Proposta Radicale 14/15 2023
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Affaire Moro, tra segreti e misteri

La relazione di consulenza di Guido Salvini

Fin dai primi anni Ottanta Giudice istruttore e poi Giudice per le Indagini Preliminari a Milano. Ha condotto le indagini in materia di terrorismo di sinistra (colonna milanese delle B.R., Prima Linea, Autonomia Operaia) e di destra (N.A.R.) nel periodo di applicazione delle leggi sui pentiti e sui dissociati. Dopo la scoperta di Gladio e grazie all’apertura di alcuni archivi dei Servizi di informazione e al manifestarsi in modo più ampio del fenomeno della collaborazione anche nell’area dell’estrema destra eversiva, ha riaperto le indagini sulla Strage di piazza Fontana; ha così toccato un ampio arco di episodi precedenti e successivi la strage e ricostruito, nonostante l’assoluzione delle persone indicate come materiali responsabili della strage, in modo convincente il periodo della strategia della tensione, tanto che anche le sentenze di assoluzione dei singoli imputati indicano esplicitamente nel gruppo neonazista Ordine Nuovo l’organizzatore ed esecutore degli attentati del 12 dicembre 1969. Per ragioni di indipendenza personale, non aderisce ad alcuna corrente organizzata della magistratura. Ha collaborato con la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi, consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’occultamento dei fascicoli relativi a stragi nazifasciste (il cosiddetto “Armadio della vergogna”), consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro dell’on. Aldo Moro, consulente della Commissione antimafia.

Di seguito pubblichiamo la prima parte della relazione del dr. Salvini sulla vicenda Moro. È praticamente inedita, se ne è parlato pochissimo; leggendola, se ne possono intuire i motivi. È un testo interessante con diverse novità in un tentativo per la prima volta di una ricostruzione tecnica che cerca di superare quello che si sapeva senza essere dietrologica.

Introduzione: l’agguato di via Fani

La Commissione ha deciso di raccogliere le indicazioni e gli spunti investigativi provenienti soprattutto dall’attività istruttoria e dalla relazione finale della seconda Commissione parlamentare sul sequestro e l’omicidio dell’on. Aldo Moro che ha chiuso i suoi lavori nel dicembre 2017 a seguito della fine della legislatura.

In particolare, con riferimento ai compiti istituzionali di questa Commissione, risultavano di particolare interesse alcune tracce seguite dalla seconda Commissione Moro relative a possibili “terze presenze” sul luogo dell’agguato e nella successiva fase della gestione e della tragica conclusione del sequestro. Ci si riferisce non solo alle possibili interferenze di strutture istituzionali italiane e straniere nella fase preparatoria ed operativa dell’operazione del 16 marzo e poi nella fase della gestione del sequestro e delle trattative ma anche alla possibile presenza di soggetti e di strutture appartenenti alla criminalità organizzata. Una presenza che può aver avuto finalità diverse, tra loro dalla compartecipazione all’azione di via Fani alla proposta alle istituzioni di collaborazione al fine di scoprire il luogo ove era tenuto sequestrato l’on. Moro e di favorirne così la liberazione ottenendo comunque come ricompensa una intuibile contropartita, in termini ad esempio di trattamenti processuali e penitenziari.

L’interesse dalla Commissione a tale tema si è concretizzato in particolare con la Delega complessiva a consulenti adottata il 16 dicembre 2021 che prevedeva l’audizione di una serie di testimoni e anche l’eventuale successivo svolgimento di accertamenti tecnici. Purtroppo la brusca ed improvvisa chiusura della legislatura ha interrotto tale attività che stava seguendo una direttrice iniziale finalizzata anche ad evitare fughe in avanti e cioè ricostruzioni che non si basassero in modo fondato e tecnicamente preciso sulla ricostruzione di quanto avvenuto in via Fani la mattina del 16 marzo 1978.

In altre parole, e prima di formulare valutazioni più definite sull’intervento nei 55 giorni del sequestro Moro di soggetti esterni alle Brigate Rosse, è apparso preliminare, utilizzando e cercando di completare l’attività svolta nel corso delle indagini giudiziarie e dalle due Commissioni parlamentari Moro, cercare di ricostruire con maggiore esattezza quanti e che ruolo avessero effettivamente i soggetti partecipi all’azione del 16 marzo. Cioè partire “dal basso”.

È evidente infatti che la presenza di un numero maggiore di soggetti nel teatro dell’azione, alcuni dei quali quindi rimasti sinora sconosciuti, oltre ad essere un antecedente logico di qualsiasi ricostruzione, aumenta le probabilità che le Brigate Rosse, o meglio i suoi vertici, abbiano goduto dell’apporto di soggetti ad essa esterne o ad esse legate solo indirettamente. Questo evitando comunque ogni inutile e dannosa dietrologia che deve rimanere estranea al lavoro di una Commissione d’inchiesta1. Purtroppo questa attività si è svolta in tempi molto ristretti e ha dovuto interrompersi non giungendo certo a completare il ciclo di audizioni che erano state previste. Comunque l’attività svolta ha consentito di pervenire forse non a certezze ma sicuramente ad un giudizio di maggior probabilità rispetto al passato in relazione alla presenza nell’azione di un numero maggiore di soggetti e quindi di soggetti mai identificati.

In questo quadro l’attività di verifica di presenze e contatti con ambienti della criminalità organizzata, e cioè il secondo passaggio, una volta ricostruita la dinamica dell’operazione ed il numero dei soggetti coinvolti, è rimasta invece allo stato embrionale in quanto nell’estate 2022, come accennato, il lavoro di ricerca si è interrotto. A questo aspetto del sequestro Moro si farà quindi riferimento nella parte finale di questo capitolo della relazione sottolineando sin d’ora che la presenza intorno alla vicenda Moro della criminalità organizzata ed anche di altre forze è disseminata in moltissimi atti e risultanze di cui in conclusione si ricapitoleranno i momenti più importanti alla luce delle vecchie e delle nuove risultanze.

Prima di illustrare i nuovi elementi che sono stati raccolti e le ipotesi che ne discendono appaiono utili due considerazioni preliminari: la prima una riflessione inevitabile sul metodo investigativo utilizzato all’epoca dei fatti, la seconda una considerazione attinente ad uno snodo centrale delle indagini quale il memoriale Morucci, considerazioni che contribuiscono a spiegare lo schiacciamento che ha subito da due lati la possibilità di raggiungere una soddisfacente verità sugli avvenimenti di quei 55 giorni.

In primo luogo la difficoltà di ricostruire esattamente quanto avvenuto in via Fani ha gravemente risentito della tecnica non adeguata con cui sono state condotte le prime indagini nei giorni immediatamente successivi all’agguato. Oltre alla raccolta confusa dei proiettili e dei bossoli che ha reso molto difficile il lavoro dei periti2, le audizioni dei testimoni oculari si sono svolte nelle condizioni meno favorevoli per ottenere un quadro soddisfacente della scena del crimine. Infatti non sono state condotte da un unico team di investigatori dedicati ma in autonomia dalle più disparate forze di Polizia, ciascuna delle quali non aveva il quadro completo dei dati raccolti e delle altre testimonianze e non poteva quindi confrontarle. I testimoni sono stati sentiti, spesso in modo superficiale3, purtroppo anche dai magistrati inquirenti4, senza l’ausilio di una planimetria dettagliata dei luoghi al momento dell’agguato che potesse collocare in un punto preciso i testimoni stessi e i soggetti o le vetture che essi avevano visto.

In questo modo si è persa la possibilità di sovrapporre le testimonianze e di costruire, con una planimetria dettagliata alla mano ed unica per tutti testimoni, una geografia esatta dello scenario di via Fani in cui ciascun teste fosse collocato in un punto ben definito ed indicasse in modo preciso dove e in che momento avesse visto sparatori, automobili e visto od udito altre circostanze utili.

Purtroppo niente ha potuto in seguito, nonostante gli sforzi anche dibattimentali, correggere incertezze ed errori iniziali e le loro conseguenze, ma quelle erano all’epoca le tecniche investigative.

Questa Commissione ha potuto comunque avvalersi per la prima volta, in occasione di alcune audizioni, di una precisa e leggibile planimetria della scena dei fatti approntata dalla Polizia Scientifica unitamente a rappresentazioni tridimensionali. Con l’indicazione quindi della posizione delle autovetture e con la collocazione dei reperti, i bossoli in particolare, nel punto esatto ove sono stati trovati, distinti ciascuno con un codice alfanumerico e, in base alla probabile arma di provenienza, rappresentati con un colore diverso in modo da rendere anche visivamente più distinguibili, con la “rosa” formata dai reperti tra loro vicini, l’azione di intervento di ciascun sparatore5. Tale planimetria è stata integrata con il contributo, sempre operato sui bossoli e sulla loro posizione, del collettivo di ricercatori Sedicidimarzo che da alcuni anni lavora sull’intera vicenda Moro6.

Tale contributo ha consentito ad esempio di collocare nella geografia dei reperti trovati sul terreno due bossoli della Smith & Wesson7 riferibile a Prospero Gallinari trovati molto all’interno del marciapiede sinistro di via Fani e non presi in considerazione nel lavoro della Polizia Scientifica. La distribuzione definitiva, quantomeno nei limiti del possibile, dei reperti è quindi rappresentata dalla planimetria così integrata e allegata alla presente relazione.

La seconda difficoltà è costituita dal memoriale Morucci, in parte non credibile, elusivo, lacunoso in particolare in relazione al numero degli sparatori e alla via di fuga e comunque finalizzato a nascondere parte dell’operazione del 16 marzo, pur lucrando significativi vantaggi processuali e penitenziari. A tale linea ha dato supporto, anch’essa con vantaggi penitenziari8, l’intervista rilasciata nell’estate 1993 da Mario Moretti9 alle giornaliste Mosca e Rossanda, pur con qualche significativa contraddizione con la stessa versione di Morucci. Con queste versioni il caso Moro è stato chiuso dai suoi principali protagonisti nello stretto ambito di una “verità dicibile”.

Una ricostruzione dell’agguato di via Fani e del numero dei soggetti presenti

Il numero e il posizionamento dei bossoli e dei proiettili sul selciato di via Fani e l’individuazione dei punti di sparo e delle traiettorie sono stati evidentemente sin dal primo momento essenziali per ricostruire l’esatta dinamica dell’agguato del 16 marzo. Tanto è vero che i primi periti sono giunti subito in via Fani prestando giuramento dinanzi al Sostituto procuratore proprio sul luogo dell’eccidio. Soprattutto solo un esatto esame dei reperti intrecciato con le testimonianze di testimoni oculari, purtroppo contrassegnate dai gravi limiti investigativi di cui si è detto, può restituire il numero e la posizione degli sparatori presenti, eventualmente anche al di là e oltre le narrazioni interessate della Direzione brigatista e di chi ha preso parte all’attacco. In via Fani secondo le sentenze definitive, le perizie e secondo il memoriale di Valerio Morucci sarebbero stati presenti:

Valerio Morucci, munito di un FNA43 cal. 9 parabellum. Raffaele Fiore, munito di un MP12 cal. 9 parabellum. Prospero Gallinari, munito di un TZ45 cal. 9 parabellum. Franco Bonisoli, munito di un FNA43 cal. 9 parabellum o un’arma simile. Gallinari e Bonisoli disponevano poi di un’arma corta: rispettivamente una Smith & Wesson cal. 9 parabellum e una Beretta 51 calibro 7.65.

I quattro erano travestiti da avieri e avevano con il compito di attaccare le due auto, collocati a sinistra in via Fani dietro le piante ornamentali del bar Olivetti e disposti nell’ordine sopra indicato a partire dalla parte bassa della via.

Mario Moretti, a bordo di una Fiat 128 giardinetta con targa diplomatica aveva il compito di provocare all’incrocio il tamponamento e di bloccare l’auto dell’on. Moro e quella della scorta. Avrebbe avuto in dotazione un MAB 38 cal. 9 parabellum.

Barbara Balzerani, collocata all’incrocio tra via Stresa e via Fani con in mano una paletta, aveva il compito di formare il “cancelletto” inferiore e cioè di bloccare eventuali vetture o anche passanti che potessero sopravvenire. Aveva una mitraglietta VZ Skorpion 7.65 Browning.

Alvaro Loiacono e Alessio Casimirri, collocati a bordo di una Fiat 128 bianca nella parte alta di via Fani, avevano il compito di formare il “cancelletto” superiore. Loiacono aveva una carabina M1 cal.30, non è nota l’arma che aveva Casimirri ma probabilmente si tratta di un’arma corta10.

Bruno Seghetti era in attesa, all’angolo con via Stresa, a bordo di una Fiat 132 blu con il compito di caricare il prigioniero al termine dell’azione. Non è noto che arma avesse. Inoltre Moretti, Morucci e Fiore disponevano anche di un’arma corta e cioè ciascuno di una pistola Browning HP 9 parabellum.

Solo i primi quattro e cioè gli avieri avrebbero sparato o tentato di sparare. In particolare Fiore afferma di non essere riuscito a sparare nemmeno un colpo a causa dell’inceppamento dell’arma e avrebbe inutilmente tentato di inserire un nuovo caricatore. Anche l’arma di Morucci si era inceppata ma egli era riuscito a cambiare il caricatore. Anche le armi di Gallinari e Bonisoli si erano inceppate ed essi avevano dovuto proseguire nell’azione con le loro armi corte. Sul terreno sono stati repertati 93 bossoli tra cui i due provenienti dalla pistola cal. 9 dell’ag. Raffaele Iozzino.

Pur con considerevoli incertezze registrate nel tempo sull’attribuzione11 al FNA 43 di Morucci sarebbero riferibili 22 colpi, ad un secondo FNA 43 asseritamente in mano a Bonisoli 49 colpi, al TZ45 di Gallinari 5 colpi e al MP12 di Fiore 3 colpi. Per quanto concerne le armi corte 4 colpi sarebbero stati sparati dalla Beretta 7.65 di Bonisoli e 8 colpi al massimo dalla Smith & Wesson cal. 9 di Gallinari. I proiettili e i frammenti di proiettili rinvenuti sono comunque solo tra i 42 e i 48, quindi con un elevato tasso di dispersione12.

Prima di passare ad una possibile ed in parte diversa ricostruzione della sparatoria, con riferimento a quanto avvenuto nella parte alta di via Fani, bisogna ricordare che la relazione della Polizia Scientifica presentata alla seconda Commissione Moro è indirizzata soprattutto a sostenere che i due brigatisti collocati più in alto in via Fani avrebbero iniziato a sparare sull’Alfetta di scorta quando la vettura era ancora in movimento e poi sarebbero scesi verso la parte bassa di via Fani di 10/ 15 metri per continuare la loro azione contro la vettura di scorta ormai ferma. In pratica Bonisoli e anche Gallinari avrebbero “inseguito” sparando l’Alfetta di scorta che procedeva in via Fani.

Il fatto che le autovetture fossero ancora in movimento verso l’incrocio al momento dell’attacco sarebbe effettivamente tutt’altro che secondario perché da questo elemento dipende in modo significativo l’individuazione di chi e da quale posizione avesse sparato. In particolare, secondo la Polizia Scientifica, Franco Bonisoli, che avrebbe sparato le tre più numerose rose di bossoli13 la Z e la B dinanzi alla Mini Cooper e alla Fiat 12714 rossa e la K in mezzo alle due autovetture nella zona del cordolo del marciapiede di via Fani per poi “scendere” verso le tre vetture bloccate. Tuttavia l’ipotesi che caratterizza il lavoro della Polizia scientifica, quella secondo cui i brigatisti avrebbero sparato sulle due vetture, in particolare sull’Alfetta di scorta, quando queste erano ancora in movimento, è poco convincente.

Infatti: nessuno dei 34 testimoni oculari presenti in via Fani15 la cui versione è stata acquisita anche nell’immediatezza dei fatti o poco dopo, ha parlato di un attacco ad auto in movimento. Semmai molti testimoni16 hanno dichiarato di avere udito prima dei colpi singoli e poi colpi a raffica, modalità di azione questa che certamente appare poco compatibile con quanto sostenuto dalla consulenza della Polizia scientifica in quanto se si spara ad un bersaglio mobile appare più efficace sparare subito a raffica per “ottimizzare” il risultato. Tantomeno i brigatisti hanno mai fatto alcun riferimento ad un attacco precedente il momento in cui le due autovetture erano state bloccate all’incrocio. Se così fosse stato non vi sarebbe stata ragione logica di non dirlo. Né Bonisoli né Gallinari inoltre hanno mai affermato di aver occupato diverse posizioni di tiro, più in alto e più in basso, nelle varie fasi dell’azione un attacco in movimento e quindi in pratica anticipato, avrebbe comportato la perdita dell’effetto sorpresa e cioè il maggior punto di forza di cui i brigatisti disponevano. Sarebbe stato tecnicamente un suicidio. Inoltre la vicinanza di tiro è determinante per la buona riuscita di un agguato nei confronti di più soggetti a loro volta armati avrebbe altresì facilitato una fuga delle due auto perché avrebbero avuto un maggior spazio di manovra. Infatti non erano ancora bloccate dalla Fiat giardinetta guidata da Moretti o da altre auto come la Austin Morris parcheggiata sulla sinistra di via Fani prima dell’incrocio. La fuga in particolare sarebbe stata facilitata qualora, come ampiamente possibile, i primi colpi sparati a distanza, non fossero riusciti ad uccidere subito l’autista Domenico Ricci della Fiat 130 di Moro e l’autista dell’Alfetta Giulio Rivera. Le due autovetture infatti avrebbero potuto “sganciarsi” a destra o a sinistra o anche effettuare una inversione ugualmente un’azione prematura e a distanza non avrebbe dato alcuna garanzia che l’on. Moro uscisse illeso dalla sparatoria. Anche se fosse rimasto semplicemente ferito ciò avrebbe comportato il fallimento dell’obiettivo essenziale dell’azione e cioè il sequestro del dirigente politico avrebbe comportato altresì che gli sparatori, soprattutto i due “avieri” collocati più in alto in via Fani e cioè Gallinari e Bonisoli, dopo avere iniziato a sparare, si muovessero di 10/15 metri verso la parte bassa di via Fani per continuare la loro azione.

Tale modalità di fuoco avrebbe comportato certamente ulteriori difficoltà in soggetti che, come risulta concordemente dagli atti, non avevano un’elevata preparazione militare17. D’altronde lo stesso Franco Bonisoli nella sua pur confusa audizione del 4 febbraio 2022 dinanzi a questa Commissione ha escluso18, ed è stato questo uno dei pochissimi elementi di certezza che ha fornito, che si fosse iniziato a sparare alle autovetture quando erano ancora in movimento.

In conclusione è probabile che nel momento in cui è stato aperto il fuoco, l’auto Fiat 130 dell’on. Moro stesse effettuando qualche movimento in avanti e indietro nel tentativo di spostarsi a destra per superare l’ostacolo costituito dalla Fiat 128 tg. CD di Moretti e che l’Alfetta di scorta avesse ancora un breve spazio da percorrere prima di rimanere a sua volta bloccata. Ma non di più. La ricostruzione della Polizia Scientifica, sembra quindi non del tutto congruente con la dinamica dell’azione.

Nella versione “ufficiale” sinora accreditata, Franco Bonisoli, ultimo degli avieri partendo dall’incrocio tra via Fani via Stresa e collocato come gli altri sul lato sinistro, avrebbe impugnato un mitra FNA 43 di provenienza della seconda guerra mondiale19 e con questo avrebbe iniziato a sparare. Il mitra si sarebbe comunque inceppato quasi subito e Bonisoli avrebbe dovuto ricorrere all’ arma corta di riserva una Beretta 51calibro 7.65 sparando con questa altri colpi. Probabilmente avrebbe colpito a morte l’agente Iozzino e comunque a lui solo e alla sua azione sarebbero riferibili i 49 colpi repertati nella parte alta di via Fani, quelli indicati in colore rosa20 e in più i 4 colpi almeno sparati con la Beretta 51 cal. 7.65. rinvenuti sul lato destro di via Fani. In tutto ben 53 colpi, più della metà di quelli accertati complessivamente in via Fani.

Infatti Bonisoli avrebbe aggirano l’Alfetta portandosi sul lato destro di via Fani per colpire gli agenti della scorta morti o moribondi. I bossoli lui attribuiti sono i 4 con le sigle TO, CX-ZV e T, prossimi alle vetture e gli unici provenienti appunto da una 7.65. La geografia dei colpi quale risulta dalla già citata planimetria pone dei dubbi sulla certezza di questa ricostruzione. Dalla planimetria nonché da una fotografia della parte alta di via Fani in cui si nota la distanza significativa, circa 13 metri, tra le tre auto incolonnate in prossimità dell’incrocio e le due autovetture parcheggiate sul lato sinistro. Poiché, come si è spiegato, nè Bonisoli né Gallinari sono entrati in azione mentre le due vetture erano in movimento essi si trovavano, come rappresentato nelle immagini, verosimilmente in posizione frontale rispetto alle stesse ormai bloccate dalla Fiat giardinetta tg. 19707 CD di Mario Moretti.

Nella fotografia le posizioni di Bonisoli e Gallinari sono rispettivamente quelle indicate con le frecce in centro e a sinistra mentre la freccia destra indica il punto dove in realtà è stato rinvenuto sul terreno il maggior numero di colpi (quelli indicati rosa nella ricostruzione planimetrica) e potrebbe essersi trovato tanto Bonisoli quanto uno sparatore non identificato. Nel disegno l’ultimo in alto è sempre Bonisoli. Del resto Franco Bonisoli nella sua audizione dinanzi alla Commissione del 4 febbraio 2022, richiesto di precisare sulla planimetria in che posizione di tiro si trovasse, ha indicato, comunque pur nell’estrema incertezza del suo racconto, punti se non proprio frontali rispetto all’Alfetta21 comunque ben diversi da quelli di chi avrebbe sparato coperto dall’autovettura in sosta e non ha parlato di discese o salite lungo via Fani ma semmai di passi in avanti.

Vi è da aggiungere che se Franco Bonisoli avesse sparato da solo tutti i colpi ora ricordati i suoi movimenti sarebbero stati molto singolari, una specie di balletto. Infatti inceppatosi il mitra si sarebbe spostato a destra e in diagonale, in pratica avrebbe fatto un salto all’indietro retrocedendo sino al marciapiede per nascondersi dietro la Mini Cooper, avrebbe iniziato a sparare praticamente dal marciapiedi (rosa K) per poi sparare di nuovo poco all’esterno dell’auto (rose B e Z) e scendere verso l’Alfetta (bossolo J) e continuare a sparare con la 7.65 lungo il lato destro. Un insieme di movimenti che sarebbe stato veramente difficile in quel contesto. Tale prospettiva, in sostanza la difficoltà ad individuare in Bonisoli il soggetto si sarebbe trovato in alto nascosto dietro la vettura Mini Cooper e avrebbe da solo sparato 49 colpi, non corrisponderebbe agli esiti delle varie perizie secondo le quali i 49 colpi repertati in quella zona apparterrebbero tutti ad una medesima arma, un FNA 43 o un’arma simile. Tuttavia la ricerca e l’esame dei reperti e l’esito delle perizie balistiche svolte nelle varie fasi del caso Moro è stato quantomai incerto e accidentato. Basti pensare che i proiettili recuperati dai corpi degli agenti uccisi e dalle autovetture non furono repertati né consegnati ai periti cosicché questi non poterono in realtà affermare od escludere in modo certo che non fossero state usate altre armi di cui esistevano i proiettili ma fossero stati, per qualsiasi motivo, perduti i bossoli22. Ancora: si ricordi nel 2015, nel corso dell’attività delegata dalla seconda Commissione Moro, la Polizia scientifica è riuscita a scoprire un frammento di proiettile ancora incastrato nell’intercapedine dello sportello posteriore sinistro dell’Alfetta23. Dubbi ed incertezze, come si dirà anche in seguito, quindi restano.

1 Consegnati sempre disordinatamente ai periti, spesso mancanti di alcuni reperti o con l’omessa indicazione del punto esatto ove erano stati rinvenuti si veda ad esempio la nota 129 riguardante l’ipotizzata presenza di Antonio Nirta in via Fani.

2 Per un’ampia esposizione degli errori e delle imprecisioni che hanno contrassegnato sino ai tempi più recenti l’esame dei reperti e le perizie balistiche si veda lo studio del collettivo Sedicidimarzo in data 2 settembre 2022 Note sulle perizie di via Fani.

3 A mero titolo di esempio ad una testimone così importante come Elsa Stocco, che aveva assistito come si dirà al decisivo passaggio in via Bitossi di due borsoni da un’autovettura ad un furgone, una testimone certamente non molto pratica di autovetture, non sono state mostrate durante le audizioni le fotografie dei vari modelli, la Fiat 132, la Fiat 128 e i vari tipi di furgone al fine di individuare con il maggior grado possibile di certezza quale mezzi ella avesse visto. Un danno purtroppo non più rimediabile.

4 Che in più si sono alternati tra loro tanto che i verbali istruttori sono stati redatti da quasi una decina tra Pubblici Ministeri e Giudici Istruttori nessuno dei quali quindi poteva avere probabilmente una visione completa del quadro.

5 Anche se, come si dirà in seguito, non tutte le conclusioni cui è poi pervenuta la Polizia Scientifica sono condivisibili.

6 Si veda l’audizione di Franco Martines, in data 23 dicembre 2021 dinanzi al consulente dr. Guido Salvini con la consegna del materiale elaborato. Il gruppo di ricerca Sedicidimarzo non ha caratterizzazioni politiche. Nel sito sono pubblicati anche molti contributi di rilievo di Maurizio Barozzi che non fa parte del collettivo ma ad esso ha inviato i suoi studi su via Fani.

7 Tali bossoli sono contrassegnati in giallo con la sigla MAR, cioè marciapiede. Il lavoro di ricerca del Collettivo ha consentito inoltre di individuare con maggior precisione e siglare 10 bossoli. Si veda il contributo “Appunti sul bossoli rinvenuti in via Fani” prodotto da Franco Martines nel corso della sua audizione.

8 Nel gennaio 1993 Mario Moretti, dopo soli 12 anni di detenzione, ha infatti goduto di un permesso premio di 4 giorni seguito il 9 aprile da un secondo permesso di tre giorni. Un “risultato” penitenziario sorprendente, molto più favorevole di quello di quasi tutti i comuni ergastolani, per il capo brigatista, né pentito né dissociato e condannato a sei ergastoli non solo per il delitto Moro ma per numerosi altri delitti. Nel luglio 1997 Moretti ha poi ottenuto la semilibertà. È andata ancora meglio al dissociato Valerio Morucci che già nell’aprile 1993 ha ottenuto addirittura il lavoro esterno al carcere, beneficio di cui nel successivo mese di giugno ha usufruito anche Adriana Faranda. Dal 1994 Laura Braghetti, la carceriera di Moro, è posta in regime di lavoro esterno e nel 2002 otterrà anch’ella la liberazione condizionale. La verità parziale rappresentata dal memoriale Morucci (certo non inutile ma appunto parziale) e i benefici penitenziari concessi ai brigatisti in tempi piuttosto ravvicinati sono stati spesso considerati il frutto di un compromesso politico-giudiziario. La soluzione politica si sarebbe realizzata in cambio del silenzio dei brigatisti sugli originali degli interrogatori dell’on. Moro. Il “memoriale”, dopo una lunga incubazione era stato redatto da Morucci con l’aiuto del giornalista del quotidiano della Democrazia Cristiana Il Popolo Remigio Cavedon ed inviato in anteprima presso la sua abitazione privata al Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il quale lo aveva trattenuto circa 40 giorni prima di trasmetterlo alla Ministero dell’Interno. Il memoriale era giunto poi con ritardo alla magistratura che avrebbe dovuto esserne la prima destinataria. Si rimanda in proposito alla relazione della seconda Commissione Moro in data 20 dicembre 2016 e all’ampia pubblicistica disponibile.

9 Sulla figura di Moretti si veda la recente ricerca di Simona Folegnani e Berardi Lupacchini, Brigate Rosse l’invisibile: dalla Spiotta a via Fani, ed. Falsopiano, 2021, riguardante il rapimento ad opera delle Brigate Rosse dell’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia e la sua liberazione il 5 giugno 1975, dopo un conflitto a fuoco in cui rimasero uccisi il carabiniere Giovanni Alfonso e Margherita Cagol, moglie di Renato Curcio. La ricerca giunge con elementi molto convincenti ad individuare proprio in Moretti il brigatista mai individuato e di cui nessuno aveva mai parlato, che riuscì a fuggire dalla cascina Spiotta, abbandonando la Cagol. La sua identità, nel corso di tutte le indagini sulle BR non era mai stata rivelata da nessuno.

10 Inoltre Rita Algranati era collocata nella parte alta di via Fani con il compito di segnalare, agitando un mazzo di fiori, l’arrivo dell’autovettura di Moro e dell’Alfetta di scorta.

11 Ad esempio Raffaele Fiore ha dichiarato di non essere riuscito a sparare nessun colpo per l’immediato inceppamento del mitra MP 12 mentre gli accertamenti balistici gli attribuiscono 3 colpi. In generale sulle difficoltà di attribuzione di alcuni colpi si veda la relazione della Polizia scientifica, pp. 39-40. Le incertezze riguardano circa 8 bossoli.

12 Si consideri che il numero dei colpi sparati complessivamente dai brigatisti è certamente superiore a 91 in quanto alcuni bossoli e proiettili sono andati con ogni probabilità dispersi a causa dei movimenti della folla presente sul luogo ed anche di altri ostacoli al rinvenimento degli stessi quali il tombino visibile, sul marciapiede destro di via Fani, nei pressi del quale infatti sono stati rinvenuti vari bossoli.

13 Disegnate in colore rosa nella planimetria.

14 Si ricordi che la Fiat a 127 rossa, che è ben visibile in molte fotografie ma di cui era ancora ignoto sino ad oggi il proprietario, probabilmente non era parcheggiata in quel punto al momento dell’agguato ma può essere comunque utilizzata quale riferimento sul piano spaziale. Si vedano gli accertamenti richiesti da questa Commissione cui ha dato risposta la DIGOS di Roma con annotazione in data 11 marzo 2022. La DIGOS, dopo ricerche, ha accertato che la Fiat a 127 rossa, visibile nelle fotografie subito scattate in via Fani, apparteneva a Sergio Lionelli, deceduto, già abitante nei pressi di via Fani ed era stata da questi parcheggiata dinanzi al bar Olivetti immediatamente dopo la fine della sparatoria. È singolare però che tale vettura non sia stata rilevata nei rapporti di Polizia, il nome del suo proprietario non sia stato nemmeno annotato e che questi non sia stato mai sentito.

15 Per una esposizione agevole e dettagliata delle dichiarazioni dei 34 testimoni oculari sentiti si veda Romano Bianco e Manlio Castronuovo Via Fani ore 9.02, edizioni Nutrimenti, 2010.

16 Infatti ben 11 testimoni, Pietro Lalli, Domenico Calia, Paolo Pistolesi, Lina Procopio, Cristina Damiani, Eufemia Evadini, Giovanna Conti, Antonio Buttazzo, Eleonora Skerl, A. Caliò e Sergio Vincenzi hanno parlato prima di colpi singoli e poi di colpi a raffica. A titolo di esempio Pistolesi, sentito il 16 marzo 1978, titolare dell’edicola in via Fani, qualche istante prima aveva “visto transitare, come altre mattine, ad elevata velocità l’autovettura dell’on. Moro seguita da quelle della scorta”; ad un tratto aveva udito “un colpo e poi, a breve intervallo, altri due colpi di pistola “. Subito dopo però “echeggiarono, chiarissime, una o due raffiche di mitra”. Evadini, sentita il 22 marzo 1978, stava percorrendo via Fani e aveva “sentito due macchine che mi avevano superato, andando giù hanno frenato bruscamente e si sono tamponate. Poi aveva “sentito nitidamente due spari e, subito dopo delle raffiche”. Conti, escussa il 16 marzo 1978, si trovava in casa in via Fani e aveva sentito “due colpi e, subito dopo, una serie di colpi in rapida successione”.

17 Tra l’altro le due autovetture stavano percorrendo, come d’uso, via Fani ad alta velocità e questo rendeva ancor più problematica un’azione prematura contro mezzi in rapido movimento.

18 P. 21 della trascrizione.

19 Peraltro mai rinvenuto e sul quale nessun brigatista ha fornito mai alcun informazione.

20 Un bossolo, contrassegnato con la sigla N, è stato persino rinvenuto sul tettuccio della Mini Cooper.

21 Quelli corrispondenti ai reperti ZN e ZU, p.24 della trascrizione.

22 Cfr. perizia Ugolini- Ronchetti- Merli depositata l’1 ottobre 1993 nel processo Moro quater, p.38.

23 Pp. 24-25 della relazione della Polizia scientifica. Anche dal lavoro e dalla geografia dei bossoli resa nella planimetria effettuata dalla Polizia scientifica erano inoltre rimasti esclusi due bossoli Smith & Wesson, quelli rinvenuti nella parte più interna del marciapiede sinistro di via Fan, addirittura oltre la Mini Cooper, e quindi i più distanti dalle auto attaccate. I due bossoli sono stati rilevati solo dal lavoro di rielaborazione del collettivo Sedicidimarzo e sono contrassegnati con la sigla MAR. Sono visibili in giallo nella planimetria allegata. La presenza di bossoli così distanti può essere interpretata con una fuga all’indietro di Gallinari, che disponeva appunto di una Smith & Wesson, nel momento in cui il suo mitra si era inceppato ed anche quello di Bonisoli e vi era quindi il pericolo costituito dalla reazione dell’agente Iozzino prima che lo sparatore in alto a destra lo colpisse.

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