di Sergio Rovasio
Durante la Seconda guerra mondiale, mentre era sfollato con la sua famiglia da Teramo a Pescara, il ragazzino Marco Pannella conobbe in spiaggia una coetanea di nome Adria, che dopo un po’ di tempo sparì e di lei non seppe più nulla. Era ebrea. Marco ha sempre raccontato questo episodio per spiegare la sua attenzione e sensibilità verso gli ebrei come l’inizio di un percorso che lo vedrà attento, vigile e a volte anche critico verso questo mondo antico, forte, contradditorio, litigioso, umano appunto.
Ottobre 1982, era un sabato mattina, quasi le ore 12, presso la Sinagoga di Roma in pieno Shabbat, durante la cerimonia di Bar Mitzvah per decine di adolescenti, mentre si chiudeva la festa di Sukkot, un commando di terroristi palestinesi dopo aver chiuso gli accessi e le uscite della sinagoga, lanciò tre bombe a mano e sparò con i mitra sulla folla causando la morte di un bambino di due anni e il ferimento di 37 persone. Era un periodo di gravissima ostilità verso gli israeliani e gli ebrei a causa della guerra contro il Libano: poco tempo prima, nel corso di un corteo della Cgil, era stata depositata una bara davanti alla sinagoga. L’unico politico ad accorrere al Ghetto per abbracciare la comunità ebraica fu Marco Pannella. La notizia gli giunse mentre era a una riunione in via di Torre Argentina 18, poco distante. Nel pieno della tragedia fu accolto dalla comunità ebraica con grande affetto, tra pianti, urla, disperazione. Poco dopo arrivò l’allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, che fu l’unico rappresentante istituzionale ai massimi livelli a non avere incontrato Arafat che poche settimane prima si era recato in visita a Roma, ricevuto in pompa magna quasi ovunque.
Pannella, che a Roma in quel periodo teneva lunghi fili diretti notturni su Teleroma 56, sovente faceva confronti tv con il rappresentante dei palestinesi a Roma Nemer Hammad: litigavano sempre, Marco parlava di democrazia e di aiuti oltre che umanitari anche d’informazione ai palestinesi mentre Hammad faceva sempre finta di non sentire le parole «informazione» e «democrazia», come se fossero termini a lui estranei, incomprensibili, sconosciuti. Ecco il grande equivoco e anche la grande menzogna storica di cui ha sempre parlato Pannella, la negazione dell’informazione e della democrazia, ovunque e sempre nei paesi arabi e spesso anche nei paesi occidentali.
Nel 1986 Pannella si recò a Gerusalemme insieme al Premio Nobel Elie Wiesel per sostenere la causa dei Refuznik, gli ebrei russi rinchiusi nei manicomi e nei gulag sovietici. Avital, la moglie di Nathan Sharansky, noto dissidente ebreo russo, che fu arrestato nel 1977 e dopo anni di Gulag fu liberato in cambio di due spie russe, si iscrisse al Partito Radicale insieme a una ventina di ebrei russi. Nel frattempo, a Roma si manifestava per i Refuznik davanti all’ambasciata russa di via Gaeta.
Nel 1988 il Partito Radicale, nel pieno della prima Intifada, decide di tenere i lavori del suo Consiglio federale in Israele (ricordo che, mentre il taxi ci portava all’albergo, se erano di israeliani erano oggetto di lancio di pietre, per questo cercavamo sempre taxi di arabi). Grazie all’aiuto della corrispondente politica del Partito Radicale, la parlamentare Shulamit Aloni, fondatrice del Partito Ratz e leader dei diritti civili, insieme al collega Ralph Cohen, iscritti al Partito Radicale, da sempre dalla parte del dialogo con i palestinesi, è organizzato l’incontro a Gerusalemme. Dato che i lavori sarebbero iniziati di sabato era di fatto impossibile trovare un albergo a Gerusalemme che ospitasse le decine di radicali provenienti dall’Italia per l’assise. Si optò per un albergo in zona araba, bellissimo, ubicato sul monte degli Ulivi con vista spettacolare sulla città vecchia di Gerusalemme. Era un luogo anche storico per essere stato il quartier generale dei giordani durante l’occupazione della Cisgiordania e Gerusalemme est dal 1948 al 1967. Per l’evento furono acquistate alcune pagine sui quotidiani Jerusalem Post, Yediot Ahronoth e Maariv per far conoscere agli israeliani chi erano i radicali provenienti dall’Italia e non solo. In quegli spazi il 18 ottobre 1988 fu pubblicata in inglese e in ebraico la proposta politica di Marco Pannella e del Partito Radicale: “The borders of Israel could become the borders of the United States of Europe (and of the Mediterranean area). Citizens of Israel could become citizens of the United States of Europe in the European Economie Community”. I confini di Israele possono diventare i confini degli Stati Uniti d’Europa (e dell’area mediterranea): “I cittadini israeliani possono diventare cittadini degli Stati Uniti d’Europa nella Comunità economica europea”. Nel testo si proponeva un salto di qualità politico non basato sulla violenza, per promuovere democrazia anche nelle aree non israeliane con l’obiettivo poi di promuovere una federazione di stati democratici con i vicini di Israele affinché si allargassero i confini dell’Unione europea (allora ancora chiamata Cee). La democrazia come obiettivo politico per promuovere la pace oltre i confini di Israele. È evidente che senza questo i conflitti violenti, militari e basati sul terrore avranno sempre la meglio. Questa era l’unica proposta politica basata su qualcosa di concreto, per molti giudicata utopistica e proprio per questo sempre rimasta inascoltata, ignorata, a volte persino osteggiata dalle istituzioni europee, da quelle israeliane, palestinesi, giordane ed egiziane. Pannella spesso ricordava che se solo una piccola percentuale di capitali venisse investita per bombardare con volantini e sistemi innovativi tecnologici la promozione della democrazia nei territori confinanti, ci sarebbe stato ancora oggi qualcosa di diverso dal fanatismo e dall’odio.
I lavori del Consiglio generale a Gerusalemme furono aperti dal sindaco della città, il molto amato dai gerosolimitani Teddy Kollek e videro la partecipazione di ex Refuznik, membri della Knesset arabi e israeliani di diversi orientamenti politici; Marco era preoccupato perché non vedeva concretezza nella sua proposta. Diceva sempre che sarebbe bastato un ordine del giorno e/o una mozione alla Knesset o al Parlamento europeo, o anche una richiesta formale all’Ue che avrebbe almeno scatenato il dibattito ai massimi livelli.
Con Dario Coen, attivista radicale e storico membro della comunità ebraica romana ci recammo ancora a Gerusalemme per incontrare alcuni politici della Knesset per cercare di convincerli ad agire. Apprezzavano la proposta di Pannella ma non ne erano convinti al punto di incardinare una discussione parlamentare o anche solo all’interno dei loro partiti.
«Israelizzare il medio oriente». Durante la seconda Intifada il 9 marzo del 2002 un kamikaze si fece esplodere al Caffè Moment di Gerusalemme, morirono 13 ragazzi e vi furono decine di feriti. Con Marco e altri membri del Partito Radicale ci recammo nel giugno di quell’anno a Gerusalemme per incontrare diversi politici e organizzare due conferenze sulla proposta pannelliana. In Israele furono raccolte oltre 1.500 firme, alla Knesset diverse decine, al Parlamento europeo 42 parlamentari sostennero la proposta. Decidemmo di recarci davanti al Caffè Moment dove Marco Pannella in una cerimonia laica, davanti alla stampa e ai cittadini lesse questo messaggio: «Amiche e amici, fratelli e sorelle, compagne e compagni d’Israele, di Gerusalemme, del mondo della democrazia, del diritto e dei diritti umani, politici, civili anche nel e per il medio-oriente. Sono qui con i miei compagni del Partito Radicale Transnazionale e di Radicali italiani Yasha Reibman, David Carretta, Antonio Cerrone, Sergio Rovasio e Martin Schulthess, sono qui quale deputato del Parlamento europeo, anche a nome e per conto di Emma Bonino, Marco Cappato, Benedetto Della Vedova, Olivier Dupuis, Gianfranco Dell’Alba, Maurizio Turco, anch’essi parlamentari europei. Siamo qui, con voi, per partecipare a questa nuova ripresa della vita, dei suoi diritti, dei suoi ideali, delle sue speranze, dei suoi luoghi di dialogo, di amicizia, di letizia, di pace. Proprio qui dove l’altro medio-oriente quale oggi si manifesta nel segno della violenza, dell’assassinio, dell’odio, del fanatismo, dell’oppressione, dei propri popoli, della negazione dei diritti umani, dalle donne agli uomini che lo abitano, ha fatto stragi di donne e uomini liberi, colpevoli di appartenere a una nazione dove democrazia e diritti vivono drammaticamente assediati, ma vivono e si affermano malgrado cinquanta anni di guerra loro imposti. Noi siamo il solo partito gandhiano, neo-gandhiano, nonviolento, transnazionale, impegnato per la globalizzazione della democrazia, della libertà, dei diritti umani, civili, politici. Per questo siamo con voi, fra di voi, vostri. Parte anche, fra di voi, con coloro che affermano, che sanno, che non c’è pace senza libertà e senza giustizia, e agiscono e lottano di conseguenza. Per noi, essere con voi, con Israele è anche il solo modo che oggi conosciamo per lottare per la liberazione e la libertà di tutte le donne e tutti gli uomini e le donne palestinesi, arabi, islamici, di tutto il medio-oriente. Il terrorismo, il fanatismo fondamentalista, la violenza contro i propri popoli, dei regimi del medio oriente, contro Israele che può essere determinante ed è necessario per una rivoluzione democratica, laica, civile, di quei paesi, vanno combattuti senza sosta e senza remore, senza quelle che furono le tragiche illusioni di poter vivere in pace con i nazismi, i fascismi, i comunismi, i fantasmi che hanno sterminato centinaia di milioni di individui nel secolo passato, e continuano a farlo, o a prepararlo, a tentarlo. Politicamente va perseguita la israelizzazione del medio-oriente, per la vita e la libertà di tutte le persone che lo abitano. Questo noi vogliamo e dichiariamo di volere, anche con la nostra battaglia per quattrocento milioni di europei e dei loro stati indipendenti. Stasera siamo con voi perché è necessario, giusto, urgente, non mutare la propria voglia di vivere per paura della morte. È quello che le organizzazioni che si esprimono anche con il terrorismo vorrebbero: ottenere che facessimo olocausto del nostro vivere prima ancora di rischiare di perderlo in caso di loro vittori. Invece stiamo qui, nel ricordo, nella memoria, dei nostri cari assassinati, a brindare insieme alla nostra amicizia, alla letizia, alla convivibilità in e di Gerusalemme e in e di Israele”.
Con Yasha Reibman, storico radicale di Milano, consigliere regionale della Lombardia, vicepresidente e portavoce della comunità ebraica di Milano, alloggiavamo tra il Ymca e il King David Hotel (uno di fronte all’altro). Eravamo impegnati a organizzare a Tel Aviv e Gerusalemme le due conferenze del Partito Radicale per tema «Israele nell’Ue e per la promozione della democrazia nei paesi confinanti». Il King David è il più importante e storico albergo della città, a pochi metri dalla Porta di Giaffa una delle porte di ingresso alla città vecchia di Gerusalemme, anche questo luogo storico per essere stato il quartier generale del mandato britannico prima della proclamazione dello Stato di Israele nel 1948. Andavamo a fare colazione al King David dove ci incontravamo con Fiamma Nirenstein e Marco Pannella per fare il punto sugli aspetti organizzativi. Durante una di queste riunioni Fiamma chiamò Oriana Fallaci a New York e le spiegò perché eravamo lì. Oriana si commosse in vivavoce ricordando di quando sostenne le liste del Partito Radicale nel 1976, Marco avviò una discussione dicendole che era stata anche candidata in quella tornata elettorale, lei diceva di no, che era solo sostenitrice, da lì nacque una discussione con reazioni anche divertenti su chi non ricordava cosa e dopo una quindicina di scazzi e battute riprendemmo la riunione. Reibman raccolse decine di firme dei parlamentari della Knesset su un documento in cui si auspicava che Israele entrasse a far parte dell’Unione europea, questo pose le basi per organizzare un importante convegno anche a Bruxelles. Le firme furono una ventina di su 120 membri, i parlamentari che sostennero la proposta erano di area pacifista (Mossi Raz, leader di Shalom Acshav, parlamentare del Meretz), laburisti (Colette Avital, braccio destro di Shimon Peres, allora i laburisti erano al governo), del partito laico Shinui di Tommy Lapid e del partito di destra Likud (Sheetrit). In quell’occasione Pannella fu ricevuto dal presidente dello stato ebraico Moshe Katsav al quale riuscì a illustrare il proposito politico del suo viaggio. L’accoglienza del presidente fu sorprendente, disse che condivideva la proposta del Partito Radicale ma non toccava a lui agire di conseguenza. La missione della delegazione si concluse con l’intervento di Pannella al Congresso mondiale sionista che si teneva in quei giorni a Gerusalemme. Era la prima volta che un non ebreo interveniva in quell’assise. Sollecitò la classe dirigente e l’opinione pubblica sull’obiettivo promosso dal Partito Radicale di una piena e immediata adesione di Israele nell’Unione europea.
Ai «fratelli sionisti» Pannella ha rivolto un’esortazione a non considerarsi più come «le vittime designate» di olocausti passati: al contrario la missione per il popolo ebraico è quella di realizzare «l’israelizzazione di tutto il medio-oriente», sconfiggendo le dittature e i fondamentalismi, con l’affermazione della democrazia e della laicità: «La realtà è che Israele rappresenta una minaccia mortale per i regimi fondamentalisti e dittatoriali, Israele è divenuta una metastasi di democrazia e di civiltà in medio oriente e per questo vogliono che sia distrutta. A chi chiede la pace va risposto che non può esserci pace senza giustizia, senza libertà per le donne e gli uomini, anzitutto palestinesi, arabi, medio-orientali. È a costoro, infatti, che va assicurato il diritto e i diritti, giustizia, libertà, progresso sociale e tutto questo, nella regione araba dominata da sanguinose dittature, può essere garantito solo da Israele, “testa di ponte della democrazia”.
Nello stesso periodo Reibman partecipò a Gerusalemme alla riunione dei parlamentari ebrei nel mondo facendo approvare dall’Assemblea una mozione a favore dell’allargamento della Ue (e della Nato) a Israele. Le conferenze videro la partecipazione di centinaia di israeliani e di rappresentanti di think tank arabi moderati che abbracciavano la proposta come una soluzione politica possibile. Vi fu poi un viaggio ad Amman e Gerusalemme organizzato dall’Associazione Euro-Med, composta da parlamentari di molti paesi europei e del Parlamento europeo, che si batteva per la democrazia in medio-oriente. Fummo accolti ad Amman dal Re di Giordania e a Gerusalemme dalle massime autorità politiche israeliane alle quali venne proposta una nuova visione politica per il medio-oriente che includesse interventi mirati verso le popolazioni confinanti e non solo quindi basata su interventi militari. Con l’aiuto di Sharon Nizza e la sua capacità organizzativa, nel novembre 2005 tornammo in Israele con Marco Cappato, allora parlamentare europeo radicale, per partecipare al 2° Gay World Pride di Gerusalemme, promosso da partiti e organizzazioni laiche. L’intento era quello di rilanciare le campagne storiche dei radicali sull’affermazione dei diritti civili in un paese che ha sempre avuto una forte influenza e commistione religiosa nella politica, in contrasto con i valori di libertà e democrazia per tutti. La manifestazione fu rinviata per motivi di sicurezza ben tre volte ma la Corte suprema impose al governo il diritto di manifestare nonostante le forti opposizioni di parte della politica e dei gruppi religiosi che per la prima volta miracolosamente si erano uniti (ebrei, musulmani e cristiani) contro l’iniziativa. Le due principali associazioni lgbt israeliane Agudah e Open House aiutavano e ancora aiutano i ragazzi palestinesi gay a trovare rifugio in territorio israeliano. Per motivi di sicurezza la manifestazione si tenne dentro lo stadio della città e non per le strade. A Gerusalemme incontrammo alcuni esponenti di due think tank palestinesi, piuttosto isolati ed emarginati che lavoravano con diversi team per proporre alternative di dialogo con Israele. A Tel Aviv incontrammo ancora Natan Sharansky lo storico dissidente russo e Tommy Lapid, leader del Partito Shinui, figura politica molto amata tra i giovani, seppur politico controverso, che da sempre si era battuto per tenere separata la religione dalla politica israeliana. La proposta di Marco Pannella e del Partito Radicale nel corso degli anni ha avuto occasioni di incontri e confronti e di rilancio senza che mai qualsiasi istituzione europea o medio orientale l’abbia presa in considerazione, nonostante il sostegno che i cittadini hanno dimostrato nei rarissimi sondaggi svolti nel corso degli anni. In Israele nel 2003 l’Ufficio di rappresentanza della Commissione europea rese noto il sondaggio svolto in Israele tra febbraio e dicembre di quell’anno dal Dahaf Polling Institute con il 60 per cento degli israeliani favorevoli alla proposta di ingresso nell’Ue. Anche in Europa, nonostante l’indifferenza delle istituzioni e la totale mancanza di informazione, il sondaggio fatto tra i cittadini europei dal Centro Konrad Adenauer nel 2010 diede risultati sorprendentemente positivi con oltre il 69 per cento favorevoli alla proposta. Al Parlamento europeo i parlamentari radicali sin dal 2003 hanno denunciato in diverse occasioni di come i finanziamenti dell’Unione europea per aiutare i palestinesi andassero in realtà a finire in conti dell’Arab Bank di Gaza senza che nessuno rendicontasse sul loro utilizzo e con la scoperta che parte di essi serviva a finanziare i terroristi di Hamas. Altra questione denunciata in modo insistente riguardava gli osservatori Osce e dell’Unione europea che non denunciarono il fatto che alle uniche elezioni svoltesi a Gaza nel gennaio 2005 il gruppo politico Hamas, che vinse contro il gruppo più moderato Fatah con uno scarto del 3 per cento, era armato e in ogni angolo dei seggi elettorali. I moderati furono arrestati o uccisi o cacciati dal territorio di Gaza.
Marco Pannella ha sempre ricordato che quasi la metà degli israeliani ha o potrebbe avere per diritto il passaporto europeo. Non può mancare quanto di più importante Pannella ha proposto e insegnato: il grande equivoco di chi chiede sempre a gran voce «due popoli – due stati», affermando innanzitutto «Due-tre popoli – due-tre democrazie». Le democrazie tra di loro non fanno guerre. E già questo dovrebbe far capire come un conflitto andrebbe risolto: una delle parti in guerra è solitamente una dittatura o un’entità terroristica da cui occorre difendersi, sempre. La vera pace la si può trovare solo con un accordo tra paesi democratici e questa è la base della proposta lanciata sin dagli anni 80 da Marco Pannella aprendo la strada a quei paesi confinanti solo in un contesto di avvio di un processo democratico: Stati Uniti d’Europa e d’America, allargamento ai paesi democratici del Mediterraneo dei confini europei e Community of Democracies (paesi democratici alleati) contro paesi dittatoriali o entità statuali gestite da organizzazioni terroristiche. Ciò consentirebbe di difendere i popoli, i cittadini e l’affermazione dei loro diritti civili e umani contro i tiranni, i violenti, i terroristi che si oppongono a tali processi. Se solo una parte delle spese per armi venisse destinato a promuovere la democrazia forse non ci troveremmo oggi in questa pessima situazione. Il Partito Radicale ritiene fondamentale rilanciare e sostenere la Community of Democracies, composta da stati democratici, in alternativa alla forzosa unità dei paesi democratici e dittatoriali che produce violenza e un’economia fatta di ricatti, veti e alleanze antioccidentali. L’organismo è già esistente ma non sufficientemente sostenuto dai paesi democratici per proporre, dopo quanto è successo in Ucraina e in Israele, nuove strategie geopolitiche da parte loro.
(da Il Foglio)
di Alan Dershowitz
Tra i vari gruppi che si sono schierati a sostegno di stupri, decapitazioni, roghi di persone vive, omicidi di massa e rapimenti di ebrei ad opera di Hamas ce ne sono alcuni che pretendono di parlare a nome di gay, ebrei, femministe e progressisti. Se qualcuno di questi gruppi dovesse effettivamente recarsi a Gaza, verrebbe ucciso da Hamas. Hamas non tollera i gay, gli ebrei, le femministe e i progressisti. Infatti, fra le persone decapitate, violentate, assassinate e rapite (il 7 ottobre) c’erano gay, ebrei che sostenevano i palestinesi, femministe, progressisti e non-ebrei. A Hamas tutto ciò non interessa. Se sei ebreo o israeliano o semplicemente sei d’intralcio, sei nel mirino della loro barbarie.
Perché così tante persone appartenenti a gruppi che Hamas cerca di distruggere sostengono quell’organizzazione razzista? La risposta è chiara: questi fanatici odiano gli ebrei e il loro stato nazionale. Ciò non ha nulla a che fare con il sostegno al popolo palestinese, che è orribilmente oppresso da Hamas. Se davvero volessero sostenere i palestinesi, manifesterebbero per la libertà di parola dei palestinesi, la libertà di stampa, la libertà di non essere usati come scudi umani, di avere giusto processo ed eguaglianza davanti alla legge. E soprattutto per la libertà dal corrotto e repressivo governo dei loro capi, diversi dei quali al momento se ne stanno al sicuro nei loro hotel a cinque stelle in Qatar, lontani dalla devastazione da loro scatenata. E non riflette nemmeno un sostegno in generale a gruppi nazionali senza stato, oppressi o sotto occupazione. Questi fanatici selettivi tacciono sui curdi senza stato, sugli uiguri oppressi e su altri gruppi che meriterebbero il loro sostegno. Si mobilitano solo sui palestinesi, perché li ritengono oppressi dagli ebrei. È l’odio verso gli ebrei, non l’amore verso i palestinesi o altri, ciò che sprona questi fanatici. Non dimentichiamo che le manifestazioni di sostegno ai terroristi di Hamas sono iniziate prima ancora che Israele reagisse alla barbarie di Hamas. Erano dimostrazioni a sostegno di ciò che Hamas aveva fatto ad ebrei innocenti: stupri, decapitazioni, omicidi di massa, rapimenti e torture troppo indicibili per essere mostrate. È stata la persecuzione di ebrei a stimolare queste manifestazioni di antisemitismo. In quelle manifestazioni c’erano ben poche critiche a Hamas per quello che aveva fatto. La demonizzazione più spietata era quella contro Israele per ciò che è: lo stato nazionale del popolo ebraico. Non importa nulla che esistano molti stati arabi e musulmani. E come è tipico di bulli e prepotenti, l’accanimento contro gli ebrei è avvenuto quando Israele era più debole e vulnerabile, ancora stordito dal lutto per la perdita di così tanti civili innocenti.
Tra i sostenitori più ipocriti di Hamas vi sono i “Gays for Gaza”. Bandiere arcobaleno e cartelli che identificano il manifestante come gay sono dilagati durante le manifestazioni antisraeliane che invocavano l’annientamento di Israele. A Gaza, quelle bandiere sono illegali. Chiunque le avesse sventolate sarebbe stato ucciso, come avvenne al comandante di Hamas Mahmoud Ishtiwi, sorpreso a fare sesso con un altro uomo e subito torturato e ucciso. I gay di Gaza cercano asilo in Israele. La città di Tel Aviv è tra le città più aperte al mondo nei confronti dei gay. Ma niente di tutto questo importa a quei gay fanatici: mettono il loro odio per gli ebrei al di sopra della loro preoccupazione per i gay palestinesi.
Ancora peggio è il gruppo erroneamente denominato Jewish Voice for Peace (Voce Ebraica per la Pace) che da tempo funge da copertura per Hamas e altri gruppi terroristici antisraeliani. Sostiene di essere antisionista e di opporsi all’esistenza di Israele, ma molti dei suoi membri e sostenitori sono apertamente antisemiti. Se i suoi membri ebrei (molti non sono ebrei, a dispetto del nome) cercassero di protestare a Gaza, verrebbero assassinati o rapiti. Hamas, come i nazisti, non distingue tra gli ebrei in base alle loro posizioni politiche, come dimostra il fatto che diversi degli ebrei trucidati il 7 ottobre erano apertamente critici nei confronti del governo israeliano e forse alcuni persino del sionismo. Ma questo non importa agli stupratori e decapitatori di Hamas. Per loro, un ebreo è un ebreo, indipendentemente dal fatto che appartengano a Jewish Voice for Peace o al Likud. Poi ci sono le femministe, i progressisti e i sindacati che sostengono la brutalità di Hamas e si oppongono all’esistenza di Israele. Hamas è tra i gruppi più antifemministi e misogini del mondo. Sottomette le donne ai capricci di padri e mariti e tollera, quando addirittura non incoraggia, la violenza domestica contro le donne e i “delitti d’onore” contro donne che a loro avviso “disonorano” le rispettive famiglie. Hamas imprigiona gli oppositori progressisti e non permette l’esistenza di sindacati indipendenti. I suoi membri sfruttano i lavoratori e utilizzano bambini-lavoratori e bambini-soldato. Ma non giunge una sola parola di critica su questo da parte dei fanatici, che sono ben disposti a chiudere gli occhi sul fascismo di Hamas fintanto che Hamas uccide ebrei. Se questo non è antisemitismo, non so cos’altro possa essere definito tale. Sì, anche gli ebrei possono essere antisemiti. Lo stesso possono fare i gay, le femministe, i progressisti, i sindacalisti e esponenti vari dell’estrema sinistra. Hitler era vegetariano. Alcuni alti gerarchi nazisti erano gay. Gertrude Stein, una collaboratrice dei nazisti, era gay ed ebrea. Negli anni ’30, molti studenti e docenti universitari, non solo in Germania ma ad Harvard, Yale, Georgetown e altre università americane, sostenevano la Germania nazista. I nazisti di oggi sono quelli di Hamas. Gli odierni fiancheggiatori del nazismo sono gli studenti e gli altri che sostengono Hamas. La storia li giudicherà nello stesso modo in cui la storia ha giudicato i collaborazionisti nazisti.
di Farrokhi Bahram
La mancanza di comprensione da parte della maggioranza delle persone e degli intellettuali dell’Occidente dell’Islam politico deriva dalla poca conoscenza di due fasi specifiche della vita del Profeta Maometto. Attualmente si sta creando una differenza nella valutazione dell’Islam.
La prima fase della missione di Maometto si svolge nella città della Mecca, dove il Profeta non ha potere politico, si limita a predicare ai politeisti, i versetti e le surah del Corano si concentrano principalmente sulla predicazione, i comandi morali e i principi religiosi.
La seconda fase si verifica nella città di Medina, dove il Profeta ha potere politico e militare, e l’islam progressivamente si diffonde anche attraverso la spada, l’attacco alle carovane e la presa di ostaggi.
In questa fase, i versetti e le surah del Corano si occupano di stabilire leggi islamiche tra i musulmani, di relazioni con altre fedi e della struttura del governo islamico. Le differenze tra i versetti rivelati alla Mecca e Medina riflettono le differenze dell’interpretazione dell’Islam attuale.
L’idea dell’Islam politico, che costituisce la seconda parte della vita di Maometto, è attualmente al potere in Iran e in Afghanistan e queste due nazioni in qualche modo sostengono altri gruppi terroristici musulmani. Gruppi come al-Qaeda, ISIS, Hezbollah, Hamas e il Jihad Islamico in Medio Oriente e Boko Haram in Africa settentrionale, insieme al gruppo Abu Sayyaf nelle Filippine: cercano di acquisire il potere, promuovono un’interpretazione più radicale dell’Islam.
Questa mancanza di comprensione e l’immigrazione incontrollata dai paesi islamici, porta l’Islam politico a minacciare valori occidentali, come la mancanza di rispetto per il sistema politico secolare, le libertà civili, la democrazia e i diritti umani, nonché alla sicurezza pubblica nei paesi europei e americani. Dopo il 7 ottobre, giorno dell’attacco terroristico di Hamas alle città israeliane e la risposta del governo Netanyahu (inclusi i bombardamenti sulla Striscia di Gaza e l’offensiva terrestre per eliminare i criminali di Hamas), sono frequenti le notizie di proteste e manifestazioni contro Israele in diversi paesi nel mondo.
È innegabile che le guerre militari odierni siano accompagnate da una forma di guerra mediatica e psicologica, in cui se una delle parti non presta sufficiente attenzione, in realtà perde la guerra presso l’opinione pubblica mondiale. I paesi occidentali, in particolare gli Stati Uniti, hanno chiuso un occhio per decenni riguardo ai progressi militari del regime islamico e alle violazioni brutali dei diritti umani in Iran, sperando che avrebbe abbandonato il suo programma nucleare. Questo comportamento contraddittorio ha creato un mostro con tante teste che ora evitano di affrontare per paura di incendiare l’intero Medio Oriente.
Il regime della repubblica islamica iraniano, oltre a utilizzare le azioni terroristiche di Haras, il suo gruppo terrorista affiliato per distogliere l’attenzione dalla situazione instabile del regime, cerca di influenzare l’opinione pubblica dei paesi arabi moderati nei confronti dei loro governi.
Nel contesto attuale, gli attacchi terroristici di Hamas dell’ottobre scorso sembrano essere una sorta di servigio nei confronti della Russia per il distogliere attenzione del mondo stremato dalla guerra di Ucraina. Anche la questione dell’ispezione atomica è stata messa da parte e il regime iraniano sta segretamente avanzando nei suoi programmi nucleari. È probabile che in caso di allargamento del conflitto in altri paesi, l’Iran annunci ufficialmente il suo primo test nucleare e sorprenda anche i servizi di intelligence occidentali, come sono sorpresi Shin Bet e Mossad israeliano dall’ attacco terroristico di Hamas.
Il governo Netanyahu non è riuscito a informare l’opinione pubblica mondiale sulle atrocità commesse dal gruppo terrorista Hamas. Inoltre, la questione degli ostaggi è stata trasformata in uno strumento di pressione internazionale, ponendo il governo di Netanyahu sotto osservazione e la pressione del mondo e causa divisioni all’interno di Israele tra i sostenitori del governo di coalizione e le famiglie degli ostaggi che chiedono il loro ritorno a casa.
Non vi è dubbio che, oltre all’essere colti di sorpresa durante l’attacco di Hamas, il governo di Netanyahu ha finora perso la guerra mediatica; cosicché l’opinione pubblica mondiale chiede una «cessate fuoco» e si oppone all’entrata di Israele nella Striscia di Gaza. Fino a quando la comunità mondiale continuerà a incolpare Israele per l’uso da parte di Hamas dei civili palestinesi come scudi umani a Gaza, Hamas continuerà a utilizzare tali tattiche terroristiche e disumane. La lotta costante delle donne e la loro femminilità sono l’antidoto naturale al pus marcio della religione maschile nel corso della storia, in particolare dell’Islam politico, riemerso con il regime islamico e l’Isis, i talebani e Hamas.
Pertanto, lo slogan «Donna Vita Libertà « non è solo uno slogan femminista, Tutti dovrebbero unirsi a questa lotta e a queste rivendicazioni. La difesa dei diritti delle donne non è solo un compito politico temporaneo, è la difesa del processo di evoluzione della civiltà umana. Il fallimento dell’ONU in tanti conflitti del mondo, continuamente bloccato da veti incrociati è sotto gli occhi di tutti. La nomina al vertice della commissione diritti umani di un esponente del regime iraniano, è una vergogna. È arrivato il tempo che i paesi democratici creino una nuova ONU formata da paesi che rispettano i principi della democrazia e i diritti umani.
(trascrizione, non rivista dall’autore, dell’intervento al congresso dei radicali iscritti italiani al Partito Radicale del 3-5 novembre 2023)
di Narges Mohammadi
Il 7 ottobre 2023 l’Accademia di Oslo ha assegnato il premio Nobel per la pace all’attivista iraniana per i diritti delle donne Narges Mohammadi, rinchiusa nel carcere iraniano di Evin. A giugno di quest’anno Mohammadi, che si batte per l’abolizione della pena di morte in Iran, ha scritto e fatto uscire clandestinamente la lettera che pubblichiamo. Il comitato per il Nobel ha affermato che “la coraggiosa lotta di Narges Mohammadi ha comportato enormi costi personali. Il regime iraniano l’ha arrestata tredici volte, condannata a un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate”. Il Nobel le è stato conferito “per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e il suo sforzo per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti”. È nota soprattutto per essere stata portavoce dell’Associazione iraniana per i diritti umani, fondata dall’altra vincitrice del Premio Nobel per la Pace, l’avvocata Shirin Ebadi.
Lo scopo delle mie parole è dare un volto agli esseri umani che, ovunque nel mondo, subiscono una prigionia, tra le mura di un carcere o di un paese oppressivo, e che nonostante tutto aspirano a far cadere questi altri muri: quelli dell’ignoranza, dello sfruttamento, della povertà, della privazione e dell’isolamento.
Sentite in Iran il rumore sordo del muro della paura che s’incrina? Presto lo sentiremo crollare grazie alla volontà implacabile, alla forza e alla determinazione incrollabile degli iraniani.
In quanto donna, e come milioni di altre donne iraniane, mi sono sempre dovuta confrontare con la prigionia imposta dalla cultura patriarcale, dal potere religioso e autoritario, dalle leggi discriminatorie e repressive e da ogni tipo di restrizione in qualsiasi ambito della mia vita.
La nostra infanzia non è sfuggita a questa prigionia culturale. “Loro” non ci hanno permesso di vivere la nostra giovinezza e, in una parola, la nostra vita. La triste verità, in fondo, è che il governo autoritario, misogino e religioso della Repubblica islamica ci ha rubato la vita. Da una parte e dall’altra delle mura del carcere di Evin, dove siamo state imprigionate, non siamo rimaste immobili, In quanto donne, a volte sole e senza sostegno, spesso travolte da accuse e umiliazioni, abbiamo spezzato a una a una le nostre catene fino a quando è nato il movimento rivoluzionario “Donna, vita, libertà”. Allora abbiamo mostrato la nostra forza al mondo.
Al liceo ho studiato matematica e fisica, poi ho proseguito all’università gli studi di fisica applicata. Sono diventata ingegnera. Tuttavia, a causa del mio impegno per i diritti umani, la mia formazione e la mia carriera si sono scontrate con “il muro dell’ostruzione”. Ho fatto la giornalista ma, per ordine della guida suprema della Repubblica islamica e dopo la chiusura dei mezzi di informazione indipendenti, i nostri giornali e le nostre riviste sono finite sotto il “muro della censura” e la nostra libertà d’espressione è stata imbavagliata.
Sono diventata portavoce del Centro per la difesa dei diritti umani, per partecipare alla formazione in Iran di un grande movimento associativo e tentare di dare corpo a una società civile, organizzata, reale e forte.
Ahimè, queste organizzazioni si sono scontrate con la barriera innalzata dalle autorità, dopo attacchi ripetuti delle forze di sicurezza, sostenute dai servizi segreti e dai guardiani della rivoluzione. Ho protestato e lottato contro le politiche distruttive e repressive, al fianco di migliaia di manifestanti e oppositori che sono stati anch’essi accerchiati dalle mura della prigione, dell’isolamento e della tortura.
Infine, sono diventata “madre”, ma da molto tempo tra me e i miei figli si è levato il “muro dell’emigrazione e dell’esilio forzato”, come per centinaia di migliaia di altre madri che soffrono l’allontanamento dei propri figli. Mi mancano le parole per descrivere questa maternità rimasta dietro “il muro della crudeltà e della violenza”.
Nonostante questa prigione in cui ci troviamo non abbiamo mai smesso di batterci. Siamo diventate madri e padri universali, abbiamo conservato i nostri valori, il nostro entusiasmo, il nostro amore, la nostra forza e la nostra vitalità, abbiamo ricreato la vita vera.
Anche se ostacolate da tutte queste serrature, siamo state capaci di far emergere il potere di chi si oppone e la forza della contestazione. Il nostro impeto ci ha portato più in alto dei muri che ci opprimono e ora siamo più forti e solide di loro. Se le nostre sbarre sono l’immobilità, il silenzio e la morte, noi siamo movimento, eco e vitalità, ed è qui che si disegna la promessa della nostra vittoria.
Il governo della Repubblica islamica nega i diritti fondamentali alla vita, alla libertà d’opinione, d’espressione e di religione; il diritto a praticare la danza e la musica, e perfino il diritto all’amore. Se guardate con attenzione la società iraniana vedrete che ciascun individuo, in ogni momento della sua vita e in ogni luogo, è colpevole del desiderio di vivere. Rischia per questo reato le sanzioni peggiori, di essere punito, umiliato, arrestato, tenuto in carcere e perfino di essere condannato a morte.
Ognuno di noi è diventato un oppositore al regime. Il mondo è testimone delle proteste in Iran e della creatività del movimento, che ogni giorno inventa nuove forme di mobilitazione. Questo movimento conduce a una transizione che passo dopo passo allontana la Repubblica islamica e ci porta verso la democrazia, l’uguaglianza e la libertà. Il ruolo dei mezzi di comunicazione indipendenti, della società civile, delle organizzazioni per i diritti umani, in tutto il mondo, è cruciale in questa lotta.
Care lettrici, cari lettori, la pubblicazione di questa lettera dimostra che la nostra voce è abbastanza potente da raggiungervi. Siete anche voi la nostra voce, trasmettete il nostro messaggio di speranza, dite al mondo che noi non siamo dietro queste mura per nulla e che ora siamo più forti dei nostri aguzzini che usano tutti i mezzi possibili per mettere a tacere la nostra società. Questa voce risuonerà nel mondo. Questo orizzonte ci motiva e ci rallegra. Trionferemo insieme. Sperando di veder arrivare molto presto quel giorno.
Carcere di Evin, Teheran, giugno 2023
di Carla Rossi
È un venerdì, il 18 novembre 1977: Bruno de Finetti (BdF) viene arrestato, con denunce per ‘associazione a delinquere’ e per ‘istigazione di militari alla disobbedienza’. Si parlava di obiezione di coscienza rispetto all’obbligatorio servizio militare con articoli pubblicati sulla rivista Notizie Radicali, di cui BdF aveva accettato di essere direttore.
Questo aveva permesso a un magistrato romano, Antonio Alibrandi di denunciarlo per associazione a delinquere, dato che era direttore ufficiale di un giornale non essendo iscritto nel registro dei giornalisti come richiede la legge; mentre, gli articoli pubblicati, che parlavano di obiezione di coscienza, incoraggiando la possibilità a farne uso, avevano suggerito ad Alibrandi la denuncia per ‘istigazione di militari alla disobbedienza’, mentre l’obiettivo era di arrivare a leggi adeguate in merito.
Il professor de Finetti era stato negli anni recenti professore ordinario di Calcolo delle Probabilità della Sapienza Università di Roma, ed era in pensione da appena un anno, essendo nato il 6 giugno del 1906. L’arresto avvenne, su appuntamento, davanti all’Accademia dei Lincei in occasione della prima riunione annuale dell’accademia di cui era membro. Nei pochi giorni precedenti era rimasto nascosto in ‘contumacia’.
La descrizione della giornata si trova su diversi giornali disponibili tutti e riportati su ‘galleria’ in http://www.brunodefinetti.it/index_it.htm. Purtroppo, pur essendo Bruno de Finetti il mio Maestro, con cui lavoravo da diversi anni, non ero potuta andare con gli altri radicali all’appuntamento perché proprio quel giorno, essendo impegnato nella seduta di laurea come relatore di un giovane, con media molto alta che mirava alla lode, e dato che avevo contribuito nel seguirlo, de Finetti mi aveva nominato ufficialmente sua supplente e quindi non potevo mancare alla seduta di laurea. Ho avuto poi varie occasioni in cui mi sono stati raccontati direttamente particolari di quel giorno. Ma chi era Bruno de Finetti? E come mai si unì a Marco Pannella nel Partito Radicale?
È stato ed è un grandissimo matematico, non solo del XX-simo secolo. Ancora oggi da molte parti del mondo, matematici, ma non solo, cercano nelle Biblioteche di Roma e di Pittsburgh, dove sono principalmente raccolti i suoi scritti, anche grigi, di leggere, o farsi tradurre, i suoi lavori, fin dai primi, quelli del 1926, quando aveva 20 anni. I primi lavori di de Finetti, quelli fondamentali per la nuova impostazione del Calcolo delle Probabilità, furono scritti in italiano.
Per spiegare meglio chi era comincio con una sua citazione su sé stesso del 1981, in occasione di un convengo per i suoi 75 anni all’Accademia dei Lincei:
«Chi sono?», la prima cosa che mi sembra di dover dire come punto di partenza è che di me stesso, come persona qualunque, m’importa assai di meno che di ciò che attiene al benessere collettivo, all’equilibrio ecologico secondo la linea tenacemente difesa da Aurelio Peccei, al progresso sociale e civile secondo la linea ispirata a Lelio Basso (membro tra l’altro del tribunale Russell); linea cui vorrei che tutti mirassero per aver diritto a goderne quanto a ciascuno può ragionevolmente spettare. Uno per tutti e tutti per uno, senza eccessive differenze o rivalità tra individui o classi o nazioni: rivalità utili soltanto se mirano a migliorare ovunque il benessere collettivo anziché curarsi soltanto di quello egoisticamente (e miopemente) individuale o settoriale o classista. Quanto al mio modo di pensare, di prospettarmi i problemi ed esporre le mie tesi, dirò che cerco sempre di rendere quanto più possibile chiari e semplici e «naturali « e «intuitivi» – magari presentandoli in modi concreti e divertenti – i concetti e i ragionamenti in ogni campo e , ovviamente , soprattutto in quello della probabilità che particolarmente mi interessa, e che è, purtroppo, una delle nozioni più esposte al rischio di velleitari fraintendimenti e distorsioni e addirittura travisamenti di ogni peggior specie”.
Come è evidente de Finetti si è sempre speso per lavorare su cose legate al benessere collettivo. Da questo è anche abbastanza naturale il suo legame con Pannella e il rischio accettato nella direzione di Notizie Radicali su cui pubblicare articoli sul ‘benessere collettivo’, come quelli sull’obiezione di coscienza.
Un altro aspetto tipico di de Finetti era l’interesse incredibilmente ampio per ogni aspetto scientifico, con particolare amore per la Matematica e, in particolare, per la Probabilità. E un suo modo di vedere la ‘vita’ era saper ‘prevedere’ andamenti futuri, un po’ come Pannella. Dipendeva dall’attenzione reciproca con cui si ‘guardavano’ (studiavano) gli andamenti passanti e presenti e il contesto al ‘contorno’
Nel 2000, quando fui invitata ad un convegno internazionale a Trento, città amata e vissuta da de Finetti, e fui proprio io ad aprire la prima giornata in onore di de Finetti, presentai un lavoro che spaziava sui suoi campi, anche meno matematici, e intitolai lo scritto: “Bruno de Finetti: the Mathematician, the Statistician, the Economist, the Forerunner”, (Bruno de Finetti: il matematico, lo statistico, l’economista, il precursore).
Iniziava con la citazione del matematico Karl Weierstrass:
“A Mathematician who is not also ‘a poet’ is not a good Mathematician”.
Questo credo che sia curioso per la maggior parte degli italiani, che amano in pochi la matematica perché in realtà mediamente non la conoscono affatto.
Tornando a de Finetti, avrei moltissime cose da dire a vari livelli e, per rappresentare al meglio tutti i suoi aspetti e le sue qualità, nel lavoro di Trento conclusi con un grafo in cui riportavo tutti i suoi aspetti e le sue qualità in modo da riassumere in una pagina tanti concetti e idee, che non sarebbero entrati in più di 100 pagine.
Riporterò ora solo alcuni aspetti particolari di de Finetti, che pochi conoscono, utilizzando in gran parte le sue citazioni, chissà che qualcuno non si incuriosisca veramente per la matematica. Parlando di Probabilità nel 1932-33 scrisse nelle dispense di Trieste:
“Dice un’antica sentenza latina, “tot capita, tot sententiae”; in nessun campo essa è tanto vera quanto nella teoria delle probabilità, e fin dai principi, fin da questa stessa domanda sul significato della probabilità. Tuttavia, fra un matematico che la definisca come rapporto tra il numero di casi favorevoli e possibili, uno statistico che la interpreti come un valore più o meno ideale della frequenza, e l’uomo della strada che dica “è la sensazione che mi guida in tutta la vita”, non esito a dire che la risposta migliore, più completa, più sensata, è proprio quella dell’uomo della strada”.
Preoccupandosi di rendere chiaro a tutti il significato di Probabilità face qualcosa che, secondo me si dovrebbe rifare in ogni scuola, coinvolgendo allora studenti e docenti dell’Università.
“...Col medesimo intento di imparare ad usare valutazioni di probabilità, di abituare le persone a pensare e ragionare (e conseguentemente, comportarsi) in base a valutazioni (ragionate, ma naturalmente soggettive) di probabilità, è stato ripetuto per diversi anni alla Sapienza Università di Roma un esperimento di pronostici probabilistici con riferimento ai risultati delle partite del campionato di calcio (…) secondo il mio punto di vista l’esperienza era educativa perché non solo non era basata sul banale e antieducativo malvezzo del “tirare a indovinare” (come al Lotto e al Totocalcio), ma, al contrario, obbligava a indicare la probabilità (dei possibili risultati) numericamente (p1, p2, pX ).
Purtroppo, i documenti originali sono a Pittsburgh, si possono solo copiare:
“Esperimento valutazioni probabilità
Sarà effettuato per le partite del girone di ritorno del campionato di calcio, Serie A, o comunque per le partite incluse nei primi nove posti delle schede SISAL dal 5/2/61 alla fine del campionato (incluse eventuali giornate con partite internazionali o simili).
Potranno prendervi parte gli studenti del corso di Matematica attuariale, ed eventualmente altri, compatibilmente col volume del lavoro di spoglio-conteggio che sarà fatto con la calcolatrice 610 se ciò risulterà pratico (altrimenti a mano su dati arrotondati in base a una tavella). I partecipanti potranno accordarsi per raccogliere una quota da ciascun partecipante, per formare dei premi da distribuire in base al punteggio finale alla chiusura dell’esperimento. Di tale eventuale parte finanziaria.
I partecipanti potranno accordarsi per raccogliere una quota da ciascun partecipante, per formare dei premi da distribuire in base al punteggio finale alla chiusura dell’esperimento. Di tale eventuale parte finanziaria si occuperanno essi stessi. L’istituto ha interesse esclusivamente all’esperimento del metodo di espressione delle opinioni riguardo alle probabilità, e fornirà il punteggio finale indicando come, in base ad esso, un eventuale fondo vada ripartito fra i migliori risultati (si può fare o in proporzione al risultato finale, oppure – per avere distacchi più significativi – in proporzione alle eccedenze sul punteggio medio, per quelli solo che lo superano: ciò dovrà essere deciso dai partecipanti) –
Modalità del “pronostico”.
Non si tratta propriamente di pronostici ma di valutazioni di probabilità. Ogni partecipante riempirà ogni settimana una e una sola schedina (usando quella del Totocalcio) indicando per ciascuna delle prime nove partite la probabilità che attribuisce ai tre risultati 1-X-2 (vittoria in casa – pareggio – vittoria esterna), espresse in % con numeri di due cifre (p.es. 46 33 21 significa prob. di “1”,46%; di “X”, 33%; di “2”, 21%). Indicare i tre numeri nelle tre coppie di colonne a destra in ciascuna delle tre sezioni (Figlia, che sarà restituita per ricevuta; spoglio che rimane al raccoglitore; Matrice che va al Centro elettronico per l’elaborazione).
La somma dei tre numeri deve dare 100 (eventuali istruzioni diverse saranno date in seguito se per l’elaborazione risultasse opportuno limitare le scelte o allargarle p.es. ammettendo solo i numeri terminanti in 0 o 5, come 45, 35, 20 anziché 46, 33, 21, oppure anche numeri con somma 99 o 98 che andrebbero automaticamente interpretati come aumentati ciascuno di 1/3 o 2/3).
Ogni partecipante avrà un suo numero progressivo, e lo indicherà in ogni sezione della scheda (nel posto libero delle partite 10-13.
MODALITÀ DEL PUNTEGGIO
Per ogni partita, da zero a 10.000 punti, in base alle probabilità distribuite ai due risultati non verificatisi: detti m ed n i due numeri esprimenti tali probabilità in %, il punteggio sarà:
10.000 – (m+n)2 + mn.
(Geometricamente: è il quadrato della distanza fra la valutazione prescelta e il risultato effettivo)
Roma, 2 febbraio 1961
B.de Finetti.
16° La quota di L.2.000 verrà ripartita settimanalmente nella misura di L.90, per le venti settimane, che andranno a formare il monte premi settimanale; il rimanente andrà a formare un monte-premi speciale.
Monte premi settimanale: sarà ripartito in proporzione allo scarto del punteggio di ciascun partecipante, da un punteggio fisso di 540 (°) alla settimana. La liquidazione avverrà alla fine dell’anno;
Monte premi speciale: sarà suddiviso alla fine del concorso, sulla classifica finale dei partecipanti, calcolando gli scarti dal livello di 11.000 (°) –
(à) suscettibili di opportuni ritocchi, che saranno tempestivamente comunicati.
TUTTI I CALCOLI RELATIVI AL CONCORSO PRONOSTICI VENGONO EFFETTUATI CON LA MACCHINA CALCOLATRICE ELETTRICE 810 IBM.
Questo esperimento, che è durato diversi anni, è stato fondamentale, sia didatticamente che culturalmente, perché conduce alla comprensione globale dell’approccio soggettivo sulla probabilità.
La probabilità è soggettiva (ciò non toglie che una valutazione di probabilità possa essere anche ampiamente intersoggettiva, per esempio se si gioca a dadi); il soggetto che la valuta ha a disposizione alcune regole di coerenza, contravvenendo alle quali incorre in perdite certamente superiori al minimo possibile, in caso di scommessa. Ogni valutazione di probabilità dipende dall’informazione che si possiede; in altre parole, è una “probabilità condizionata”. L’acquisizione di notizie (nell’esempio: quelle dovute ai risultati delle partite già effettuate; ma anche altre) fornisce ulteriore informazione e permette di modificare la valutazione delle probabilità sugli eventi futuri.
Questo esempio, piuttosto semplice da capire, non ha molto di diverso dalle valutazioni sulle leggi e sulle politiche, come anche quelle diagnostiche in campo medico. Purtroppo, i politici sono profondamente ignari di tutto questo e, per lo più, si limitano a valutare ogni cosa su basi ideologiche. Certo non ha mai fatto questo errore Marco Pannella. Quindi si spiega semplicemente la reciproca comprensione e la stretta affinità tra i due: Marco Pannella e Bruno de Finetti.
Ci sarebbe moltissimo da aggiungere, ma penso che non si debba appesantire troppo questo ricordo, in caso ci si può tornare.
di Gualtiero Donati
Che l’Italia sia un Paese dove la magistratura fa, legittimamente paura, è cosa acclarata. Ormai si può dire: male non fare, paura devi avere. E sono forse da aggiornare le canoniche espressioni: “Sono pochi magistrati quelli che…”, oppure: “Attenzione a non buttare il bambino con l’acqua sporca”, o ancora: “La mela è marcia, ma il cesto nel suo complesso è sano”. Perché le mele marce sono ormai tante; perché ormai non c’è più nessun bambino da salvare e solo tanta acqua sporca e puzzolente.
Non c’è bisogno di scomodare le tante volte, e spesso a cappero, caso di Enzo Tortora; e neppure il clamoroso, inquietante, terrificante caso di Beniamino Zuncheddu di cui sa chi ascolta Radio Radicale segue le iniziative promosse e organizzate dal Partito Radicale. Ci sono anche una quantità di apparentemente piccoli episodi che giustificano la paura di cui si è detto all’inizio.
Si può cominciare da un nome, quello di Ernesto Anastasio, che dirà niente alla maggior parte di chi legge. Si tratta, come è intuibile, di un magistrato. Il Consiglio Superiore della Magistratura, che tra i suoi compiti ha quello di vigilare sul comportamento dei magistrati ed eventualmente sanzionarli se come dice l’articolo 54 della Costituzione non si comportano con “disciplina e onore”, ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio il magistrato Anastasio. Prima di essere sospeso era in servizio presso il tribunale di Perugia. In servizio è una parola grossa, dal momento che ha lasciato ben 885 fascicoli di casi giudiziari chiusi come sentenza, ma aperti perché non ne scriveva le motivazioni. E dunque impediva che si potessero conoscere e fare appello. 885 casi. Ma non finisce qui: perché Anastasio si trova a Perugia trasferito per punizione, in quanto in un altro tribunale, quello di Santa Maria Capua Vetere, territorio ad altissima densità camorristica, ha collezionato ben 214 sentenze non redatte nel merito. Per chiarire: non fai il tuo lavoro, dunque ti punisco; come ti punisco? Mandandoti in un altro tribunale, dove continui a fare quello che facevi prima di essere punito.
Agli ispettori che gli chiedono la ragione di un simile comportamento, Anastasio tranquillamente dice di essere allergico alle sentenze, di sentirsi un poeta; e che dunque con la poesia si diletta, invece di motivare le sentenze. Bellissima cosa la poesia, certamente Anastasio sarà un autore di versi eccellenti. Ma questo non giustifica che sia un pelandrone che non si guadagna il pane che mangia e non svolga il lavoro per cui viene pagato dalla collettività. Ma il fatto ancora più scandaloso, se possibile, è che questa storia va avanti da dieci anni. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha impiegato dieci anni per decidere che Anastasio con il suo comportamento “getta discredito sull’intera amministrazione giudiziaria”. Con rispetto parlando, quei dieci anni di attesa forse gettano discredito anche sul Consiglio Superiore della magistratura, eletto in parte da magistrati, in parte di nomina parlamentare, in parte di nomina del Presidente della Repubblica. Un discredito, dunque che non riguarda il solo Anastasio. Qui si torna al punto di partenza: quello della paura che legittimamente può nutrire un cittadino, o quantomeno la sfiducia e la rassegnazione.
di Ted Baxter
Bellissima, di una bellezza altera e sfrontata, consapevole del suo potere seduttivo; coraggiosa, al limite della temerarietà. Così, chi l’ha conosciuta, descrive Else Ernestine Neuländer-Simon. Nome troppo lungo per una donna pratica che della rapidità fa la sua cifra. Per tutti diventa così Yva, una delle più affermate e talentuose fotografe della Germania a cavallo degli anni ‘20 e ‘30. Di famiglia ebrea, Yva nasce a Berlino il 26 gennaio 1900. Rimasta orfana di padre, è ancora una adolescente quando si deve rimboccare le maniche e contribuire al sostentamento della famiglia. Fotograficamente parlando si forma alla Lettehaus di Berlino, compie il suo tirocinio di 6 mesi in uno studio cinematografico. A 25 anni apre il suo primo studio fotografico; è lì che “nasce” Yva. La fotografia diventa la sua ragione di vita. Si fa conoscere e si afferma nel non facile mondo degli stilisti berlinesi e della moda. Collabora con riviste illustrate e periodici; è di casa a Gebrauchsgraphik, Die Dame, Elegante Welt, Berliner Illustrierte.
Fin da subito le sue fotografie sono ammantate da un’atmosfera misteriosa; i suoi sono ritratti di donne che trasmettono libertà, indipendenza: esplicita sfida e ribellione ai canoni dell’epoca. Il solo fatto che a realizzare quelle fotografie sia una donna è una sfida alle convenzioni. Un’immagine del 1932 si intitola semplicemente: “Donna che legge un giornale”. Una bomba, esplode fragorosa: cosa di più moderno, impertinente, ribelle di una giovane signora che legge un giornale con le quotazioni di gare ippiche? Non c’è ombra di salottiero o frivolo, le splendide gambe accavallate con studiata noncuranza. Lo scatto è un inno all’esser donna, rivendicazione di alterità e superiorità ai pregiudizi.
Espone alla Neumann Nicrendorf Gallery, alla Biennale Internazionale d’Arte Fotografica di Roma; la mostra The Modern Spirit in Photography alla Royal Photographic Society di Londra; La Beauté de la femme… Collabora alle foto-storie Ullstein sulla rivista UHU: produce ventisette storie, venti delle quali pubblicate prima che UHU sia obbligata a chiudere. Il nazismo incombe. Hitler fa chiudere tutte le attività commerciali degli ebrei. Yva e il marito, l’imprenditore Alfred Simon, lui pure ebreo, vanno contro-corrente: ampliano lo studio e assumono assistenti e allievi. Tra loro, un sedicenne alle prime armi. Si chiama Helmut Neuestädter; più tardi si farà chiamare Helmut Newton. Lui.
Nel suo diario Newton racconta l’esperienza di apprendista: «Alfred Simon, suo marito, mi è sempre sembrato un perfetto idiota ed era lui il manager dello studio. Yva faceva foto di moda oltre che ritratti di ballerini, attori e attrici. Curava diversi cataloghi di intimo che a me piacevano tantissimo…Nello studio Yva si comportava come la regista di un film. Gli assistenti preparavano la messa in scena, ma poi era lei a scattare». Nella terrazza dello studio, circondata da allievi stupiti ed ammirati, compie i primi esperimenti di foto a colori. È un’innovatrice, stampa fino a sette immagini su una lastra, crea foto surrealiste, e storie fotografiche. Reinventa l’arte fotografica. Reinventa l’arte fotografica.
La fama di Yva varca l’Oceano. Life vuole le sue immagini. Lei rifiuta. Yva e Alfred si illudono che il nazismo avrà vita breve, non se la sentono di trasferirsi a New York. Tragico errore. Sempre Newton scrive: «…Nel 1935-36 ricevette un’offerta molto allettante dalla rivista «Life», che l’invitava a trasferirsi a New York a lavorare con loro. Alfred era ancora convinto che le cose sarebbero migliorate e la convinse a non partire. Lui non voleva andarsene da Berlino, non parlava inglese e pensava che sarebbe stato impossibile ricrearsi una vita a New York. Io sapevo già che un fotografo non ha bisogno della lingua per ottenere successo perché, se ha una visione unica del mondo e della gente, il suo lavoro sarà ben pagato e ricercato ovunque. Yva possedeva quello sguardo speciale: per questo aveva ricevuto l’offerta dall’America, ma non accettò perché ascoltò i consigli del marito».
Helmut fa di tutto per convincere Yva e Alfred a lasciare la Germania. Niente da fare. Si arrende. Il 5 dicembre del 1938, il giovane parte per Singapore.
Quello stesso anno Yva viene bandita dalla pratica della fotografia, lo studio fotografico chiuso. Alfred diventa uno spazzino stradale, lei è addetta come tecnico di raggi X in un ospedale ebraico. Nel giugno 1942 sono arrestati, qualche giorno dopo uccisi nel campo di sterminio di Majdanek. Prima di essere deportata, Yva cerca di salvare il suo intero archivio di negativi. Pare che in qualche modo sia giunto al porto di Amburgo, ma lì tutto viene distrutto in un raid aereo. Restano stampe dell’epoca e alcune foto originali, una minima parte del suo enorme lavoro. Definita la “fotografa del sogno” scrive nella presentazione di un suo libro: «Quello che conta per me nelle mie foto è liberare l’essenza intrinseca della fotografia da tutti gli abbellimenti alieni e, allo stesso tempo, utilizzare più pienamente le possibilità artistiche della fotografia pura».
Nel 1983, dopo 45 anni, Helmut Newton torna a Berlino, visita lo studio di Yva: «È rimasto tutto come l’ho lasciato. Qui ho trascorso gli anni più felici della mia vita». L’albergo Bogotà non ha avuto fortuna, Rewald è stato costretto a chiuderlo.
A Berlino una pietra d’inciampo che riporta incisi i nomi di Else Yva e Alfred Simon è stata collocata il 29 novembre 2005 fuori dalla loro ultima casa, al 45 della Schlüterstraße.
di Michele Minorita
Il dialogo che segue lo si deve immaginare con la voce e la mimica straordinaria di Nino Manfredi, è parte dell’ultima scena di In nome del popolo sovrano. Manfredi indossa i panni di Angelo Brunetti, più conosciuto come Ciceruacchio. Braccato da pontifici e austriaci dopo l’effimera repubblica romana di Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini e Aurelio Saffi, Ciceruacchio viene infine catturato nei lidi delle Romagne, cercava senza riuscirci, di rifugiarsi nella repubblica veneta.
Austriaco: “Come ti chiami?”.
Ciceruacchio: “Angelo Brunetti, eccellenza, detto Ciceruacchio, gonfaloniere de Campo Marzio e de professione carettiere, se sente da come parlo”.
Austriaco: “Allora perché te sei ‘mpicciato de cose che nun te riguardano?”.
Ciceruacchio: “Perché io so’ carettiere, ma a tempo perso so’ omo, e l’omo se ‘mpiccia, eccellenza. Difatti vie’ Garibardi e dice: ‘Famo l’Italia’, e io che fo? nun me ‘mpiccio? Io so’ romano, eccellenza, ma a tempo perso so’ italiano, è corpa?”.
Austriaco: “Sì”.
Ciceruacchio: “Ah, mo’ è corpa esse italiano?”.
Austriaco: “No, è corpa perché tu hai difeso l’anarchia e la rivoluzione”.
Ciceruacchio: “Ma nossignore eccellenza, io ho difeso Roma, er paese mio e lei ce lo sa mejo de me. Ma come? I Francesi me pijano a cannonate e io nun me ‘mpiccio? nun me riguarda? Insomma, eccellenza, se annamo a strigne, ch’avemo fatto de male? ‘sta creatura manco a dillo, ma io? Io ch’ho fatto? Ho voluto bene a Roma, embè? e da quanno in qua l’amor de patria è diventato un delitto? Però se nella legge vostra è un delitto vole’ bene ar paese propio, allora io so’ corpevole, anzi so’ reo confesso, e m’offennerebbe pure se me rimannaste assorto, percui, eccellenza, spero che lei se sia persuasa, e così voi che me sembrate… oooh, ma me state a senti’? No, dicevo, spero che pure voi ve sete appersuasi…”.
Austriaco: “Achtung!”.
Ciceruacchio: “Ma che fate… no! er ragazzino no!”.
Invece sì. Er ragazzino, Ciceruacchio ed altri patrioti fucilati senza troppi complimenti assieme a Ugo Bassi, il religioso a cui è intitolata una via centralissima di Bologna, chissà quanti di coloro che vi transitano sanno la sua storia e triste fine.
Per tornare a In nome del popolo sovrano: è parte di una trilogia dedicata alla Roma ottocentesca, a cavallo del papa re e gli ideali del Risorgimento; Nell’anno del Signore (1969), e In nome del Papa Re (1977) gli altri due atti. In nome del popolo sovrano per essere realizzato attende ben tredici anni!
Sarà un caso. Come un caso che l’autore di questi tre film, Luigi Magni, muore dieci anni fa, il 27 ottobre; e in questo paese, che non perde un anniversario o una ricorrenza, nessuno mostra di accorgersene.
Nato nella centrale via Giulia, cuore di Roma, Magni cresce a Campo de’ Fiori, fra le “vignarole” dei banchi del mercato, all’ombra della statua di Giordano Bruno. Da qui affondano le radici dell’amore che questo grande regista dimenticato nutre per la Roma nobile e insieme plebea, grande e meschina, appassionata, disincantata, “indifferente”. Il punto di riferimento costante (e il debito tranquillamente ammesso) è con Giuseppe Gioachino Belli, di cui conosce alla perfezione gli irriverenti sonetti. Con acribia Magni descrive una Roma come appare nelle illustrazioni di Giuseppe Vasi e Bartolomeo Pinelli; celebra come nessun altro nel cinema la tradizione risorgimentale e laica, cosa che non può che essere vissuta con fastidio e irritazione in un’Italia stretta dall’egemonia politico-culturale cattolica e comunista. Peccato imperdonabile, puntuale scatta la condanna: vieto anticlericalismo. Hai voglia a ribattere che la sua trilogia è “solo” un «ammonimento contro ogni forma di autoritarismo. Una scanzonata storia con motivi drammatici sulle difficoltà di vivere sotto il potere assoluto”.
Magni spiega che lo stimolo per comprendere e raccontare la storia gli deriva dai racconti ascoltati in famiglia: “Cominciai a sentire come un dovere civile ripensare e riproporre la Storia”. Poi vengono le esperienze teatrali con Pietro Garinei e Sandro Giovannini; il lungo apprendistato di soggettista e sceneggiatore in collaborazione con i mitici Age e Scarpelli. Lavora con Mario Monicelli, Luciano Salce, Mauro Bolognini, Camillo Mastrtocinque, Pasquale Festa Campanile, Carlo Lizzani, Alberto Lattuada. Il primo film nel 1968, Faustina; il successivo Nell’anno del Signore gli spalanca le porte del successo: «Ho concentrato tutto su Roma e sul potere temporale che è stato uno dei più assurdi e più inconcepibili della storia umana. Siccome questo potere stava a Roma, questo mi ha dato modo di usarlo come simbolo del potere. Poi da qui può anche essere nata la convinzione che io sono un anticlericale, ma questo non mi rende giustizia perché essere anticlericali non ha senso”.
Di tutta evidenza che ancora brucia il racconto di un Risorgimento popolare e democratico mortificato per far posto a una visione ideologizzata e piegata ai contingenti interessi delle due chiese egemoni. Magni fa suo il motto di Orazio: Ridentem dicere verum: quid vetat?. Figuriamoci: dire la propria verità, e dirla ridendo e irridendo… Inconcepibile.
Nel suo cinema convivono farsa e dramma. Straordinaria la “ballata” ne Tosca di “Tremate lostesso”. Si sorride. E si trema.
Fiorenzo Fiorentini: “Se siete innocenti, se siete dabbene, se siete cristiani devoti ai sovrani, sia pure credenti, fedeli all’altare, tremate lo stesso: cacatevi addosso!”
Popolo: “Ma semo innocenti! Fedeli all’altare!”
Fiorenzo Fiorentini / Gianni Bonagura: “Tremate lo stesso: cacatevi addosso!”
Popolo: “Tremamo lo stesso, cacamose addosso…”
Fiorenzo Fiorentini: “C’ è sempre nell’ombra chi attenta alla pace, chi soffia sul fuoco, chi attizza la brace…”
Popolo: “Tu attenti alla pace? Tu attizzi la brace?”
Fiorenzo Fiorentini / Gianni Bonagura: “Tremate lo stesso: cacatevi addosso!”
Popolo: “Tremamo lo stesso, cacamose addosso…”
Fiorenzo Fiorentini: “Er popolo è boia e cambia gabbana, stasera t’onora, domani te sbrana…”
Popolo: “Stasera m’onori? Tu cambi gabbana! Tu attenti alla pace? Tu attizzi la brace!”
Fiorenzo Fiorentini / Gianni. Bonagura: “Tremate lo stesso: cacatevi addosso!”
Popolo: “Tremamo lo stesso, cacamose addosso…”
Fiorenzo Fiorentini: “Pe’ chi c’ ha er potere, pe’ chi lo detiene nessuno è innocente, nessuno è dabbene!”
Popolo: “E tu sei innocente??? E tu sei dabbene???”
Vittorio Gassman: “Tremate lo stesso: cacatevi addosso!!!”
Popolo: “Tremamose addosso…Cacamo lo stesso…”.
di Giancarlo Governi
Abitavamo a via della Lungara, due passi dal carcere di Regina Coeli, mamma quando poteva mi portava a giocare e a “prendere aria” sul Gianicolo: a quell’epoca un posto meraviglioso, al mattino e nel primo pomeriggio il parco giochi di noi bambini, la sera rifugio delle coppiette e il posto da cui si lanciavano le “palombelle” ai carcerati del sottostante carcere.
Chi aveva qualche cosa da comunicare ai loro congiunti, assoldava dei portatori di voce, gridavano messaggi, tipo “l’avvocato ha detto de buttate a santa Nega”, che voleva dire: “l’avvocato ti consiglia di negare tutto”. Mamma si sedeva su una panchina o su una seggiolina che si portava da casa, e passava tutto il tempo a sferruzzare, io giocavo con gli altri bambini.
Una mattina abbiamo visto una ressa davanti al Palazzo Salviati, dove una volta c’era il collegio militare e il tribunale militare. Una folla prevalentemente di donne vestite di nero, urlavano cose a me incomprensibili, con gli epiteti di assassino e boia.
La mamma cercò di cambiare strada, ma non era possibile e dovemmo passare in mezzo a quella folla. Notai che le donne avevano applicata sul petto una stella, alcune più di una, una signora addirittura nove. Chi sono, domandai, perché strillano, perché quelle stelle. La mamma dovette spiegarmi: erano ebree che avevano avuti congiunti morti, ogni stella un morto nella famiglia.
Si erano radunate davanti al tribunale militare dove si stava processando l’autore di questi infami delitti. Ero troppo piccolo per sapere altro, ma qualche anno dopo capii che quell’episodio che mi aveva così tanto turbato era l’epilogo dell’immane tragedia degli ebrei a Roma, in Italia e in tutta Europa. Stavano processando Kappler, il colonnello delle SS, la famigerata polizia nazista, diretto superiore di Priebke. Kappler stava rispondendo davanti a un tribunale italiano della razzia del Ghetto di Roma del 16 ottobre del 1943, delle Fosse Ardeatine e di via Tasso, una prigione in cui venivano torturati a morte gli antifascisti e i partigiani.
Anni dopo il mio professore di Storia mi fece leggere 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti, il grande storico della letteratura italiana, un ebreo che scampò alla razzia del Ghetto per un puro caso e che, con quel libro scritto a caldo, volle raccontare, quasi in presa diretta, quella tragica giornata in cui vennero deportati 1.024 romani di religione ebraica (molti bambini e alcuni addirittura infanti), prima al campo di smistamento che i nazisti avevano allestito a Fossoli nel modenese, poi nei campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Soltanto dodici fecero ritorno, gli altri morirono di stenti o passati nelle camere a gas e nei forni crematori. Passati per il camino, come dice la canzone di Guccini.
Kappler aveva ingiunto alla comunità ebraica di Roma di consegnare 50 chili d’oro entro due giorni, altrimenti avrebbe preso 200 capifamiglia “in ostaggio”. Gli ebrei rimasti nel Ghetto erano impoveriti dalle leggi razziali fasciste, con enorme difficoltà consegnarono a Kappler l’orrenda gabella, che però avrebbe dovuto bloccare ritorsioni peggiori. Non sapevano che i nazisti oltre a essere belve, erano anche mancatori di parola.
Ma qui lascio parlare Debenedetti: “Una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia, dà il primo terribile annuncio: il comando tedesco ha in mano una lista di duecento capifamiglia ebrei da portar via con tutte le famiglie. “Credetemi! Scappate, vi dico. Vi giuro che è la verità! Sulla testa dei miei figli, ve ne pentirete! Se fossi una signora mi credereste…”.
Non le credono, e la mattina dopo, all’alba, quando la città è ancora addormentata, il Ghetto viene circondato dai camion dei tedeschi, le SS entrano nelle case, ingiungono anche ai vecchi e agli invalidi di prendere le loro cose e scendere in strada. Vengono fatti salire sui camion che si dirigono proprio nel cortile di Palazzo Salviati, dove rimangono per quasi due giorni. Qualcuno disse in attesa di una parola di sdegno del papa Pacelli, che non arrivò.
Quello che colpisce nel libro di Debenedetti è il fatto che nessuno sapeva dove sarebbero andati a finire i 1.024 ebrei razziati quella mattina del 16 ottobre 1943. Nessuno riusciva neppure a immaginare l’orrore dei campi di sterminio, dei forni crematori, delle camere a gas.