Proposta Radicale 2/3 2022
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Guerra e nonviolenza

Una conversazione tra Marco Pannella e Adriano Sofri 

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Oblio oncologico, il marchio indelebile

di Pietro Luigi Lopalco, Antonio Tutolo, Lucia Parchitelli

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Guerra e nonviolenza

Guerra e nonviolenza

Una conversazione tra Marco Pannella e Adriano Sofri 

Sono ormai trascorsi più di sei anni dalla morte di Marco Pannella. Vogliamo ricordare, con le pagine che seguono le sue idee, di straordinaria attualità sulla nonviolenza, la guerra, il pacifismo. Si tratta di un ampio stralcio di una lunga conversazione tra Pannella e Adriano Sofri il 20 gennaio 1993 in occasione del XXXVI congresso del Partito Radicale. Il testo completo è nel volume “Marco Pannella, il Partito Radicale, la nonviolenza”, a cura di Laura Arconti e Maurizio Turco.

 

Sofri: Alla conferenza tenuta a Sanremo fra pacifisti della ex Jugoslavia ed europei sono stati gli stessi militanti del Centro antiguerra di Belgrado ad auspicare la formazione di una Corte internazionale sotto l’ombrello dell’Onu e della Csce. Un simile organismo potrebbe diventare, a differenza di quanto avvenne a Norimberga, un tribunale permanente contro i crimini di guerra. E intanto anche un solo paese, come l’Italia, potrebbe decidere di prepararne e anticiparne l’operato aprendo un registro delle denunce e delle testimonianze. La guerra nell’ex Jugoslavia ha accentuato una rottura con associazioni pacifiste, benché fra queste ultime si siano fatte strada posizioni più duttili e decise a confrontarsi con le situazioni concrete. Peccato, no?

Marco Pannella: “Siamo alla fine di un secolo, e all’ora dei bilanci. Uno che ha l’età del secolo è Karl Popper, la cui opera principale, “La società aperta e i suoi nemici”, in Italia restò pour cause inedita per quasi mezzo secolo, fino al 1974, quando uscì da Armando. Cinque anni fa ne avevo letto l’apologia dell’uninominale a un turno anglosassone. Ho scoperto da poco, grazie al libro intervista del vicedirettore dell’Unità, Giancarlo Bosetti, che questo ultraliberale è anche uno studioso appassionato della nonviolenza e di Gandhi. Ricordo viceversa lo sconcerto che provai quando Ralph Dahrendorf mi comunicò candidamente di non aver mai pensato che ci fosse una distinzione fra nonviolenza e pacifismo. La lettura del pacifismo è univoca, e se ne traggano le conseguenze: nelle catastrofi, nelle mostruosità del secolo esso ha pesato tragicamente a vantaggio dei dittatori e a costo degli oppressi; a vantaggio degli stati totalitari militaristi e contro le democrazie da riarmare; è stato un fattore psicologico influente della politica di Monaco, e dell’avversione all’Occidente. È stato portatore di atteggiamenti messianici e irenici, Gandhi era altra cosa. Ho trovato in uno scritto di tuo fratello l’affermazione gandhiana che la violenza per una causa giusta è più lodevole di una vile adesione all’ingiustizia. Sul Golfo alcuni di noi dissero, soltanto a operazione iniziata, che non ritenevano negativo che l’Italia partecipasse. Questo, e non altro. Mi pare che la Jugoslavia e il Medio oriente dimostrino che i guai peggiori succedono per l’inadeguatezza dello strumento militare, la cui sofisticazione tecnologica non lo rende meno rozzamente unilaterale, e che tuttavia si continua a ritenere il solo possibile. Tanto più quando si deve mettere insieme la schematicità di un piano militare con le montagne della Bosnia o del Montenegro, invece che coi deserti della Somalia. Come Bruno Zevi non si stanca di ripetere, la nostra società ha superato la linearità per la complessità. Le opzioni militari restano invece sempre un eccesso di zelo della linearità. La forza delle armi, la loro presunta “intelligenza”, sono una cruna d’ago troppo stretta per farci passare i problemi del mondo. Se le armi prevalessero sulla verità – l’informazione, l’istruzione, la cultura – alla fine del secolo i poveri fantasmi di oggi sarebbero antagonisti irriducibili. Il diritto all’ingerenza, di cui si comincia a parlare, è da anni un cardine della nostra azione. Nell’appello dei premi Nobel del 1981 era già teorizzato il dovere dell’ingerenza”.

Sofri: Ho letto anch’io il Gandhi citato da mio fratello, che deplorava una nonviolenza che fosse frutto di codardia. Tuttavia è impossibile ogni ricorso univoco a Gandhi. Alcuni pacifisti gli chiesero spiegazioni e contro delle circostanze in cui accettò l’entrata in guerra – nella guerra anglo-boera, o contro gli zulù, o l’intervento indiano con l’esercito britannico nel ‘14-’15. Secondo i suoi migliori biografi, la vera scelta per un pacifismo intransigente, assoluto – per lui il pacifismo era l’estensione ai rapporti internazionali della nonviolenza – non venne se non nel ‘35-’36. Sarebbe impossibile utilizzare direttamente il Gandhi, se non di Monaco – l’Europa ha venduto, disse, la sua anima per un tozzo di pane – della risposta al nazismo e della seconda guerra mondiale. Mi pare che la distinzione fra pacifismo e nonviolenza venga dopo e abbia a che fare con il pacifismo come movimento ideologico, o appendice di schieramenti politici. Sulla Bosnia, oggi, se ci sono posizioni di principio che escludono ogni intervento militare – come quelle dei “Beati costruttori di pace”, autori recenti di un ammirevole pellegrinaggio a Sarajevo – c’è molto più diffusa, anche se più o meno dichiarata, una disponibilità ad affrontare il problema delle condizioni concrete di un ricorso alla forza, da parte di chi, con quali fini e quali rischi e così via. L’eventualità di un intervento internazionale per aprire i corridoi di accesso, e di uscita, da Sarajevo; o per colpire aeroporti, installazioni di armamenti pesanti, linee di rifornimento e di comunicazione da cui muovono gli attacchi e i bombardamenti ai civili; tutto ciò non viene affatto respinto da gran parte dei “pacifisti” europei. Forse occorrerebbe mirare a un confronto più largo e produttivo di iniziative concrete. Voi siete stati fra i primi, se non i primi, ad andare in Jugoslavia, e contate oggi su una fiducia importante anche da parte di esponenti musulmani. Ho visto anzi che complessivamente fra gli iscritti stranieri al Partito Radicale c’è un venti per cento di musulmani, che è una proporzione notevole per sé, e ancora più notevole per una formazione che non accetta compromessi sulla confusione dell’antisionismo.

Pannella: “Dal ‘79 siamo andati ogni anno in Jugoslavia; incontravo gli sloveni, i croati. Il Partito Radicale è stato il primo partito cui fosse possibile iscriversi in Jugoslavia al tempo del monopolio di fatto della Lega dei Comunisti: e si iscrissero in 5-600. Quando emerse la volontà slovena e croata, di indipendenza non più in una federazione, ma in una Confederazione associata alla Cee, e venne un no assoluto, ultrabelgradese, da Gianni De Michelis, dalla Cee, noi dicemmo che bisognava accettare, e che intanto si dovessero accogliere a titolo intero le repubbliche che avessero garantito i diritti civili e umani. Ci vietarono il congresso a Zagabria – fu in parte una fortuna, andammo a Budapest. Nel 1988 i giovani socialisti di Slovenia accolsero in loro strutture pubbliche il nostro Consiglio Federale, in aperta ribellione al divieto di Belgrado. Fui l’unico politico straniero nella Lubiana minacciata dai bombardamenti. A Zagabria il presidente del Consiglio Greguric e il vicepresidente Tomac si iscrissero pubblicamente al partito, e con loro 4 ministri, 40 deputati. Tutto ciò ha contato quando si è trattato di far scegliere al presidente Tudjman contro gli ustascia e l’estrema destra. Avevamo digiunato per loro, eravamo stati gli unici amici su cui potessero contare in Europa: e ci furono momenti in cui i più consapevoli fra loro poterono far pesare contro le scelte più brutali l’avvertimento che sarebbe costato la rottura con noi. Così nel momento delicatissimo in cui si giocava l’accordo con la Serbia per spartirsi tutta la Jugoslavia. Adesso sono stati sconfitti, quei nostri amici, ma per fortuna troppo tardi per tornare indietro. Sull’uniforme croata che indossai c’era il mio nome, l’aveva ricamato per me la moglie del comandante delle Forze armate croate. C’era già chi, da una vita trascorsa a Belgrado, ci diceva: faranno peggio che nel ‘44-’46, si scanneranno”.

Sofri: C’è tuttavia il rischio che la conferenza di Ginevra finisca nel modo peggiore, e non del tutto dissimile dalla Monaco del ‘38, con un’autorizzazione internazionale a punire i Bosniaci che non si adattino alla spartizione etnica. E c’è il rischio che l’accordo fra Croazia e Serbia riaffiori sulla pelle della Bosnia.

Pannella: “Ginevra va bene, si dialoga anche, anzi soprattutto con gli assassini, ma che sappiano che è già incardinato il processo che perseguirà ciò che hanno fatto e ciò che faranno. Ma il piano stesso elaborato da Owen e Vance a Ginevra, quello delle 10 province, è gravissimo. Mira in sostanza a riportare a un 40-45 per cento il 70 per cento del territorio occupato dai serbi. In quei territori vigeva fino a poco fa la coesistenza etnica. Abbiamo insistito da tempo sulla necessità di un accurato censimento dei profughi, con i luoghi di provenienza e le minoranze di appartenenza, perché si ricostruisca l’anagrafe distrutta per il giorno del ritorno”.

Sofri: È proverbiale l’ostinazione con cui tu rimanevi in città in agosto, perché nella vacanza universale era più facile conquistarsi uno spazio nei media. Così, addirittura a metà dell’agosto del 1974, strappasti a una sonnacchiosa direzione del Corriere della Sera l’ospitalità, sia pure in un minuscolo corpo 7, a un articolo che proponeva un “processo penale e non morale” alla classe politica. Pochi giorni dopo, Pier Paolo Pasolini, eccitato dall’idea, la riprese e, col risalto della prima pagina, la rilanciò: il processo al Palazzo. Sono passati quasi vent’anni, e il processo penale al palazzo è arrivato: quanto simile e quanto diverso dalla profezia-anatema di allora?

Pannella: “Non me ne ricordavo più, di aver proposto una cosa così essenziale: a tal punto la memoria si fa intermittente. La censura e la rimozione altrui fanno sì che anche per te la tua immagine si allontani dalla tua identità vera, e questo è terribile. Il processo penale è in corso, anzi è appena agli albori, se si bada, prima e più che al furto di denari, al furto di legalità. C’è un mancato rispetto per le regole che è istintivo, naturale piuttosto che doloso, frutto di un’abitudine, una mentalità, una cultura che assimilano largamente al ceto politico gli uomini del terzo e del quarto potere, i giudici e gli attori dell’informazione. A questa cultura e alle sue sottospecie lo stato di diritto è estraneo più che bestemmiato, i principi liberali ignorati più che deliberatamente offesi. Li incontrano da una parte come una nozione astratta e inutile, dall’altra come un impaccio pratico e un fastidio: li chiamano garantismo, e hanno fretta di sbarazzarsene. È bene che si perseguano i furti e le loro destrezze maggiori o minori, ma è decisivo che si restauri, o si instauri, la regola del non rubare, e del creare, dell’aggiungere, piuttosto che del rubare. Anche per questo il primo addebito da contestare dovrebbe essere l’associazione per delinquere. Molti magistrati, e moltissimi giornalisti, sono attenti solo alle private disonestà; l’omissione del reato di associazione riduce alla loro somma decisione politiche (e di vita) che al contrario inducono infinite disonestà anche negli onestissimi. È una scelta di politica giudiziaria, tendenzialmente omissiva: tiene sotto gli uomini contro cui si batte, o il potere cui appartengono, con meccanismi di distruzione-sostituzione dell’avversario. Sento aleggiare attorno ad alcuni alti magistrati la destinazione imminente a governare, ormai da ex-giudici, la cosa pubblica. È un paradosso: ma può avvenire da noi in questa forma un fenomeno affine al ruolo populista e giustizialista dei militari in America del sud o in genere nel Terzo Mondo, che fa passare quei regimi dalla padella della democrazia fittizia e corrotta alla brace delle giunte di salute pubblica. Al “processo” che nel ‘74 chiesi, e chiese poi magistralmente Pasolini, era estraneo ogni impulso di giustizia sommaria e di strada. Quel processo noi abbiamo lavorato a incardinarlo, con atti concreti e rituali, anno dietro anno. Anche questo si rischia di dimenticare. Come quando dopo la campagna elettorale del 1983 – “non votateci”, dicemmo, perché i dadi sono truccati, perché senza conoscere non si può deliberare; partecipiamo solo per denunciarlo – fummo assenti il giorno dell’apertura della legislatura, perché eravamo in tutte le procure generali italiane a presentare e illustrare denunce formali di attentato alla Costituzione e sequestro di legalità da parte del potere di fatto. E non avevano a che fare col “processo”, col suo incardinamento, le questioni sottoposte alla Corte Costituzionale, ridotta troppo spesso a un tribunale speciale di tutela del regime e non della legge? Sulla scia dei processi provocati, la Corte arrivò bensì, sotto Branca, e ancora con Bonifacio, alla demolizione dei codici fascisti. Ma quanto più regolarmente avallò poi convenienze politiche, dalle emergenze all’”ondata referendaria”, o alle pensioni, per le quali una “incompatibilità economica” magari plausibile (l’equivalente del sostanzialismo delle emergenze criminali ecc.) soppiantava la legge, invece di modificarla, o rispettarla? Così fino al referendum sul Senato respinto tre anni fa: si sarebbe votato già col sistema misto, dei due terzi con l’uninominale all’inglese, un terzo con la proporzionale – oggi ormai inadeguato, ma allora ancora capace di far da ultimo atto a un trapasso non traumatico del regime; respinto allora sulla base di motivazioni ogni volta estemporanee, e accolto oggi. Senza il voto determinante di Conso, neanche il referendum sulla preferenza unica sarebbe passato”.

Oblio oncologico, il marchio indelebile

Oblio oncologico, il marchio indelebile

di Pietro Luigi Lopalco, Antonio Tutolo, Lucia Parchitelli

La questione, sottaciuta se non proprio negata, è stata sollevata qualche mese fa dalla presidente dell’Istituto Luca Coscioni Maria Antonietta Farina Coscioni. In un intervento per “La Stampa” parla del vero e proprio calvario patito da malati o di ex pazienti oncologici, vittime di discriminazioni e veri e propri attentati alla dignità di cui tutti hanno diritto: “In Italia”, scrive Farina Coscioni, “almeno un milione di persone guarite dal cancro subisce discriminazioni: non possono accedere a mutui, adottare bambini; negati avanzamenti di carriera, ottenere prestiti e finanziamenti per aprire un`attività, nessuna copertura assicurativa. In Francia, Lussemburgo, Belgio, Olanda, Portogallo, il diritto all`oblio oncologico è una realtà: la legge garantisce agli ex pazienti oncologici il diritto a non essere discriminati, a non essere “rappresentati” dalla malattia. In Italia no. Sono tanti i malati oncologi anche se in follow-up”. E sì che la guarigione da una malattia oncologica, passa anche dal pieno inserimento nella società”. Cosa fare, dunque? Assicurare un pieno riconoscimento del cosiddetto diritto all’oblio: “Si avrebbe la parità di trattamento delle persone che sono state affette da patologie oncologiche, il pieno riconoscimento di tutti i diritti spettanti a un soggetto sano o malato che sia, senza discriminazione alcuna”.

Qualcosa, comunque, comincia a muoversi, lo spesso muro dell’indifferenza e della non conoscenza comincia a sgretolarsi. 

 

Con l’Istituto Luca Coscioni il “Diritto all’oblio oncologico” diventa mozione in Regione Puglia di sollecito al Governo a firma Lopalco, Tutolo e Parchitelli

Consiglio Regionale della Puglia

Al Presidente del Consiglio

presidente@consiglio.puglia.it protocollo@consiglio.puglia.it

XI LEGISLATURA Mozione

OGGETTO: Legge nazionale sul diritto all’oblio oncologico

I Sottoscritti Consiglieri Pietro Luigi Lopalco, Antonio Tutolo, Lucia Parchitelli

PREMESSO CHE:

  • Nel nostro Paese, un milione di persone è guarito dal cancro ma subisce discriminazioni: per accendere un mutuo, per adottare un bambino, per l’avanzamento di carriera, per chiedere un prestito od ottenere un finanziamento, per aprire un’attività, per richiedere una copertura assicurativa, per il reinserimento lavorativo.
  • Con il riconoscimento del diritto all’oblio oncologico, ad esempio, per accedere a servizi bancari, finanziari e assicurativi, non potranno essere richieste alla persona informazioni sullo stato di salute relative a malattie oncologiche pregresse, quando sia trascorso un certo periodo di tempo da individuare dalla fine del trattamento attivo in assenza di recidive o ricadute della patologia. Tali informazioni non potranno più essere considerate ai fini della valutazione del rischio o della solvibilità del cliente. E lo stesso discorso andrà fatto per l’accesso alle adozioni di minori. Perché se in linea generale le condizioni di salute degli aspiranti genitori adottivi non sono di per sé motivi escludenti l’idoneità all’adozione, in pratica la diagnosi di una patologia oncologica, di una malattia con una prognosi sfavorevole per la vita, è verosimilmente ritenuta condizione ostativa all’adozione, quindi essere preclusa la possibilità di adottare, pur in assenza, nel nostro ordinamento, di un divieto di legge.
  • Negli ultimi 3 anni, tra l’aprile 2019 e il febbraio 2022, ben cinque paesi europei hanno approvato norme che garantiscono agli ex pazienti oncologici il diritto a non essere discriminati, a non essere “rappresentati” dalla malattia. Belgio, Portogallo, Francia e Olanda hanno varato appositi provvedimenti legislativi, mentre nel caso del Lussemburgo si è optato per una convenzione stipulata tra il Ministero della Salute e l’Associazione delle compagnie assicurative.
  • Al di là dei diversi strumenti legislativi che ciascun paese ha scelto per eliminare una simile odiosa discriminazione, il contenuto delle normative è sostanzialmente analogo e pressoché identiche le soglie temporali, superate le quali si ha diritto all’oblio: 5 anni dalla fine del protocollo terapeutico nel caso di tumori insorti prima del ventunesimo anno di età; 10 anni per quelli sviluppati dopo il compimento dei 21 anni di età (18 nel caso del Lussemburgo). Il legislatore francese, dopo un accordo trovato in commissione bicamerale paritetica, è andato persino oltre, stabilendo una soglia di 5 anni per tutte le persine guarite da un tumore, indipendentemente dall’età in cui questo è stato contratto.
  • Va in questa direzione l’appello: https://dirittoallobliotumori.org/ perché il nostro Paese si doti finalmente di uno strumento normativo in tema di diritto all’oblio oncologico anche nel nostro Paese.
  • Parallelamente, l’Istituto Luca Coscioni sostiene la campagna “io non sono il mio tumore”, “tu non sei il tuo tumore” avanzato dalla Associazione e Fondazione Italiana di Oncologia Medica insieme alle associazioni IncontraDonna, aBRCAdabra e Pazienti Italia Melanoma.

CONSIDERATO CHE:

  • In ambito UE, una risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2022 su Rafforzare l’Europa nella lotta contro il cancro – Verso una strategia globale e coordinata (2020/ 2267(INI)) nell’enunciazione dei campi di azione – al paragrafo 125 – «chiede che entro il 2025, al più tardi, tutti gli Stati membri garantiscano il diritto all’oblio a tutti i pazienti europei…».
  • L’Italia non si è ancora dotata di una normativa ad hoc, anche se sono state intraprese alcune iniziative parlamentari. Il 28 febbraio 2022 Paola Boldrini, vice presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato, ha infatti presentato un disegno di legge che, sulla scia dei provvedimenti legislativi Consiglio Regionale della Puglia varati nei cinque paesi europei sopra menzionati, mira a introdurre anche in Italia il diritto all’oblio oncologico. Dal canto suo, il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri ha assicurato il proprio impegno, e quello del Ministero della Salute, affinché tale disegno di legge “possa essere incardinato quanto prima perché si possa avere una legge prima della fine della legislatura”.
  • Pur trattandosi di materia legislativa di esclusiva competenza nazionale, le istituzioni regionali possono comunque compulsare l’iniziativa legislativa nelle sedi competenti oltre che stimolare il dibattito pubblico.

TUTTO CIÒ PREMESSO, IMPEGNA LA GIUNTA REGIONALE

a promuovere in ogni sede opportuna il dibattito pubblico utile a stimolare l’azione politica sul diritto del cittadino all’oblio oncologico;

ad intraprendere ogni azione possibile presso le opportune sedi istituzionali, ed in particolare in sede di Conferenza Stato-Regioni, utile a rendere celere e finalizzare l’iter normativo avviato sul tema.

 

iMagz