di Valter Vecellio
Giacomo Matteotti: cosa sappiamo di questo martire del fascismo? È ucciso a pugnalate da sicari fascisti guidati da Amerigo Dumini il 10 giugno di cent’anni fa. Non esiste una “canna fumante” che consenta di sostenere con certezza che Mussolini diede l’ordine di eliminarlo, anche se ne ha rivendicato la paternità. Matteotti fin subito è una spina dolorosa nel fianco di Mussolini, era un irriducibile avversario del regime: le sue denunce implacabili, precise, documentate al millesimo. Il giorno del rapimento e uccisione Matteotti era atteso a Montecitorio: si sapeva che avrebbe tenuto una delle sue inappellabili requisitorie. Si ipotizza che nella borsa recasse con sé documenti scottanti per il regime e la stessa monarchia. Quella borsa, quei documenti, non sono stati mai più trovati. L’Italia è il paese delle borse e dei documenti scomparsi: Aldo Moro, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Paolo Borsellino, per dire dei primi casi che vengono in mente.
Pier Franco Quaglieni storico e instancabile anima del centro Mario Pannunzio di Torino recupera e cura la pubblicazione di un prezioso saggio su Matteotti di Piero Gobetti: scritto “a caldo”, nel 1924 subito dopo il delitto. “Matteotti”, annota Quaglieni nella nota introduttiva, “come lo stesso Gobetti evidenzia, non era il socialista delle sagre con cui si concludevano i congressi socialisti del tempo. Era un socialista ‘gradualista’ che non aveva rinunciato a pensare a una società socialista capace di far convivere l’eguaglianza sociale e la libertà liberatrice, senza accontentarsi di rabberciare attraverso le riforme il capitalismo come aveva fatto in Italia Giolitti, senza per questo ottenere il consenso dei socialisti. Era convinto che la via al socialismo dovesse essere legalitaria, in questo riprendendo l’ultimo Engels che invitava alla competizione elettorale e non alla rivoluzione i socialisti tedeschi…”.
Oltre al saggio gobettiano Quaglieni recupera il resoconto stenografico della seduta del 30 maggio 1924, quella nel corso della quale Matteotti denuncia i brogli elettorali fascisti. “Recuperi” di cui occorre far tesoro; valga un brano di un’intervista inedita a Mario Soldati nel 1994, conservata nell’archivio storico del centro Pannunzio: “Nel 1924 lessi avidamente il vibrante e commosso ricordo di Gobetti su Matteotti che conservo tra le cose più care. Nella Resistenza il nome di Matteotti fu ripreso in modo glorioso e, forse, non adeguatamente riconosciuto dalle eroiche Brigate partigiane socialiste a lui intitolate…Questa è la mia Italia civile in cui credo profondamente e Matteotti resta la mia stella polare in tutte le tempeste novecentesche del fascismo e del comunismo”.
Un riformatore che inchioda il regime fascista con denunce fitte di nomi, fatti, numeri. Condanna la violenza: quella dei fascisti, ma anche quella “rossa”. Ai comunisti lo chiaro: “La vostra violenza pretende e giustifica la violenza fascista… Non c’è nulla in comune tra voi e noi…se siete in buona fede, è malvagia da parte vostra la proposta di unirvi coi traditori; se siete in mala fede, noi non intendiamo prestarci ai trucchi di nessuno”.
Subito dopo la sua morte Antonio Gramsci lo definisce “pellegrino del nulla”. Gobetti, al contrario, con malinconico rimpianto lo saluta come “forse il solo socialista italiano per il quale riformismo non fosse sinonimo di opportunismo”.
Pier Franco Quaglieni (a cura)
Matteotti di Piero Gobetti – Pedrini edizioni
di Va.Ve.
Nomen omen. Boato: rumore fragoroso, cupo; “accompagnato” a quel Marco che sta per “consegnato al dio Marte”, ma anche “grande martello”. I nomi spesso hanno un senso. Di Marco Boato scrive in un godibile e succoso libretto un altro Marco (Di Salvo, anche questa volta ai nomi corrisponde un senso): si recupera, e di “salva” la memoria a un personaggio cui questo Paese deve qualche grazie; giustamente Carlo Romeo nella sua prefazione, lo definisce “uno dei migliori parlamentari” che il Parlamento italiano abbia avuto. Più che mai appropriata la definizione di “moderato intransigente”: anche se Boato alle spalle ha un’esperienza in Lotta Continua, movimento che si collocava alla sinistra della sinistra, predicando per anni la bellezza e la mistica della “rivoluzione”; e chissà se oggi, come fece nel giovanile “Dall’anticomunismo alla lotta di classe”, per qualificare i pur discutibilissimi bombardamenti americani in Vietnam, utilizzerebbe il termine “genocidio”.
La storia di Boato, annota Di Salvo, “è quella di un primo della classe relegato sempre negli ultimi banchi e, nonostante ciò, sempre capace di splendere di luce propria, attraverso gli atti. Un politico capace di mediare, proprio perché saldo nelle sue convinzioni e nei suoi obiettivi che, quando è stato posto nelle condizioni di ottenere risultati concreti, ha portato a compimento quanto previsto ‘con disciplina e onore’ come il dettato costituzionale prescrive per i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche”.
Un libro come questo, cui auguro e auspico più edizioni, ha necessità di un indice dei nomi e – possibilmente – di un robusto glossario: fatica ulteriore per il suo autore, ne sono consapevole, ma indispensabili strumenti per rendersi conto della ricchezza del personaggio che racconta e che offre alla conoscenza di tanti e anche a molti di noi un recupero di memoria. In compenso, l’apparato delle note è prezioso ed esaustivo.
Di Salvo sostiene che quella dei Boato (da intendere come generazione), è anche la storia di uno spreco: “In lui è rappresentato pienamente ciò che ha saputo farsi l’Italia di una generazione, quella giunta a maturità a cavallo tra i ’60 e i ’70, che è stata di fatto esclusa dalle leve del potere politico del nostro paese”. Se ne potrebbe discutere, se davvero si possa parlare di esclusione; o invece ci sia stata una sostituzione. È certamente un fatto tante cose egregie, positive che dobbiamo a quella generazione, non hanno avuto e non hanno la considerazione e il riconoscimento che meritano.
C’è un episodio, nell’esperienza parlamentare di Boato che qualifica il personaggio. Eletto deputato nelle liste del Partito Radicale, è protagonista, assieme ad altri deputati, di un lungo, estenuante ostruzionismo parlamentare (allora i regolamenti di Camera e Senato lo consentivano) contro leggi speciali in materia di ordine pubblico: Boato pronuncia il più lungo discorso della storia del nostro Parlamento: 18 ore e cinque minuti: “Cominciai alle otto di sera e tirai dritto fino alle 2 del pomeriggio del giorno successivo, sommerso ad un certo punto dai messaggi da parte dei colleghi parlamentari che mi imploravano di smettere, perché correvano il rischio di perdere il volo di rientro a casa, essendo febbraio, per colpa della nebbia. Ma con i compagni radicali avevamo stabilito che avrei resistito per coprire la fascia dei tg dell’ora di pranzo. Cosa che feci, naturalmente, senza perdere neanche per un istante contezza sul tema dell’intervento. Approfondii, rigorosamente a braccio, tutto lo scibile sul fermo di polizia; sulla storia, sull’ordinamento, sui motivi di costituzionalità e incostituzionalità. Senza fermarsi un attimo”.
Un appunto Di Salvo lo consentirà: i “capitoli” relativi nella vicenda della possibile grazia ad Adriano Sofri, Marco Pannella un ruolo di rilievo l’ha giocato. Un cenno andava fatto. Così il rapimento del giudice Giovanni D’Urso e l’odioso delitto di Roberto Peci. Stesso discorso vale per gli estremisti di destra detenuti. A occuparsene non è stato solo Boato; non è giusto ignorare l’azione svolta dagli altri parlamentari radicali, Franco de Cataldo e Mauro Mellini per primi.
Un intransigente, ci ricorda Di Salvo, negli obiettivi; un moderato per quello che riguarda toni e indole: che “tanto di più avrebbe potuto dare al nostro paese, se fosse stato messo nelle condizioni di farlo”. È vero. Questo libro racconta e ricorda il non poco che è riuscito comunque a fare. Anche questa è parte della storia decennale del nostro Paese.
Marco Di Salvo
Marco Boato, il moderato intransigente – Edizioni Efesto