di Valter Vecellio
Il regista perfetto: Claude Lelouch maturo. Nessuno come lui capace di raccontare una storia fatta di “casuali” intrecci di varie storie; come Lino Ventura e Françoise Fabian, protagonisti de La bonne annéè; o le sinfonie di Toute une vie, Les uns et les autres o Il y a des Jours…et des lunes: vite che a un certo punto si incontrano e scontrano; e tutto cambia per quella “virgola” imprevista, imprevedibile.
Così ecco un tipo che ancora cerca sé stesso, autore di strani versi malinconici con arditi richiami che si riferiscono a storie quotidiane, di “normale” straordinarietà, all’apparenza banali. Viene dal Canada. Ci sono poi due ragazzi norvegesi innamorati: lui scrive con risultati non eccelsi ma neppure disprezzabili; lei è bellissima; non solo: davanti all’obiettivo di una macchina fotografica “esplode”, i fotografi se la contendono. I due mollano tutto; a bordo di un’automobile scassatissima scorrazzano per l’Europa senza orario e bandiera; approdano in una piccola isola greca famosa per la sua bellezza e “incomparable atmosphere of serenity and peaceful energy”: Hydra.
Lei aspetta un bambino. Lui non ha alcuna vocazione alla paternità. La coppia si frantuma. Ecco che compare l’altro, il canadese, “was born with the gift of a golden voice”. Del resto, la nonna della ragazza aveva fatto una profezia: un giorno avrebbe incontrato “un uomo che parla con la lingua d’oro”. Un amore che comincia sommesso, senza fretta, come le piccole onde che si infrangono sulla bianca spiaggia: lunghe passeggiate, interminabili conversazioni, parole, sguardi, gesti. Questa in estrema sintesi la storia di Marianne Ihle, del suo fidanzato scrittore Axel Jensen, di Leonard Cohen.
Dove cercare una possibile parola chiave? Forse in “I see you’ve gone and changed your name again”, uno dei versi finali di Marianne; o anche in “it’s time that we began to laugh and cry and cry and laugh about it al again…”.
L’atmosfera dell’isola è ben descritta da Henry Miller in quello che viene considerato uno dei suoi capolavori, Il colosso di Maroussi. Anche qui, un “caso”: “Non sarei mai andato in Grecia se non fosse stato per una ragazza chiamata Betty Rayn”. Anche Betty è una giramondo. Per farla breve Miller approda in “una quasi nuda roccia in mezzo al mare…ci sono solo due colori, azzurro e bianco, e il bianco viene imbiancato alla calce ogni giorno, fimo al selciato…”. Sono gli anni ’40 del secolo scorso, quando Miller scopre Hydra. Cohen una ventina d’anni dopo.
Il regista Nick Broomfield, noto per il documentario Kurt & Courtney, è autore di Marianne & Leonard: Words of Love, docu-film che comprende filmati d’archivio, interviste, testimonianze. Racconta la storia dello speciale legame tra Cohen e Marianne, ispiratrice di brani come Bird on the Wire, e So long, Marianne.
Alla fine degli anni ’60 la storia finisce. Cohen è sempre più irrequieto, “lontano”. Marianne ne prende atto. Non c’è però un taglio netto, definitivo; così quando capisce che le resta poco da vivere, chiede a un amico di contattare Cohen. Anche lui è gravemente malato, può solo mandarle un messaggio: “Carissima Marianne, sono solo pochi passi dietro di te, ma abbastanza vicino da stringerti la mano. Questo mio vecchio corpo, così come il tuo, ha ormai rinunciato a combattere, da un giorno all’altro, aspetto che mi arrivi l’avviso di sfratto… non ho mai dimenticato il tuo amore e la tua bellezza. Ma questo tu lo sai, non devo aggiungere altro. Fai buon viaggio amica mia, ci vediamo tra poco in fondo al viale… con amore e gratitudine, Leonard”.
Marianne si spegne il 28 luglio 2016. Leonard il 7 novembre dello stesso anno. Il libro però racconta soprattutto delle magiche estati a Hydra, le sue atmosfere, le sue “follie”, la gioia di vivere. Si chiude con la citazione di Old Friend/Bookends, una canzone di Paul Simon: “Long ago it must be, I have a photograph / Preserve your memories, They’re all that’s left you”.
Già: i ricordi, la felicità di aver incontrato “per caso” che mai è un “caso” determinate persone. La chiave è questa. S’intende: a saper trovare porte e serrature giuste.
Judy Scott
Leonard, Marianne, and me – Backbeat Books
di Va.Ve.
Gli articoli, in particolare quelli per i quotidiani, sono scritti per il “momento”: una cronaca, una polemica che nel giro di qualche giorno si spegne; qualcosa insomma di effimero. Da mezzogiorno in poi, si diceva un tempo, il quotidiano era buono per incartare il pesce. Non sempre è così, per fortuna. Sui giornali – non spesso, d’accordo – capita di leggere qualcosa che “resta”, che merita di essere conservato e ricordato; da riunire in volume e “salvare” dall’usura del tempo che tutto corrode. Sono articoli, interventi, scritti sull’onda di un’emozione, uno stimolo casuale, ma anche anelli di una catena che prende forma giorno dopo giorno, si dipana in un qualcosa di unitario e strutturato.
È il caso di Per un liberalismo comunitario, di Dino Cofrancesco. Libro che incuriosisce, fin dal titolo. D’istinto per liberalismo si è portati a intendere una visione che privilegia il singolo, garantirgli che non sia schiacciato da oppressivi meccanismi di “massa”. Quel “comunitario” associato a “liberalismo” come si armonizza? “Il liberalismo comunitario”, sostiene Cofrancesco, “si distingue dal liberalismo individualistico in virtù di questa consapevolezza: che la libertà che ci è cara è sempre la libertà di una comunità storica determinata, non è l’armatura del calviniano Aginulfo, il cavaliere inesistente”. D’accordo, ma a questo punto sorge un interrogativo successivo? Come intendere una comunità storica? In particolare, di questi tempi vorticosi, caratterizzati da frequenti e rapide ibridazioni, mescolanze, influenze. Neppure nei tempi passati si scherzava; questo “mescolare” in fin dei conti è stata una risorsa, una forza. Oggi più che mai. Nel momento in cui la comunità viene individuata come un qualcosa di storicamente determinato, ecco che è già “altro”, superato, evoluto… “Non sono gli individui ma le persone con le loro storie, con le loro radici, con i loro interessi e valori, che dopo essere stati uniti con la forza delle ambizioni di regnanti e di usurpatori, finiscono per considerarsi membri di una nazione, ‘una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor…”.
C’è del vero. Al tempo stesso non risulta convincente la successiva affermazione secondo la quale “Oggi risulta egemone nelle scuole, un liberalismo razionalistico e universalistico, che non comprende più la necessità delle frontiere in virtù della sua concezione del diritto cosmopolitico e della sua visione di un’economia globale che guarda solo ai continenti in cui si vende e si compra meglio. Un tale liberalismo è incapace di comprendere che la partita sui valori si gioca oggi sul terreno della storia e che, per recuperare il senso della ‘patria’ figure come Renzo De Felice e Rosario Romeo sono più importanti delle analisi del confronto tra Croce e Einaudi su liberismo e liberalismo…”.
Altro punto di grande interesse speculativo la vexata quaestio sull’aver fatto o meno i conti con il fascismo. Nulla si ha a che spartire con i Maramaldi, per citare il personaggio fellone scelto da Cofrancesco per indicare certi antifascisti di maniera e di interesse; sicuramente Cofrancesco che ben ci conosce sa della reciproca amicizia che ci lega senza per questo dover necessariamente essere sempre d’accordo, sa in cosa consiste il nostro antifascismo: è quello che ci fa aborrire proprio il fascismo di certo antifascismo, sulla linea tracciata da Vitaliano Brancati e Leonardo Sciascia, ma anche da Pier Paolo Pasolini e Marco Pannella. Quella riflessione di Sciascia in A futura memoria (se la memoria ha un futuro), che, tatuata com’è, possiamo compitare a memoria: “Il fatto è che i cretini, e ancor più i fanatici, sono tanti; godono di una così buona salute non mentale che permette loro di passare da un fanatismo all’altro con perfetta coerenza, sostanzialmente restando immobili nell’eterno fascismo italico. Lo Stato che il fascismo chiamava ‘etico’ (non si sa di quale eticità) è il loro sogno e anche la loro pratica. Bisogna loro riconoscere, però, una specie di buona fede: contro l’etica vera, contro il diritto, persino contro la statistica, loro credono che la terribilità delle pene (compresa quella di morte), la repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli, siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti”.
Qui la concordanza con Cofrancesco credo sia totale; poi nello sfogliare le pagine con i suoi saggi e le sue riflessioni accade di postillare qualche appunto di dissenso, guai se così non fosse: Cofrancesco avrebbe fallito nel suo compito, essere una sorta di forcipe che “estrae” e mette in luce. Di Carlo Cattaneo, per esempio si ha una considerazione maggiore di quanto Cofrancesco mostri d’avere (Rosario Romeo perdonerà l’impertinenza). Giusto porsi il problema del “che fare” dei milioni di cittadini ammaliati da un Trump o da un Bolsonaro (verrebbe da chiedersi piuttosto che poter fare noi per difenderci da loro). Cruciale l’osservazione relativa a quanti decidono ormai da più di dieci anni idi esercitare il loro voto non andando a votare: è il non riconoscersi più in queste democrazie. È l’apatia, l’indifferenza, lo scoramento. Il non credere più nello strumento diretto del referendum: s’è fatto di tutto per svuotarlo; e il non credere più nella rappresentatività: gli eletti (nominati) percepiti come una melassa indistinta dedita al perseguimento dell’interesse corporativo e oligarchico di chi è stato ammesso al club. Una nota di recensione non può, per forza di cose, che segnalare, lanciare un appello per appropriarsi di questo libro e farne utensile per riflessione e dibattito, confronto. Il libro di Cofrancesco è prezioso per questo: stimola e costringe a pensare. Lo scopo è raggiunto.
Dino Cofrancesco
Per un liberalismo comunitario. La Vela.