Proposta Radicale 19/20 2024
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Saggio

La mia religione

di Lev Tolstoj (a cura di Guido Biancardi)

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Mafia. La verità sul dossier mafia-appalti

Audizione dell’avvocato Fabio Trizzino

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La mia religione

La mia religione

di Lev Tolstoj (a cura di Guido Biancardi)

(di seguito l’ottava parte dell’opera, inedita per l’Italia, de “La mia religione”, di Lev Tolstoj) 

Smettiamo solo di affermare che il male abituale che ci conviene è una verità divina immutabile, ed apparirà chiaramente se ciò che è naturale e adatto all’uomo è la violenza o la legge del Cristo. È naturale sapere che la mia tranquillità e la mia sicurezza così come quella della mia famiglia e tutte le mie gioie e divertimenti sono acquistati al prezzo dell’indigenza, della depravazione e della sofferenza di milioni di uomini, dei patiboli che si vedono tutti gli anni, dei tormenti di centinaia di migliaia di prigionieri e di un milione di soldati strappati alle loro famiglie ed abbrutiti dalla disciplina, da agenti e poliziotti che proteggono le mie distrazioni con dei fucili puntati su uomini affamati; d’acquistare ogni pezzetto di dolce che metto nella mia bocca o in quella dei miei bambini al prezzo delle sofferenze dell’umanità, indispensabili perché io possa procurarmi tali dolcezze; non è forse, al contrario, naturale sapere che quel pezzetto mi appartiene quando nessun altro  ne abbia bisogno e  nessuno soffra per questo? Basta capire una volta per tutte che, data l’organizzazione della nostra vita, ogni istante di gioia, ogni minuto di tranquillità sono acquisiti al prezzo delle privazioni e delle sofferenze di migliaia di persone che sono costrette dalla violenza; è sufficiente capire questo una sola volta per vedere ciò che è proprio alla intera natura dell’uomo, non solamente alla sua natura animale ma anche alla sua natura raziocinante; basta comprendere la legge del Cristo nella sua totalità, con tutte le sue conseguenze, per vedere che non è l’insegnamento del Cristo che si oppone alla natura umana, ma, al contrario, questo insegnamento tutto intero consiste nel rigettare l’inconsistente dottrina della resistenza al male, essa contraria alla natura dell’uomo e che fa la sua disgrazia.

L’insegnamento del Cristo sulla non-resistenza al malvagio sarebbe un sogno! Ma che una parte degli uomini la cui anima pur conosce la pietà e l’amore del prossimo, passi la sua vita da sempre ad inventar roghi, ruote, patiboli, galere, a somministrare le verghe o la frusta, a strappare nasi, a fucilare, a rinchiudere degli uomini in cellule (*celle) individuali, a buttare in prigione donne assieme ai loro bimbi, ad organizzare, in stagione di  guerra, dei mattatoi dove periscono decine di migliaia di persone, a far scoppiare periodicamente rivoluzioni ed a sollevare rivolte come quella di Pugachov; mentre un’altra parte esegue tutti questi orrori ed una terza la passa a sfuggire queste sofferenze ad a vendicarle, questa vita non è  un sogno!

È sufficiente comprendere l’insegnamento del Cristo per vedere che il mondo, non quello che è stato fatto dono da Dio per la gioia degli uomini, ma quello che è stato istituito dagli uomini per la loro stessa perdita, è un sogno, un sogno dei più assurdi, terrificanti, il delirio di un folle dal quale basta risvegliarsi una volta per non ripiombare più in un siffatto incubo. Dio è sceso in terra; il Figlio di Dio, uno delle persone della Santa Trinità, si è incarnato, ha riscattato il peccato d’Adamo. Questo Dio, così come ci è stato insegnato a pensarlo, ha dovuto dire qualcosa di misteriosamente mistico, che è difficile da comprendere e che non è possibile apprendere che a mezzo della fede e della grazia; ora, ecco che le parole di Dio sono così semplici, chiare, ragionevoli. Dio ci dice in tutta semplicità: non fatevi del male gli uni agli altri, ed il male sparirà. È possibile che la rivelazione di Dio sia così semplice? È possibile che non abbia detto che questo? Ci sembra che questo, lo si sappia già tutti; è talmente semplice.

Il profeta Elia, fuggendogli uomini, si era nascosto in una grotta e gli era stato rivelato che Dio gli sarebbe apparso all’entrata di tale grotta. C’era stata una tempesta che spezzava gli alberi. Elia aveva pensato fosse Dio ed aveva guardato, ma Dio non era là. Poi era cominciato un temporale: c’era stato un tuono terribile e dei fulmini. Elia era uscito per vedere se Dio fosse là, ma Dio non c’era. In seguito, un terremoto era cominciato; un fuoco era sorto dalla terra, le rocce si erano fessurate e delle montagne erano crollate. Elia aveva guardato: Dio, là, non c’era. Poi tutto si era calmato ed una leggera brezza si era messa ad alitare sui campi rinfrescati. Elia aveva guardato: Dio era là. 

Era questo il senso di quelle semplici parole di Dio: non resistere al malvagio.

Esse sono semplici, quelle parole, ma esprimono la legge di Dio e dell’uomo, unica ed eterna. Questa legge è eterna a tal punto che, se esiste nella storia un movimento in avanti verso la diminuzione del male, è unicamente grazie agli uomini che hanno compreso la legge del Cristo in tale modo e che hanno sopportato il male in luogo di opporvisi attraverso la violenza. Il movimento verso il bene, compiuto dall’umanità, si effettua grazie ai martiri e non grazie ai boia. dell’anima umana questo costituisce una legge così irrefutabile come quella di Galileo; Come un fuoco non può spegnere un altro fuoco, così il male non può spegnere il male. Solo il bene quando incontra il male senza lasciarsi contaminare da lui, può vincere il male. Nel mondo no, ancor più irrefutabile, più chiara e più completa. Gli uomini possono trasgredirla, possono nasconderla agli altri, ma, malgrado tutto, il movimento dell’umanità verso il bene non può che realizzarsi che su questa via. Ogni passo in avanti sarà compiuto unicamente nel nome della non-resistenza al male. Ed un discepolo del Cristo può affermare, con maggior certezza di Galileo, in vista di tutte le possibili tentazioni e minacce: “e, malgrado tutto, non è la violenza, ma il bene che avrà ragione del male”. E, se questo movimento è lento, lo è unicamente perché la chiarezza, la semplicità, il carattere ragionevole, inevitabile, ed obbligatorio dell’insegnamento del Cristo sono dissimulati alla maggior parte delle persone nella maniera più scaltra e più pericolosa, nascosti sotto una falsa dottrina che viene presentata, a torto, come la vera. Perché dunque gli uomini non fanno ciò che il Cristo ha detto loro di fare, dal momento che questo darebbe loro il bene supremo che essi hanno sempre desiderato e che ancora desiderano? Odo da ogni parte una sola risposta espressa in maniere diverse: “l’’insegnamento del Cristo è bellissimo ed è vero che, se lo si seguisse il regno di Dio si instaurerebbe sulla terra ma è difficile e, dunque, irrealizzabile”.

Ciò che il Cristo insegna sulla maniera con cui la gente deve vivere è divinamente buono e farebbe il bene degli uomini, ma è difficile da realizzare per gli uomini. Ripetiamo ed intendiamo queste parole così sovente da non veder più la contraddizione che vi è ospitata. È nella natura dell’uomo fare ciò che è meglio… Da che l’uomo esiste, la sua attività raziocinante mira ad uscire al meglio dalle contraddizioni di cui è piena la vita di un individuo come quella dell’umanità nel suo assieme.

Gli uomini si battono per la terra, infine essi giungono a dividere tutto e chiamano ciò la proprietà: essi trovano che malgrado tutte le difficoltà che ciò presenta, è meglio così, ed essi mantengono la proprietà; gli uomini si battono per delle donne, abbandonano i loro figli, ma finiscono per trovare che per ciascuno è meglio avere la propria famiglia, e, sebbene sia molto difficile nutrire una famiglia, essi mantengono la società, la famiglia e ben d’altre cose. Ogni volta che gli uomini hanno trovato che una cosa fosse meglio, essi vi si sono conformati, per quanto difficile questo sia potuto apparire loro. Cosa vogliamo dunque dire dicendo: l’insegnamento del Cristo è bello, la vita che ci prospetta è migliore di quella che facciamo, ma non possiamo accettare questa migliore maniera perché “è difficile”?

Se “difficile” vuol dire che è difficile sacrificare la soddisfazione momentanea della propria concupiscenza ad un bene, fosse pur grande, allora, perché non ci diciamo che è difficile arare, per avere del pane? piantare degli alberi di mele per avere dei pomi? Ogni essere dotato di rudimenti d’intelligenza sa che non si raggiunge un bene importante senza dover superare delle difficoltà. Ed ecco che troviamo bello l’insegnamento del Cristo, ma irrealizzabile in quanto difficile. È difficile perché, seguendolo, dovremmo privarci di quel che avevamo prima. Come se non avessimo mai sentito che è talvolta più vantaggioso subire un danno e rinunziare a qualcosa che non subire mai nulla e servire unicamente la nostra concupiscenza. Un uomo può essere bestiale, e nessuno glie lo rimprovererà, Ma l’uomo non deve ragionare dicendo di voler essere una bestia. Dal momento in cui si mette a ragionare egli si riconosce ragionevole e, riconoscendosi tale, non può non distinguere ciò che è ragionevole da ciò che non lo è. L’intelligenza non ci comanda nulla; essa non fa che illuminarci.   

Cercando una porta nell’oscurità io picchio contro il muro con le mie braccia e le mie gambe. Entra un uomo con della luce ed io scorgo la porta. Non posso più, dunque, picchiare contro il muro, ed ancor meno posso affermare che pur vedendo quella porta, e pur pensando che sarebbe meglio servirmene, trovi questo difficile e preferisca continuare a sbattere i ginocchi nel muro. La falsa idea che è all’origine di questo ragionamento è ciò che viene chiamata la fede cristiana dogmatica, quella fede che si insegna sin dall’infanzia a tutti i cristiani nei diversi catechismi ortodossi, cattolici e protestanti. Tale fede, secondo una definizione data dagli stessi credenti, consiste nel riconoscere come reale ciò che è apparente (queste parole, pronunziate dall’apostolo Paolo, sono riprese in tutte le teologie ed in tutti i catechismi come la migliore definizione della fede). È questo riconoscimento come vero di ciò che è apparente che ha portato gli uomini alla strana affermazione secondo la quale l’insegnamento del Cristo è buono per gli uomini ma non conviene loro.

(Segue. Le precedenti tre parti di questo saggio sono state pubblicate su “Proposta Radicale” n.8, 9, 10,13, 14-15, 16-17)

Mafia. La verità sul dossier mafia-appalti

Mafia. La verità sul dossier mafia-appalti

Audizione dell’avvocato Fabio Trizzino

23 maggio 1992: vicino Capaci con una carica composta da tritolo, RDX e nitrato d’ammonio con potenza pari a 500 kg di tritolo, vengono uccisi Giovanni Falcone, la moglie del magistrato, gli uomini della scorta. 19 luglio 1992: a via D’Amelio a Palermo vengono uccisi Paolo Borsellino, magistrato e fraterno amico di Falcone, e la sua scorta. Stragi mafiose, attribuibili alla cosca che faceva capo a Totò Riina. Da allora si è scritto e detto tutto e il suo contrario. Una chiave di lettura non a caso inedita, giudiziariamente affossata, giornalisticamente trascurata, è quella raccontata in quattro libri recenti: M.M., in codice unico del generale Mario Mori (La Nave di Teseo); La verità sul dossier mafia-appalti, sempre di Mori e del colonnello Giuseppe De Donno (Piemme); Ho difeso la Repubblica. Come il processo trattativa non ha cambiato la storia d’Italia, di Basilio Milio (L’Ornitorinco editore); La strage. L’agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio, di Vincenzo Ceruso (Newton Compton).

Chiavi di lettura che hanno trovato uno sbocco istituzionale-parlamentare. La commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso, infatti ha ascoltato l’avvocato Fabio Trizzino, che rappresenta i tre figli di Paolo Borsellino, Fiammetta, Lucia, Manfredi e Lucia. Audizioni importanti, integralmente trasmesse da Radio Radicale. Proposta Radicale dal n.16-17 ha cominciato a pubblicare gli stenografici di queste sedute, non per caso ignorate dalla grande informazione e da buona parte dei “professionisti dell’antimafia”. Quella che segue è la seconda puntata.

 

Seduta di mercoledì 27 settembre 2023

Questa lunghissima premessa era doverosa perché l’analisi di contesto va sempre fatta, altrimenti non riesco a spiegare bene l’importanza della mancata valorizzazione di quel dossier già nel febbraio del 1991. Borsellino, perché ritorna a Palermo? Ritorna e prende possesso il 1 marzo del 1992 del suo ufficio, perché in qualche modo è costretto da due necessità altrettanto valide: ricongiungersi con la famiglia, dopo che dall’agosto del 1986 svolgeva le proprie funzioni presso la procura come procuratore della Repubblica a Marsala: dove ha svolto un lavoro estremamente importante sul fronte sia del contrasto alla mafia criminale, quella militare, che sul fonte del contrasto degli interessi connessi all’illecita gestione degli appalti È un punto fondamentale, tenetelo a mente: Borsellino conosce perfettamente il rapporto ROS perché, rispetto alla fase marsalese, vi sono degli elementi che fanno pensare che Borsellino, avendo una profonda conoscenza del rapporto, avendo egli fatto investigazioni trasferite per competenza poi a Marsala con riferimento al 416 bis, poté sollevare, come ci dicono alcuni sostituti procuratori, delle richieste rivolte al dottor Lo Forte rispetto agli esiti delle richieste di rinvio a giudizio nei confronti di Siino, Li Pera, Falletta, Morici, Cascio e Buscemi Vito. Borsellino ritorna sapendo che ha a che fare con Giammanco. Dice: «Non ho alternative», perché la legge istitutiva della Direzione nazionale mafia e della Direzione distrettuale antimafia, lo costringe ad andare a Palermo: le indagini di mafia vengono accorpate presso la procura del capoluogo del distretto di corte d’appello. Borsellino a Marsala non avrebbe potuto condurre più indagini per mafia; se avesse voluto continuare il suo impegno avrebbe dovuto necessariamente operare da Palermo. Torna e Giammanco gli affida il coordinamento delle indagini sulla provincia di Trapani e Agrigento, mentre il coordinamento delle indagini per la provincia di Palermo viene gestita dal dottor Vittorio Aliquò. È interessante, perché dal verbale di queste audizioni che noi abbiamo scoperto (tenute nel cassetto per quasi trent’anni, non sono state riversate in nessun processo sulla strage di via D’Amelio, benché ci si sia attardati in trent’anni a ricostruire minuziosamente anche i respiri di Borsellino in quei 57 giorni), in questi verbali in cui finalmente abbiamo anche le sue confidenze a magistrati, il suo dolore, i suoi sfoghi; e questi verbali non ci sono stati messi a disposizione. Ecco come li ho scoperti: ne ho trovato traccia nella richiesta di archiviazione della dottoressa Gilda Loforti, con riferimento a una dichiarazione frutto di un cattivo ricordo del dottor Pignatone, con riferimento alla riunione dell’8-10 luglio, in cui Borsellino sarebbe stato informato dell’archiviazione.   pagina 79 di quel verbale Pignatone dichiara che in quella riunione si parlò delle archiviazioni e Borsellino; quindi, ne era al corrente. Piccolo particolare: Borsellino dal 6 al 9 si trovava a Francoforte a Mannheim; poi risiede a Roma fino al 12 luglio. Questo emerge dalla sua agenda grigia ed emerge, inconfutabilmente e oggettivamente accertato, nell’ambito dei processi sulla strage di via D’Amelio. Quindi Pignatone ricorda male: Borsellino alla riunione o dell’8 o del 10 luglio non ci poteva essere: perché era in Germania e il 10 a Roma.

Noi scopriamo questi verbali e troviamo uno scrigno segreto attraverso cui decifrare finalmente tutta una serie di dati che ci erano stati consegnati come acquisiti: si era detto che il procuratore Giammanco ha osteggiato Borsellino con riferimento alla delega per la gestione di Gaspare Mutolo. Tutti hanno detto questo. All’interno di quei verbali trovate la specificazione di ogni singolo passaggio, del dispiacere, dell’amarezza, dell’umiliazione di Borsellino che deve chiedere, lui che aveva fatto il maxiprocesso, una sorta di aiuto a due giovani, Lo Forte e Gioacchino Natoli, di intercedere presso il capo per ottenere finalmente la titolarità di un fascicolo, atteso che Mutolo aveva chiesto di parlare con lui. Vi renderete conto che per noi è stato un colpo. Nelle sentenze si dice: «Va be’, l’ha osteggiato, di qua e di là». Poi leggo i verbali e c’è tutta la descrizione: ha telefonato Lo Forte, ha telefonato Natoli, «Paolo, stai tranquillo, la delega l’avrai!». Ma stiamo parlando di Borsellino… Arriva lì e gli si dice: «No, tu hai bisogno dell’intercessione di Lo Forte o di Natoli per ottenere la delega»! Su questo poi mi attarderò un poco, è molto importante per capire l’umiliazione e l’amarezza di quell’uomo. Mi dispiace: non voglio apparire animato da chissà quale livore, non è così, credetemi, è doloroso. E non c’è sovrastruttura esplicativa che tenga rispetto a delle dinamiche che avvengono all’interno di un ufficio di procura… Ma la realtà dei fatti è che Borsellino l’inferno lo ha vissuto nel suo ufficio! Questo va detto agli italiani. Ripeto: la cosa più grave è che a Giammanco è stato dato il commodus discessus. Giammanco è l’unico magistrato che è stato costretto alle dimissioni per una lettera, firmata anche dal qui presente senatore Roberto Scarpinato, con cui in poche parole lo si costringe alle dimissioni per la sua totale impossibilità di restare in quell’ufficio. Ebbene, Giammanco non è mai stato audito da un sostituto procuratore della Repubblica della procura di Tinebra per dire: «Scusami, cosa è successo? Perché i tuoi sostituti ti hanno mandato via? E soprattutto ci spieghi la telefonata del 19 luglio del 1992 alle sette e un quarto?» Atteso che dimostrerò che quella telefonata non riguardava la delega a Mutolo, che viene finalmente concessa il 18, sabato a Borsellino, ma riguardava finalmente la delega su tutte le indagini del comparto palermitano, donde finalmente potere dare sfogo al piano investigativo volto a vivificare le inchieste di mafia-appalti di cui all’incontro, da vero e proprio carbonaro, alla caserma Carini del 25 giugno del 1992 con il colonnello Mario Mori e con il capitano De Donno.

La signora Agnese Borsellino, il 25 marzo del 1993, dichiara dinanzi alla Corte d’Assise: «Mio marito riceve questa telefonata, i rapporti col dottor Giammanco erano pessimi. La telefonata ha il seguente tenore: non ho dormito tutta la notte, da domani puoi avere le indagini su Palermo così la partita è chiusa». Borsellino chiude il telefono e dice alla moglie: «La partita è aperta e comincia a passeggiare nervosamente per il corridoio di casa». Tenete a mente questa circostanza, perché riuscirò, attraverso il contenuto delle audizioni del CSM del 1992, a dimostrarvi che Borsellino ha dunque la delega su Palermo la mattina dello stesso giorno in cui viene ucciso…

Borsellino molto probabilmente ha appreso sul conto del procuratore Giammanco notizie così terribili che lo portano a interrompere il flusso delle comunicazioni; a venir meno un pochino a quel principio importantissimo in una procura, per cui il procuratore aggiunto deve parlare con il suo procuratore capo; di questo devo dire che Borsellino ne ha parlato col senatore Scarpinato, con Vittorio Teresi e con Antonio Ingroia. Quindi tre magistrati di quella procura sapevano che, con riferimento a un’indagine specifica che collegava l’omicidio Lima alla strage Falcone, Borsellino aveva riferito ad alcuni suoi colleghi che avrebbe gradito in qualche modo, partendo dall’omicidio Guazzelli, che alcune informazioni non arrivassero al procuratore capo. Effettivamente il senatore Scarpinato, nel corso della sua audizione del luglio del 1992, dice una cosa che è giusta, perché si trattava di Borsellino. Ma una cosa del genere non sta in piedi: io non posso stare in una procura – dice – in cui sostanzialmente esistono due procure, sono l’uno contro l’altro armato però bisogna vedere chi ha attaccato e chi ha dovuto difendersi in questa contesa, e chi si è difeso se si è difeso per salvare sé stesso da un pericolo imminente e grave che comunque non è riuscito a evitare, e quindi in pieno stato di necessità. Quello che rimane da questa descrizione cos’è? Possiamo utilizzare tutte le sovrastrutture descrittive del contesto che ha prodotto. Ma, come diceva Manzoni nel capitolo decimo: «La conversa non dovevate cercarla in Olanda, a Meda, ma dentro le mura del monastero». Con questo voglio dire che dentro le mura del monastero vanno cercate le condizioni per la delegittimazione, per creare quelle condizioni che poi possano consentire ad altri di eseguire la strage.

Borsellino è un uomo solo, avversato, costretto a comunicare come un carbonaro; questo non faceva parte del suo bagaglio di conoscenze. Tant’è vero che, quando arriva alla procura dice a Ingroia: «Io so che Giammanco mi osteggerà, ma non ho alternative e poi io mi guadagnerò il mio spazio a poco a poco. Non metterò in atto la strategia di Falcone che ha impattato il Giammanco». Anche se Falcone, lo vedremo analizzando le singole annotazioni del suo diario, aveva motivi, è stato umiliato grandemente da Giammanco davanti a giovani sostituti pure dell’ordinaria.

Allora qui possiamo utilizzare tutte le sovrastrutture ideologiche di grandi sistemi, ma la sofferenza più grande è arrivata anche lì dentro. Allora andiamolo a cercare se Giammanco agiva in nome e per conto di qualcuno. Ma non è più possibile perché Giammanco è morto: ha avuto il commodus discessus sotto ogni profilo. È stato sentito per la prima volta nel 2017 ma, poverino, non era più in grado perché non stava bene. Ho ancora davanti a me la dolorosa immagine del procuratore Tinebra, sentito al «Borsellino quater», che non stava bene, stava malissimo. Potevamo acquisire le dichiarazioni rese nel corso delle indagini ed evitare quella drammatica istruzione dibattimentale con la presenza di un uomo che tutti ricordavamo nel pieno dell’esercizio delle sue funzioni, su cui poi magari ne parliamo perché il depistaggio nasce anche lì. llora di questo dobbiamo parlare: del nido di vipere. Ci tengo particolarmente, perché queste cose non accadano più. Dico che anche l’istituzione magistratuale deve essere pronta a guardare dentro di sé e a quello che ha combinato in quel frangente della storia repubblicana.

Tutti dicono che Borsellino, morto Falcone, sarebbe andato a fare il Procuratore nazionale antimafia, ma nessuno sa che il plenum del CSM, tra il 15 e il 20 giugno del 1992, bloccò qualunque richiesta di riaprire i termini del concorso; disse che Borsellino non aveva titoli e che non avrebbe sopportato l’ingerenza del potere esecutivo rispetto a un concorso che era già sotto delibazione o quasi definito. Il CSM, quando ci sono di mezzo Falcone e Borsellino, è stato velocissimo, sempre. Sempre pronto. Non ho visto in questi anni la magistratura ragionare su come ha in qualche modo cannibalizzato i suoi figli migliori. Non ho mai sentito un mea culpa: «Abbiamo sbagliato, cosa abbiamo combinato, non abbiamo capito niente». Niente di tutto questo.

Quindi, dicevo, Borsellino ha Trapani e Agrigento; non si lamenta, dice: «Va be’, mi conquisterò i miei spazi». Lui arriva il 1, Lima viene ammazzato il 12. Anche lui viene coinvolto con tutti i procuratori aggiunti in quelle che sono le indagini immediate che conseguono a un omicidio di quel tipo. Borsellino però fa delle proposte e il paventato clima di ostilità, che aveva confidenzialmente detto a Ingroia, si esprime in un’assoluta non considerazione della sua richiesta di una rogatoria negli Stati Uniti per interrogare Masino Buscetta, per capire quali erano le evoluzioni legate a questo omicidio. Ricordo come se fosse ieri l’immagine preoccupata di Falcone che dice preoccupatissimo: «Da questo momento può succedere di tutto». Falcone e Borsellino erano talmente in grado di decifrare la realtà, che in quell’intervista Falcone è veramente rabbuiato: sa che sta arrivando lo tsunami. Si lamenta anche Borsellino della inadeguatezza delle indagini patrimoniali, in particolare il patrimonio mobiliare di Lima, dice che non poteva essere quello il patrimonio in termini di depositi.

L’intuizione di Borsellino relativamente all’inadeguatezza delle indagini illo tempore fatte su Lima riecheggerà nella famosa testimonianza di Di Pietro nel processo Borsellino ter, che poi è stata ribadita anche nel processo “Trattativa”, in cui dice che riuscì a trovare nel novembre 1993, in BOT e CCT, 500 milioni che arrivavano da Paolo Cirino Pomicino a Lima. Vedremo, parlando di Mafia-Appalti, la centralità che aveva Lima nel sistema.

Le cose cambiano per Borsellino con la strage di Capaci: a quel punto quelle competenze cominciano a stargli strette. È colpito sul piano professionale, è colpito sul piano umano; soprattutto, ecco il punto, è convinto che Falcone muore, ce lo dirà il 25 di giugno a Casa Professa, perché non si voleva che ritornasse a fare il magistrato a fare le indagini che voleva fare. Vi assicuro che il chiodo fisso di Falcone, e questo risulta, era mafia-appalti. Su questa linea di continuità si pone anche Borsellino. Tanto ciò è vero che indagando su un fatto di sua competenza, che è l’omicidio del maresciallo Guazzelli (avvenuto ad Agrigento, quindi non c’era il problema di dovere in qualche modo chiedere la titolarità del fascicolo, era lui che aveva quella provincia e quindi poteva indagare), man mano che indaga e acquisisce informazioni da Catania da una parte, dall’altra certe informazioni che gli vengono rassegnate dai ROS, apprende di una circostanza che rivelerà soltanto a Scarpinato, Ingroia e Teresi: che Siino e Rosario Cascio si erano recati dal maresciallo Guazzelli per ottenere in qualche modo un trattamento di favore rispetto alle indagini di mafia-appalti. La cosa incredibile è che l’episodio viene collocato ovviamente in un’epoca precedente l’arresto del Siino, che avviene il 9 luglio del 1991. Il rapporto viene depositato il 20: quindi questo episodio si inserisce tra il 20 febbraio e il 9 luglio del 1991. Come faceva Siino a conoscere che vi era la necessità che la sua posizione all’interno del rapporto venisse in qualche modo ammorbidita? Il rapporto doveva essere segreto. È un’annotazione, una comunicazione notizia di reato. Perché lui prende l’iniziativa di andare dal maresciallo Guazzelli insieme a un altro soggetto di un certo spessore come Cascio, per cercare di corrompere il sottufficiale di polizia giudiziaria? Ci dice Borsellino, probabilmente appreso dai colleghi di caserma del Guazzelli, che la reazione di Guazzelli fu talmente furiosa a questo tentativo di corruzione che, uscito da quell’incontro, Siino si sentì male, gli venne da vomitare, e che quindi si rivolse a Lima per cercare di ottenere lì la protezione che gli era stata negata da Guazzelli. La cosa assurda è che tutto questo Borsellino lo racconta senza sapere quello che succederà dopo, quando lui è morto. O forse lo sapeva, suppongo che a questo punto lo sapesse. Perché Li Pera, quando comincia a parlare a Catania con il magistrato Felice Lima, la prima cosa che racconta è: «Guardate che noi sapevamo più o meno tutto il contenuto del rapporto mafia-appalti». Quindi il rapporto fu oggetto di una illecita divulgazione. Su questo c’è stato un procedimento che poi si è definito con un’archiviazione; resta la circostanza che gli indagati del rapporto mafia-appalti fossero a conoscenza delle risultanze compendiate nel relativo rapporto. Allora, dicono Teresi e Ingroia nei verbali della commissione del 1992: «Dato che noi non avevamo mai avuto prima di un anno fa, noi non sapevamo niente di tutto questo. Niente!». orsellino ci dice: «Fatemi una cortesia, per me questa cosa va a Lima, Lima viene ammazzato perché non riesce a garantire attraverso D’Acquisto su Giammanco la copertura su mafia-appalti». Tant’è che Teresi, onestamente, nel dicembre del 1992, nel raccontare questo episodio a Fausto Cardella dice: «No, Borsellino pensava che Lima fosse stato ammazzato perché in realtà non era in grado di garantire l’associazione rispetto allo sviluppo delle indagini su Mafia-Appalti».

Quindi accanto al mancato aggiustamento del processo, accanto al mancato aggiustamento dell’inchiesta mafia-appalti, c’è un motivo più che evidente agli occhi dell’organizzazione per far fuori un amico che non era più in grado di svolgere il proprio ruolo. Ma queste sono intuizioni di Borsellino, non voglio dire che questa sia la verità. Dico che Borsellino aveva delle ipotesi. Queste ipotesi poi rimandano sempre là, a questo benedetto rapporto del ROS. Incompleto, imperfetto, quel che volete: ma Borsellino è convinto che lì vi sia una delle chiavi, se non la chiave, di spiegazione della strategia criminale in corso.

Non si può dire, come ho letto in una sentenza, che è logico ritenere che Borsellino non conoscesse il rapporto mafia-appalti. È un falso storico. Lo trovate in tutti i verbali della commissione del CSM come atti più recenti, ma lo trovate anche nelle sentenze che vi ho citato, lo trovate in «Mandanti Occulti bis», la richiesta di archiviazione del 2003. el frattempo succede che nel 1997-98 si pente Siino, nel 1996 si pente Giovanni Brusca che però  comincia a essere creduto dal 1998 in poi. uello che descrivono Siino e Brusca è: «Noi temevamo che Borsellino si ponesse sullo stesso livello di Falcone e potesse in qualche modo scoprire il nostro disegno egemonico, che era quello di arrivare al potere sedendoci a tavolino e soprattutto contando finalmente qualcosa in seno ai gruppi politici imprenditoriali di rilevanza nazionale e ai grandi politici. Vogliamo arrivare a Roma». Se ci pensate questo è in linea con la descrizione del contesto che vi ho fatto: nel momento in cui il sistema partitocratico crolla, avviene qualcosa che si può chiamare la delocalizzazione, il controllo del territorio è sì importante, ma visto che la società civile continua ad avanzare nel progresso culturale di contrasto, io mafioso so che a livello locale controllerò sempre meno società civile; quindi quello che conta è entrare nel sistema della combine dei grandi affaristi, da lì muovere le vere leve del potere, che sono quelle finanziarie che poi raggiungono anche quello politico. In nuce, tutto questo è perfettamente delineato nel rapporto del ROS del 1991.

Si vedono imprenditori che con un’azione di lobbismo spregiudicato raggiungono Roma, ottengono i finanziamenti rispetto all’ente appaltante: l’ente appaltante appalta opere che non hanno alcun riferimento all’interesse della collettività e, attraverso il meccanismo della perizia di variante, si creano le provviste per tangenti, corruzione e tutto quello che serve. C’è un’intercettazione consegnata nell’informativa Sirap ma le cui trascrizioni erano già nel rapporto del 1991, in cui Mimì La Cavera (consigliere di amministrazione della Sirap, uno degli enti appaltanti) parla con Ciaravino (forse amministratore delegato); La Cavera dice a Ciaravino parolacce a non finire, e poi: «Ho bisogno di 100 mila lire al giorno perché ho i miei lussi e i miei vizi, e n’anticchia a Lima, n’anticchia a Lombardo, n’anticchia a chistu, n’anticchia a quello…”; cioè viene fondamentalmente delineato un sistema per cui la stazione appaltante è totalmente in associazione a delinquere con i politici e con gli imprenditori. Poi c’è la mafia che si inserisce dopo rispetto a un sistema già bello che oleato da anni. È il progetto egemonico di Riina che cambia le carte in tavola, perché la vecchia mafia si accontentava di quella dimensione parassitaria o lavori per conto terzi. Riina ambisce a sedersi al tavolino, cosa molto diversa. Da qui allora le famose cointeressenze con le imprese della Serafino Ferruzzi, il ruolo dei fratelli Nino e Salvatore Buscemi, capomandamento del Passo di Rigano, Giuseppe Lipari, che nell’archiviazione del 13 luglio del 1992 vengono liquidati con tre parole tre parole…

Non potrò mai credere (è una mia deduzione, siamo in ambito storico e lo posso fare) che Borsellino, che aveva fatto il maxi processo, aveva quindi conosciuto le dinamiche sottostanti la guerra di mafia e il ruolo di Salvatore Buscemi nel favorire la scalata rispetto al mandamento di Passo di Rigano ai danni degli Inzerillo), avesse potuto mai e poi mai, sulla scorta delle risultanze contenute nel rapporto del febbraio del 1991, accettare un’archiviazione rispetto – attenzione – alla partecipazione all’associazione mafiosa di Lino Buscemi e di Lipari. Siino si incontrava costantemente in viale Croce Rossa, laddove esistevano le società di Provenzano. I carabinieri danno conto di un’attività di osservazione e di pedinamento costante di un Siino che è costretto a interloquire con Lipari, con Gariffo che era il nipote di Bernardo Provenzano. Quindi vedere sostanzialmente liquidata in due parole la posizione di Buscemi e di Lipari, e su Buscemi dovrò sostanzialmente dare conto di un’altra importante archiviazione, accompagnata però da un’anomalia: faccio l’avvocato da trent’anni e non ho mai visto che vengano smagnetizzati e soprattutto distrutti dei brogliacci.

Guardate, noi siamo riusciti finalmente a venire a capo del depistaggio di via D’Amelio perché grazie ai brogliacci delle intercettazioni in quel di San Bartolomeo a Mare del dicembre 1994-95, recuperate nel 2019, siamo riusciti a meglio configurare le condotte di uno degli imputati. Distruggere i brogliacci di intercettazioni nell’ambito di un procedimento proveniente da Massa Carrara, in cui un sostituto procuratore della Repubblica, Augusto Lama, era riuscito a dimostrare le cointeressenze dirette tra società del gruppo Ferruzzi e della famiglia Buscemi, soprattutto di Salvatore e Nino Buscemi, Bonura, tutti soggetti appartenenti al mandamento di Passo di Rigano… E soprattutto, ricordiamolo, quando Borsellino avrebbe assentito, secondo alcune versioni, all’archiviazione, Salvatore Buscemi è definitivo da poco come condannato nel maxiprocesso. Sarà poi nel Borsellino ter condannato all’ergastolo come mandante della strage di via D’Amelio. Perché distruggere e smagnetizzare le intercettazioni del fascicolo di Massa Carrara? La richiesta di archiviazione è del 1 giugno 1992; e il 25 giugno il dottor Grillo accoglie la richiesta di distruzione dei brogliacci. Scritto a penna. Chiedete a qualunque sostituto procuratore della Repubblica per indagini di mafia quando e come, a distanza di un anno, si dispone la distruzione di brogliacci. Tanto ciò è vero che Borsellino di questa distruzione avrebbe chiesto conto se non fosse stato trucidato, giacché il 30 giugno o il primo luglio del 1992 Leonardo Messina gli riferisce che la Calcestruzzi S.p.A. è in mano a Riina. Quindi Borsellino immagino che avrebbe chiesto il fascicolo per collegamento 371 c.p.p. proveniente da Massa Carrara. Dice: «Abbiamo distrutto i brogliacci e abbiamo smagnetizzato le intercettazioni», quando Messina gli dice: «La Calcestruzzi è di Riina». Questa è dal nostro punto di vista una gravissima anomalia.

Quando, nel corso del processo di Avezzano per la querela a carico di Piero Sansonetti e Damiano Aliprandi, abbiamo chiesto ai magistrati querelanti in un processo e nell’altro come testimoni, siccome sostenevo che c’era una circolarità in seno alla procura di tutte le informazioni riguardanti questi fascicoli, alla fine entrambi gli interrogati hanno detto di non avere alcuna notizia del fatto che c’era un procedimento che era stato trasmesso il 26 agosto dal dottor Lama. Hanno detto che non sapevano niente. Allora dov’è la circolarità? Come vedete vi sono troppi elementi che fanno pensare che in qualche modo Borsellino su quelle carte non ci doveva mettere le mani. Troppi elementi. Perché Borsellino è costretto a incontrare il capitano De Donno e il colonnello Mori, che conosce un po’ meglio per la prima volta proprio in quell’occasione (lo conosceva di vista), era molto più amico del generale Subranni. Subranni che il 19 giugno del 1992, visto quanto è risultato, grazie al maresciallo Lombardo riesce ad attingere a notizie importanti, circa il fatto che era arrivato il tritolo per Borsellino.  ll’interno di questa informativa il generale Subranni individua dei soggetti a rischio, vi sono due carabinieri, uno, se non ricordo male credo fosse il maresciallo Canale poi c’era l’allora ministro della Difesa Salvo Andò, e Borsellino. L’informativa è interessante perché il generale Subranni dice: «Trasmetto a lei, procuratore della Repubblica Giammanco, tale informativa attinta da fonti carcerarie, secondo cui è arrivato il tritolo per Borsellino, perché lei, quale responsabile, attivi quello che deve attivare per un rafforzamento della tutela, quello che volete insomma». Giammanco non dice nulla a Borsellino. Se ci pensate è pazzesco. E nessuno ha mai chiamato Giammanco per dire: «Perché non hai avvisato Borsellino?».

Borsellino come lo sa? Lo sapete, il famoso incontro del 28 giugno del 1992 a Fiumicino: un incontro in qualche modo concertato con la dottoressa Liliana Ferraro, perché lui veniva da Giovinazzo dove aveva partecipato insieme alla consorte a un convegno di Magistratura Indipendente. Incontra l’onorevole Andò che gli fa: «Dottore, mi scusi, cosa pensa, c’è da preoccuparsi?»; «Ma di cosa?»; «Come di cosa? Guardi, dall’ufficio del Ministero hanno avuto l’informativa di Subranni che indicava me come possibile obiettivo di un attentato e io ho avuto rafforzata la scorta, il livello delle misure di sicurezza nei miei confronti si è notevolmente innalzato». Borsellino trasalì. Ma la cosa assurda è che questa cosa Andò gliela dice di fronte alla consorte Agnese, che ovviamente comincia a temere per loro, comincia a temere per tutti, perché fino al giorno prima imprudentemente erano saliti in macchina anche loro. orsellino: «Perfetto, vedi che bel procuratore che ho. Amico di D’Acquisto, amico di Lima». Tant’è che il dottor Scarpinato, oggi senatore, nel verbale racconta che fece di tutto (giustamente dico) per impedire che il procuratore capo della Repubblica di Palermo andasse ai funerali di Lima, quando a Palermo anche le pietre sapevano chi fosse Lima, chi fosse Ciancimino. iustamente Scarpinato convinse, ma non doveva neanche sorgere il problema dico io, a non presentarsi ai funerali di Lima, perché questo avrebbe significato disdoro totale nei confronti della credibilità di un intero ufficio.

Cosa fa Borsellino ovviamente? Apprende questa informazione e l’indomani, lo sappiamo dai processi, chiede conto e ragione di questa gestione burocratica assurda, imperdonabile, umanamente non definibile, secondo me, di Giammanco. Dice: «Ho il diritto di sapere se io o la mia famiglia siamo in pericolo». «Ma mi sono limitato a trasmettere ex articolo 11 c.p.p. all’autorità competente». Dio santo: c’era stata la strage di Capaci, tutti additavano Borsellino come possibile vittima, il continuatore dell’opera di Falcone. E tu lo gestisci così? Nessuno ha chiesto conto e ragione di questo a Giammanco. Nessuno in magistratura, i sostituti procuratori di allora hanno ritenuto di interrogarlo su questo. Non c’è un verbale in ben 19 sentenze, in 19 dibattimenti durati anni – anni! – in cui un magistrato della procura chieda conto e ragione di questo. Non è normale…

Attraverso i verbali del CSM abbiamo scoperto una cosa che non era mai apparsa nell’ambito delle 19 istruzioni dibattimentali fino adesso celebrate per la strage di via D’Amelio: il 29 giugno del 1992 Borsellino va da Giammanco anche per chiarire una cosa altrettanto importante, che rappresenta anch’essa la materializzazione di quello ostracismo irrazionale, illogico, funzionale alla sua umiliazione e delegittimazione professionale. Cos’era successo? Mentre Borsellino si trovava a Giovinazzo arriva un fax dalla procura della Repubblica di Firenze del dottor Vigna, con cui si dice: «Mutolo ha parlato con me per fatti legati a un traffico di stupefacenti avvenuto nel mio territorio, ora ha deciso di saltare il fosso e di cominciare a parlare». Unica condizione che ha posto è quella che, visto che inizialmente voleva essere interrotto da Falcone, ma Falcone in vita era al Ministero e non poteva più svolgere le funzioni di pubblico ministero. Muore Falcone, e con chi vuole parlare secondo voi? Con Borsellino. Ce lo dice Teresa Principato. Nel suo verbale della commissione del 1992: «Certo che voleva parlare con Borsellino. Con chi doveva parlare? Con Giammanco?». Paolo era credibile. I pentiti non ci sono stati in questi anni perché questa procura è gestita da un capo che non è credibile. Paolo è credibile, è ovvio che il pentito sceglie lui. Da avvocato non dico che sa una prassi sostanzialmente giusta, ha ragione in termini astratti il procuratore Giammanco a dire: «Non deve essere il collaboratore a scegliersi il magistrato». Ma in condizioni normali; ma non quando tu hai fatto di tutto per rendere la vita impossibile a Borsellino e hai umiliato precedentemente Falcone; in quelle condizioni la tua non è un’obiezione intellettualmente onesta. È un modo per impedire all’ex autista di Saro Riccobono, come ci dice Leonardo Guarnotta nel dicembre del 1998 nel processo Borsellino ter, di disvelare i legami con il sistema politico della vecchia mafia perdente. Vuoi impedire a Borsellino di gestire i frutti di una collaborazione di un grosso collaboratore di giustizia…e ti inventi una formula per cui (è un passaggio fondamentale in cui spero di essere in grado di dare la giusta interpretazione dei fatti così come si sono svolti) l’ostacolo per l’attribuzione della titolarità del fascicolo a Borsellino della gestione di Mutolo viene individuata pretestuosamente senza tema di essere smentito. Viene individuata pretestuosamente da Giammanco nel fatto che il collaboratore parlerà di fatti di competenza del comparto palermitano Borsellino è invece coordinatore delle indagini su Trapani e Agrigento.

In una dinamica normale ci può anche stare; ma hanno appena ammazzato Lima, Guazzelli, hanno sventrato un’autostrada per uccidere la prima delle Torri gemelle di questo Paese…cavillare richiamando questioni amministrative di organizzazione interna all’ufficio ritengo sia un fatto veramente altamente pretestuoso. Cosa succede? Quando Borsellino si presenta la mattina del 29 in ufficio molto arrabbiato per l’informazione avuta dal ministro Andò con riferimento alla mancata informazione dell’informativa di Subranni sull’arrivo del tritolo, Natoli dice: senti Paolo, ti devo dire una cosa, in deroga al meccanismo delle competenze io sono a Trapani con te, però Giammanco mi ha affidato la titolarità del fascicolo su Mutolo. Natoli lo fa per dire: «Attenzione Paolo, io non c’entro niente, mi trovo a subire le bizze di una scelta del capo che individua in me, ma io non c’entro niente, non ti venga in testa di pensare che sono stato io». E Borsellino dice: «Ma ci mancherebbe». Va nella porta accanto, che è quella del procuratore Aliquò, effettivamente il fascicolo porta l’assegnazione di Aliquò, Lo Forte e Natoli. Borsellino prende questo fascicolo e va da Giammanco. Quindi scopriamo per la prima volta, attraverso la lettura dei verbali del 1992, che le questioni affrontate quella volta non erano, come abbiamo sempre creduto, una, ma due. Non c’è solo l’informativa omessa, ma anche l’attribuzione, venendo meno al criterio pretestuoso che egli stesso si era dato per impedire a Borsellino di prendere quel fascicolo, l’attribuzione a un magistrato competente su Trapani dello stesso fascicolo che reclamava Borsellino, non fosse altro perché lo chiedeva anche lo stesso collaboratore e quindi lo si sarebbe messo nelle condizioni forse di essere più tranquillo nell’esposizione dei fatti. Dell’incontro tra Giammanco e Borsellino fino adesso sapevamo una cosa. Poi facciamo una pausa, vi leggo questa piccola parte perché è importante. Scusate, perché siamo stanchi, io mi sono permesso in maniera del tutto…”.

(2. Continua)

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