed europei inutilizzati. Eppure poco meno di centomila progetti hanno ottenuto il codice CUP (Codice unico di progetto), che identifica un piano di investimento pubblico. La maggior parte dei progetti (33.917, il 27 per cento) ha a che fare con i corsi d›acqua; il 23 per cento è costituito da interventi in foreste e boschi. 22mila i progetti che riguardano le abitazioni; seguono altre infrastrutture per la difesa del suolo (circa 7.600); progetti per la regimazione delle acque (interventi per ridurre i rischi di erosione del suolo), per le spiagge e infrastrutture anti sisma. Marco Leonardi ha scritto un libro interessante: Partita doppia, le scelte della politica tra riforme ed emergenze, dove spiega che il nostro paese storicamente non sa spendere se non una piccola parte dei fondi per lo sviluppo e la coesione, negli anni 2020-22 il dibattito politico ha vissuto un paradosso: con il PNRR si annunciavano investimenti di lungo periodo, ma le riforme strutturali venivano accantonate. Il risultato è che le grandi riforme sono rimaste al palo. “Non tutti i CUP”, spiega Leonardi, “sono ammessi al finanziamento, la procedura è molto difficile: dei 66 miliardi riferiti alla programmazione iniziale, al finanziamento sono stati ammessi solo diciassette”. Ma il blocco è subentrato anche in un secondo momento. Non solo: i progetti entrati nei piani degli enti locali e delle amministrazioni centrali insieme a quelli conclusi, hanno ricevuto pagamenti per meno di dieci miliardi. La media, tra il 2010 e il 2022: appena 800 milioni l’anno.
La Corte dei Conti ha messo in luce le ragioni che “hanno impedito una efficace implementazione dei piani di contrasto al rischio idrogeologico”: lunghezza e farraginosità dei procedimenti, dei tempi di progettazione e approvazione, carenza degli organismi tecnici per la realizzazione dei progetti.
Quello che è accaduto in Romagna, un’alluvione senza precedenti dopo mesi di siccità, rivela la gravità e l’urgenza dei pericoli relativi al dissesto idro-geologico, che minacciano gran parte del territorio nazionale. Negli ultimi 15 anni, sono una quantità le aree del paese colpite da “improvvise, rapidissime e a elevata distruttività” (definizione e classificazione degli esperti dell’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale. Per citarne qualcuna: Sarno e Quindici (1998), Nord del Piemonte e Valle d’Aosta (2000), Val Canale in Friuli (2003), Messina (2009), Borca di Cadore (2009), Val di Vara, Cinque Terre e Lunigiana (2011), Alta Val d’Isarco (2012), San Vito di Cadore (2015), Madonna del Monte (2019), Chiesa in Valmalenco (2020), Senigallia (2014 e 2022), Ischia (2022), Emilia-Romagna (2023).
Un anno fa l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ha localizzato quali “aree di pericolosità idrogeologica” il 93,9 per cento dei comuni italiani. Cambiamenti climatici, certo; ma anche dalla cementificazione del suolo: nel solo nel 2021 risultano “cancellati” oltre 69 chilometri quadrati di campagne, prati, boschi, sponde dei fiumi e coste dei mari. In media ogni giorno, spariscono 19 ettari di verde. Terre in grado di assorbire l’acqua, depurarla e regalare vita a piante e animali, ricoperte da cemento e asfalto: spariscono così le difese naturali e si favorisce il dissesto.
Circa due milioni e 400mila italiani vivono in abitazioni con “pericolo elevato” di inondazioni. Se si aggiungono le zone a “medio rischio”, la popolazione esposta alle alluvioni sale a 6,8 milioni. Le frane più gravi minacciano 565 mila edifici, con oltre un milione e 300 mila residenti. Dal 1971 al 2021 frane e alluvioni hanno provocato 1.630 morti accertati, una cinquantina di dispersi, oltre 320 mila senzatetto. Al primo posto, nella classifica delle regioni a rischio, la Campania. Seguono Emilia-Romagna, Toscana, Veneto, Lombardia, Liguria.
Un anno fa il WWF diffonde un rapporto nel quale si denuncia che molte amministrazioni locali autorizzano interventi edilizi anche vicino ai fiumi, in prossimità agli “sfoghi” delle ondate di piena: “Negli ultimi 50 anni, circa duemila chilometri quadrati di aree naturali di esondazione hanno subito varie forme di urbanizzazione…Cemento e asfalto oggi ostruiscono dal 3 al 25 per cento di tutte le sponde dei corsi d’acqua”. Ispra documenta che nel 2021, sono diventati artificiali 361 ettari di suolo a “elevata pericolosità” per le alluvioni. In Liguria risulta cementificato il 23 per cento dei terreni a massimo rischio di straripamento fiumi e torrenti. Analoghe problematiche in Trentino, Veneto, Lazio, Sicilia.
Mancano leggi adeguate? Tutt’altro. La prima contro il dissesto è approvata dopo l’alluvione del Polesine del novembre 1951 (oltre 100 morti, 180mila sfollati). In trent’anni approvate dieci leggi speciali, seguite da altre, varate sempre dopo ulteriori disastri. Dal 2007 una direttiva europea impone di adottare piani territoriali coordinati contro le alluvioni. Dal 2030 anche l’Italia dovrebbe applicare le norme europee che puntano a ridurre il consumo di suolo. Però si continua a cementificare. Se si continua così, entro il 2030 saranno “cancellati” altri 570 chilometri quadrati di terreno verde.
“L’estate del 2023 sarà diversa da quella dello scorso anno”, prevede Alessandro Bratti, segretario dell’Autorità dii bacino distrettuale del fiume Po, ex direttore ISPRA. “Le portate del fiume sono aumentate e, a parte una zona critica nel piacentino, le falde si sono ricaricate in tutto il bacino”.
Al quotidiano Il Manifesto Bratti ha rilasciato un’intervista interessante. “Le arginature presenti sul fiume Po, sui suoi affluenti principali e sui corsi d’acqua emiliano-romagnoli colpiti dagli ultimi eventi alluvionali, sono sistemi strategici per la difesa di amplissime porzioni di Pianura Padana. In numerosi casi questi sistemi difensivi non sono adeguati in quota, sagoma e struttura per il contenimento dei livelli di piena e per questo quei territori sono stati individuati come Aree a rischio potenziale significativo. È bene evidenziare che le arginature non possono mai garantire una sicurezza assoluta: non potendo resistere alla tracimazione, se superate collassano rapidamente riversando nei territori retrostanti buona parte dei volumi di piena”.
La corretta manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere arginali, adeguate gestioni dei sedimenti e della vegetazione sono interventi necessari ma non sufficienti: “Le arginature sul Po e quelle sugli altri corsi d’acqua padani hanno raggiunto quote limite di altezza non più significativamente aumentabili ed emerge la necessità di definire nuovi indirizzi difensivi nel caso di eventi eccezionali sempre più possibili in epoca di cambiamento climatico. Si tratta, in particolare, di dare più spazio ai fiumi, invertendo la tendenza che aveva caratterizzato l’epoca in cui molte di tali arginature sono state realizzate, la bonifica dei primi del Novecento, di recuperare più spazio possibile all’agricoltura e allo sviluppo antropico. Oggi bisogna fare un ragionamento alla rovescia: laddove possibile vanno arretrate le arginature, anche creando golene chiuse al pari di quelle presenti sul Po, abbassati i terreni golenali nei tratti più pensili rispetto ai piani di campagna circostanti, vanno realizzati tratti di arginature tracimabili in modo tale che, se superate dalle acque, non collassino. Sono questi interventi innovativi che dovranno essere presi in considerazione in futuro, insieme al completamento delle casse di espansione in corso di realizzazione, all’adeguamento dei ponti e delle infrastrutture interferenti e alla delocalizzazione degli edifici e degli insediamenti più critici e di quelli gravemente danneggiati durante gli eventi alluvionali”.
I piani ci sono. Quello per l’assetto idrogeologico è stato approvato sul fiume Po già a fine anni ’90, contiene la perimetrazione delle fasce fluviali e le norme di uso del suolo rispetto alle quali deve uniformarsi la pianificazione urbanistica in capo alle Regioni ed ai Comuni. Eppure…
In cinquant’anni oltre 166mila i morti in Europa per eventi climatici estremi, l’8 per cento delle vittime in tutto il mondo. Tra il 1970 e il 2021 l’Asia è il continente più martoriato dai disastri meteo, climatici e idrici: il costo più alto in termini di vittime. Stati Uniti, centro America e la zona caraibica quelle che maggiormente hanno pagato in termini economici. L’Atlante dell’ONU 2021 sulla mortalità e le perdite economiche legate a siccità, alluvioni, cicloni ed altri fenomeni atmosferici, censisce che in 50 anni ci sono stati 1.784 eventi estremi: 166.492 morti, 562 miliardi di dollari di perdite economiche. Le temperature estreme sono state la principale causa di morti mentre le inondazioni sono state all’origine delle maggiori perdite economiche. Asia: segnalati 3.612 disastri, 984.263 morti, 1,4 miliardi di dollari di perdite economiche tra il 1970 e il 2021. Nord America, America centrale e Caraibi: 2.107 i casi segnalati di eventi meteo estremi, hanno provocato 77.454 morti, danni per 2.000 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti da soli hanno subito danni per 1,7 miliardi di dollari, pari al 39 per cento delle perdite mondiali negli ultimi 51 anni soprattutto per i cicloni tropicali. Africa: tra il 1970 e il 2021 sono stati segnalati 1.839 disastri, 733.585 morti di cui il 95 per cento per la siccità, 43 miliardi di dollari di danni. Pacifico sud-occidentale: 1.493 i disastri, 66.951 i morti, 185,8 miliardi di dollari le perdite. Sud America: segnalati 943 disastri, di cui il 61 per cento inondazioni, oltre 58mila morti, 115,2 miliardi di danni.
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Questo piccolo saggio è dedicato a Marco Pannella che da sempre proponeva il potenziamento dell’Ordine Nazionale dei Geologi, addirittura auspicava il “geologo di quartiere”; e ad Aldo Loris Rossi. Forse qualcuno si domanderà chi è. Un architetto italiano, docente di Progettazione Architettonica alla Facoltà di Architettura dell’Università di Napoli. Allievo di Frank Lloyd Wright, uno dei maestri del Movimento Moderno Architettura. Ci ha lasciato il 28 giugno 2018. Per tutta la vita si è fatto interprete di una proposta insieme rivoluzionaria e utopica: rottamare quella che definisce la spazzatura edilizia post-bellica, senza qualità, interesse storico ed efficienza antisismica. Un qualcosa di ciclopico visto che riguarderebbe almeno 40mila vani costruiti tra il 1945 e il 1975. Un’operazione grazie alla quale lo Stato riuscirebbe addirittura a risparmiare, se si decidesse di ricostruire tutto secondo criteri come quelli usati in Giappone, piuttosto che cercare di rimediare dopo ogni disastro e terremoto. Le cifre, nella loro aridità, fanno pensare. Prendiamo gli ultimi importanti terremoti: Belice, Friuli, Irpinia, Umbria, Abruzzo, Emilia. I costi per la ricostruzione di un chilometro quadrato di area colpita oscillano tra 60 e 200 milioni di euro; il costo medio della ricostruzione di un singolo comune varia tra i 270 e i 1400 milioni di euro; il costo medio per abitante residente nell’area colpita oscilla tra 270mila e i 783mila euro. I costi dei terremoti e dei disastri ambientali tra il 1968 e il 2003 oscillano sui 146 miliardi di euro. Paese estremamente vulnerabile l’Italia, pensate: il 44 per cento del territorio si trova nella condizione di elevato rischio sismico; significa il 36 per cento dei comuni italiani, oltre 21 milioni di persone. E questo senza considerare i costi in termini di vite umane e il patrimonio culturale che viene distrutto.
Ricostruzione e prevenzione. La classe politica italiana, quella che si suol definire “classe dirigente”, ma anche la cosiddetta società civile, appaiono entrambe prigioniere di una stessa miopia, che ha fatto loro sottoscrivere una sorta di “patto di desistenza”: che rifiuta la prevenzione ed espone l’Italia senza difesa. Quanti per esempio ricordano che l’Italia è stata colpita da almeno 30 terremoti distruttivi, di magnitudo intorno a 7, che hanno prodotto moltitudini di morti e rovine infinite? Quanti sanno che poco più di tre secoli fa (era il 1693), un terremoto ha distrutto Catania, Siracusa, Ragusa, Modica e tutta la Val di Noto? Quanti sanno che due secoli dopo (era il 1908), un terremoto ha distrutto Messina e le Calabrie, uccidendo 100mila cittadini? Quanti sanno che oggi, in Sicilia, lo splendore del barocco nasconde situazioni di estrema vulnerabilità? Quanti hanno sentito parlare dei terrificanti clustering che hanno colpito più volte la Calabria – 2 e addirittura 3 terremoti distruttivi in soli due mesi, prima nel ‘600 e poi a fine ‘700, mentre fra i due terremoti catastrofici del 1905 e del 1908 passarono solo 3 anni? Quanti conoscono i disastri successivi a Pompei? Come struzzi si preferisce nascondere la testa sotto la sabbia. Non voler vedere le cose, però non risolve il problema. I disastri finiscono nel dimenticatoio per poter continuare a ignorarne la terribile minaccia, sperando che il prossimo Big One tardi al massimo e tocchi alle generazioni future. Così si spiega l’estrema modestia con cui è stato ricordato il centenario del terremoto di Messina del 1908.
Non ci sono alibi per questa inerzia. Gli studi condotti sugli eventi del passato forniscono tutte le informazioni necessarie per decidere. Quegli studi predicono il futuro. Possiamo valutare per ciascun centro abitato qual è il rischio a cui è esposto e qual è la sua vulnerabilità. Saremmo perciò in grado di limitare fortemente i danni. Tutto questo ci riporta ad Aldo Loris Rossi, e alla sua “utopia”. E anche se si può sembrare dei don Chisciotte che muovono guerra ai mulini a vento, vale la pena di insistere e agitare la questione. Gutta cavat lapidem.
Sono passati pochi giorni dall’alluvione che ha travolto la Romagna, un’alluvione che oltre ai milioni di danni si è portata via 15 persone. Le domande che ci poniamo in seguito a eventi simili, soprattutto in un periodo storico in cui la sensibilità ambientale della popolazione è in costante crescita, sono molte. Perché è successo? Il clima sta cambiando? Si può fare qualcosa a riguardo? Si poteva fare di più per limitare i danni? Cosa non ha funzionato? Di chi è la colpa? Cerchiamo di inquadrare la situazione tra storia del territorio, attualità e possibili sviluppi futuri.
Lunedì 15 maggio un ciclone mediterraneo (Minerva) è andato approfondendosi dal Canale di Sicilia verso il Mar Tirreno raggiungendo valori di pressione ragguardevoli per il mese di maggio. Ha scatenato una tempesta di bora sull’Adriatico settentrionale tale da rendere necessaria l’attivazione del MOSE per proteggere la Laguna di Venezia dall’alta marea (95 cm alla Diga Sud Lido e Faro in serata). Vento di bora che ha insistito per 48 ore sull’Emilia Romagna spingendo ingenti quantitativi di vapore acqueo verso l’Appennino, provocando prima le intense e persistenti precipitazioni, e ostacolando poi il deflusso dei fiumi verso il mare. Le precipitazioni più intense hanno interessato l’area pedemontana compresa tra il bacino del Sillaro e del Savio, dove localmente si sono toccati i 250 mm di accumulo nell’arco di 36 ore. Precipitazioni intense che sono arrivate a due settimane di distanza da un’altra perturbazione che aveva colpito esattamente la stessa zona con accumuli molto simili. La vicinanza temporale di questi due eventi ha creato i presupposti per il disastro sul fronte delle frane. I terreni ancora saturi in seguito alla perturbazione di inizio mese non hanno retto il secondo carico: 300 frane risultano attive. Dal punto di vista climatico la regione non è nuova ad eventi simili. La storia della regione, come quella di buona parte del nostro paese, è strettamente legata agli episodi alluvionali. Ciò nonostante, registrare in meno di un mese due episodi con accumuli pluviometrici così rilevanti può essere considerato un evento più unico che raro nell’arco temporale della vita umana.
I “buchi” di dati negli Annali Idrologici e l’assenza di uno storico su buona parte delle stazioni meteorologiche presenti oggi sul territorio, rendono complessa la valutazione statistica degli eventi. Utilizzando quanto presente possiamo comunque ritenere queste perturbazioni eccezionali, poiché consultando circa 120 anni di dati il conteggio di episodi singoli simili si riduce alle dita di una mano. Registrarne due nello stesso mese non fa altro che accentuare l’aspetto di eccezionalità dal punto di vista statistico.
Collegare un evento singolo come quello in questione al riscaldamento globale di origine antropica (Anthropogenic Global Warming, AGW) è praticamente impossibile: una perturbazione simile si sviluppa in circostanze particolari e i fattori naturali che concorrono alla sua formazione sono preponderanti rispetto a qualunque aspetto legato alle attività umane. Legati alle attività umane invece possono essere gli effetti sul territorio, dove i nostri lavori possono fungere da innesco per le frane o favorire l’accumulo molto rapido della pioggia a valle per effetto della cementificazione. Eventi simili possono non ripetersi per 50/100 anni o tornare nell’arco di pochi giorni, come accaduto. Gli scenari climatici futuri ci dicono che all’interno di una perturbazione simile potremo avere mediamente degli accumuli superiori a quelli che si registravano in passato ma non ci potranno mai dire con certezza che eventi come questo avranno una frequenza superiore sul territorio romagnolo. I possibili sviluppi di una situazione barica continentale come quella che abbiamo vissuto sono molteplici e sempre diversi, dipendenti da una miriade di variabili che creano una quantità di combinazioni quasi infinita. Eventi alluvionali simili sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Con lo sviluppo tecnologico il loro impatto è stato nettamente ridotto, con i decessi legati ad essi in costante diminuzione. Rispetto al passato, dove la tecnologia era molto limitata, le nostre analisi che porteranno a nuovi interventi di mitigazione del rischio dovranno necessariamente tenere conto degli scenari climatici futuri più probabili per non ritrovarsi impreparati di fronte alle nuove situazioni meteorologiche eccezionali. L’eliminazione dell’impatto umano a livello di gas climalteranti non renderà il clima più clemente, gli eventi meteorologici estremi saranno sempre parte del clima del nostro paese.
Dati ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) alla mano, la popolazione dell’Emilia Romagna risulta essere tra le popolazioni italiane più a rischio frane e alluvioni. La ragione di questa condizione è da imputare principalmente alle cause naturali, alle quali vanno aggiunte quelle antropiche. L’Italia presenta un territorio morfologicamente fragile perché geologicamente giovane. Secondo l’Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia (IFFI), sul territorio dell’Emilia Romagna sono presenti oltre 80000 frane. A complicare un quadro geologico regionale già complesso abbiamo l’aspetto idrologico romagnolo: torrenti e fiumi molto vicini tra loro che una volta arrivati nella media pianura hanno diverse decine di chilometri da percorrere, fino alla confluenza con il fiume maggiore o alla foce, in cui il corso diventa molto lento per via della quasi totale assenza di dislivello. Buona parte del territorio della pianura presenta un’elevazione inferiore ai 20 metri. In un contesto naturale del genere, in Romagna l’uomo ha sempre dovuto combattere contro le inondazioni. Prima dei grandi interventi di bonifica degli ultimi secoli, il corso dei fiumi nel tratto di media e bassa pianura era in costante cambiamento: ad ogni piena si associava un nuovo alveo, rendendo così difficilmente abitabile la zona per via della totale inaffidabilità dei corsi d’acqua. A causa della lieve inclinazione del terreno i fiumi ad ogni piena interrivano il proprio alveo. Il risultato era un’elevazione dei corsi d’acqua rispetto al piano di campagna e di conseguenza un costante straripamento.
Nel tratto di pianura più vicino al mare era perciò presente un’immensa distesa paludosa, la Valle Padusa. Essa si estendeva in modo continuo dalla foce del Po alla zona di Ravenna (un tempo in riva al mare). Nei periodi di piena dei fiumi pressoché l’intera area che costeggia l’Adriatico settentrionale, dal ravennate al Friuli, era una distesa paludosa. La laguna di Venezia e le Valli di Comacchio erano parte integrante di questa immensa zona umida. Area paludosa che arrivava a ridosso di Ferrara, dove fino all’alto medioevo scorreva il fiume Po (Po di Primaro). Questa palude esisteva nella sua porzione meridionale poiché i fiumi romagnoli non riuscivano a raggiungere il principale fiume padano. Il Po, anche nei periodi di magra, manteneva una portata sufficiente a farsi strada attraverso la Padusa.
Il grande fiume del nord Italia lungo il suo percorso riusciva a creare degli argini naturali grazie ai sedimenti che portava a valle soprattutto durante le piene. Per questo motivo i torrentizi fiumi romagnoli, una volta avvicinatisi alla confluenza, trovavano negli argini naturali creati dal Po un ostacolo insormontabile al punto da essere costretti a tornare verso sud. L’area di pianura compresa nel triangolo tra Bologna, Argenta e Cesena risultava essere ad un’altitudine più bassa rispetto all’alveo dei fiumi. In questo complesso quadro naturale le inondazioni di zone considerate sicure (isolotti) erano assai frequenti, tali da rendere indispensabile l’intervento umano sull’idrografia regionale per poter sviluppare la società in maggiore sicurezza. Per lunghi periodi gli interventi furono solamente locali e spesso osteggiati da parte delle comunità vicine: un intervento in area bolognese poteva essere sfavorevole per i ferraresi che quindi facevano il possibile per fare in modo che non lo realizzassero. Questo tira e molla andò avanti fino al XVI secolo quando con Aleotti (architetto e ingegnere, 1546-1636) si cominciarono a vedere i primi grandi piani di bonifica con l’obiettivo di ridurre il più possibile l’escursione stagionale che i corsi presentavano. Piani che dovettero attendere altri 200 anni prima di vedere la luce. Con i lavori di Lecchi (ingegnere idraulico, 1702-1776) della fine del Settecento si arrivò ad un progetto di assetto idrografico molto simile a quello che ritroviamo ancora oggi, con una divisione tra acque alte (fiumi arginati) e acque basse (acque piovane e di scolo raccolte dai canali). L’obiettivo era quello di svuotare le valli dell’acqua ristagnante in modo da poterle coltivare. Un cambiamento radicale che avrebbe stravolto il paesaggio dell’intera area.
Il progetto di Lecchi non fu solamente un lavoro che portò cambiamenti idrologici, fu un progetto che portò ad un totale sconvolgimento culturale nella popolazione che risiedeva nella zona. Si dovette aspettare il secolo scorso per vedere il lavoro ultimato, ma il cambio di visione fu avvertibile fin da subito. Dalla preistoria al Rinascimento in quella zona si è vissuto di pesca e poco altro, tra malattie figlie del ristagno delle acque e inondazioni che minacciavano i piccoli isolotti su cui erano presenti le comunità. Una vita difficile in una zona che economicamente con il passare del tempo non poté più competere con altre aree del paese o d’Europa. Questa decisione di asciugare le valli portò (e ha tuttora) degli enormi benefici sia in termini economici sia in termini di salute. Una virata di attività e pensiero verso l’efficienza economica: cercare di rendere migliore un territorio che si presenta molto sfavorevole, mettere in ordine ciò che sembra confuso e irrazionale. Pensiero che si è evoluto fino alla seconda parte del Novecento quando negli anni 70 si combatteva ancora con la povertà nelle zone periferiche di pianura e montagna e si era costantemente in lotta contro una natura imprevedibile e implacabile nel mostrare i nostri limiti.
Con l’avvento dell’industria il rapporto uomo-natura è andato modificandosi per l’allontanamento dell’uomo dalla terra, con la natura che non è più stata vista come parte della quotidianità da rispettare e temere cercando di limitarne l’influenza sulle nostre vite, bensì come un’entità superiore da preservare dall’influenza antropica, con l’uomo non più “faber fortunae suae” ma piuttosto “faber calamitatis suae”.
In un mondo sempre più vicino all’ambiente a parole e distante nei fatti, spesso il territorio è stato colpevolmente abbandonato. La natura va sempre avanti, muta, si adatta; non rimane ad aspettare una nostra decisione o rispetta una scelta che dovrebbe “farla stare bene”. La natura non ha morale: non conosce i concetti di bene o male che noi applichiamo ad ogni aspetto della nostra vita. E così oggi ci ritroviamo con infrastrutture sempre più vecchie e malandate che se messe sotto pressione non rispondono più come un tempo agli stimoli meteorologici. Stimoli meteorologici che secondo i rapporti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) aumenteranno di intensità nei prossimi decenni. In uno scenario in cui avremo bisogno di infrastrutture all’avanguardia per rispondere ai cambiamenti climatici ci stiamo accontentando di quanto i nostri predecessori ci hanno lasciato, operando spesso solo in situazioni emergenziali per tamponare quando oramai il danno è fatto.
In passato non avevano la tecnologia per prevedere uno scenario climatico a lungo termine, eppure gli interventi sono stati lungimiranti e hanno permesso alla regione di svilupparsi e prosperare. Interventi che hanno profondamente modificato l’ambiente romagnolo e finché l’uomo abiterà queste terre con ogni probabilità non potrà tornare ad essere quello precedente. Questo aspetto ci regala un punto di partenza sulle decisioni da prendere: abbiamo un capolavoro ingegneristico su cui lavorare. Capolavoro che ha e avrà bisogno di manutenzione perché al netto dell’eccezionalità degli eventi che hanno sconvolto la regione, il fatto che in oltre 20 corsi d’acqua gli argini si siano sgretolati anche in più punti nell’arco di 24 ore, rimane qualcosa che non deve accadere.
Allo stato attuale appare molto difficile districarsi nel ginepraio di informazioni che ci circonda, ma una volta che l’onda emotiva si sarà almeno parzialmente ritirata potremo fare una profonda analisi per capire cosa è andato storto. Al momento ci si divide tra chi chiede un ripristino delle condizioni naturali degli alvei e chi invece chiede interventi strutturali massicci. Un ripristino delle condizioni di secoli fa appare inverosimile: la natura di quei corsi d’acqua non farebbe altro che minacciare la nostra vita e le nostre attività. Una riqualificazione di diversi tratti dei corsi d’acqua (specie ove la pensilità è ancora accentuata) sarebbe comunque auspicabile, anche se spesso molto complessa a causa della vicinanza con le attività umane.
Cosa sarebbe preferibile fare per proteggere la nostra vita? Partire dalla manutenzione delle infrastrutture presenti e porre un freno alla cementificazione che non fa altro che accentuare gli effetti delle piogge. Guardare agli esempi virtuosi di altre regioni italiane come il Veneto, che in seguito alla disastrosa alluvione del 2010 si è dotata di nuovi bacini di laminazione che con l’alluvione del 2018 si sono rivelati fondamentali. Un bacino di laminazione è una sorta di parcheggio momentaneo per l’acqua: un’area destinata ad accumulare una parte della piena del fiume in modo da abbassare il rischio di straripamento dello stesso più a valle.
Potenzialmente anche un solo bacino di laminazione può fare la differenza. Se si decide di operare in tal senso, si considera la portata massima che un fiume può raggiungere e in base a quella si trova un luogo idoneo in cui laminare tot milioni di metri cubi di acqua che il fiume non può sopportare. Questo maggio 2023, considerata l’eccezionalità dell’evento che abbiamo vissuto, fornirà un’enorme mole di dati agli esperti che faranno le valutazioni delle potenziali portate massime dei fiumi. Alzare gli argini può invece non essere una soluzione: nel tratto terminale la pendenza è molto ridotta e il mare rischierebbe di fare da diga, soprattutto in eventi simili a quello appena trascorso in cui il vento di bora non permetteva il normale deflusso della piena. Scavare il fondo può essere una soluzione solo locale e utile solo in caso di piene ordinarie: come per l’innalzamento degli argini, il mare finirebbe per essere un nemico considerata la pensilità del tratto finale dei fiumi.
Molto più importante di questo intervento invece, è quello di pulizia degli alvei. In molti casi la sezione fluviale risulta estremamente ridotta dalla presenza di alberi e detriti di vecchie piene. Per anni, persino decenni, un fiume può non presentare delle criticità e per questo motivo può risultare poco pericoloso ai nostri occhi e quindi rimanere trascurato.
In conclusione, qualunque intervento verrà preso in considerazione dovrà essere coerente sull’intero territorio: non si può pensare di trattare dei corsi d’acqua con caratteristiche molto simili in maniera diversa a seconda delle scelte di un amministratore piuttosto che di un altro. Da situazioni simili dobbiamo fare come nel passato: imparare. Imparare che senza seri piani di prevenzione i rischi aumenteranno a prescindere dai cambiamenti climatici; imparare che la natura può sorprenderci in qualunque momento.
(da “Astrolabio”, periodico on line degli Amici della Terra)