Proposta Radicale 26/27 2024
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Lavoro e dignità contro le recidive

di Renato Brunetta*

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Carcere, recidiva zero Istruzione, formazione, lavoro

Il documento del CNEL

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Lavoro e dignità contro le recidive

Lavoro e dignità contro le recidive

di Renato Brunetta*

Negli ultimi mesi si è riproposto in modo dirompente il problema del sovraffollamento delle carceri italiane e dell’evidente disfunzionalità del sistema penitenziario, intesa come difficoltà a svolgere la propria funzione: garantire l’equilibrio tra la sicurezza nell’esecuzione penale e la rieducazione delle persone detenute. La crisi del sistema carcerario non è connotabile come una questione di destra o di sinistra, men che mai è risolvibile con una ricetta – per così dire – politica, in cui il dato squisitamente scientifico ne risulti oscurato. Piuttosto sappiamo che l’efficienza del sistema penale è, invece, un indicatore della qualità di una democrazia, del suo livello di sviluppo e della sua capacità di riconoscere e tutelare i diritti individuali anche dove e quando il patto sociale sia stato temporaneamente infranto dalla violazione di una norma penale.

Per misurare questo livello di efficienza non abbiamo che un riferimento costituzionale, l’articolo 27, che prescrive in modo puntuale che la pena non possa “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e debba “tendere alla rieducazione del condannato”. La grande sfida organizzativa e sociale del carcere, e anche delle misure alternative, è dunque quella di garantire l’equilibrio tra le necessità di una corretta e giusta esecuzione della pena con quella del rispetto dei diritti, della rieducazione e del reinserimento.

Osservando il contesto italiano possiamo affermare che, ad oggi, questa sfida ad oggi il carcere la sta perdendo. I dati ci dicono che il sistema penitenziario è affetto da due disfunzionalità croniche: il sovraffollamento e l’alto tasso di recidiva, due patologie strettamente interconnesse tra loro. Il sovraffollamento, il cui tasso medio supera il 120% con punte ben superiori al 150%, non significa solo mancanza di spazi, ma è indice del peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro all’interno degli istituti, già afflitti da gravi problemi strutturali quali le scarse condizioni igienico sanitarie, la carenza di personale medico e servizi inadeguati per i bisogni dei detenuti. L’alto tasso di recidiva, di circa il 70%, mette in luce le carenze dei programmi di rieducazione e reinserimento sociale e l’inadeguatezza dell’apporto di risorse e progettualità messe a disposizione dal sistema pubblico. La gran parte delle attività trattamentali in carcere è, infatti, totalmente demandata alla libera iniziativa della società esterna, il che genera differenze significative in termini di disponibilità e qualità delle attività trattamentali.

Offrire opportunità di lavoro e di formazione ai detenuti è importante per l’ozio forzato e il senso di apatia e noia tipicamente indotti dalla condizione detentiva e migliorare, al contempo, le loro prospettive di lavoro post rilascio, spesso purtroppo scarse.  Perché ciò avvenga, è necessario che il lavoro sia di elevato valore professionale, oltre ad essere svolto in condizioni sicure e con le dovute tutele. Il collegamento tra disoccupazione e recidiva, ormai accertato, conferma come l’occupazione sostenuta sia correlata a una ridotta recidività.

L’intervento del mondo dell’impresa risulterebbe, quindi, prezioso per garantire il matching tra formazione erogata ai detenuti e skill professionali richieste ai fini occupazionali, assicurando un inserimento diretto del detenuto nel mondo del lavoro in seguito al rilascio. I dati, però, ci indicano che le imprese sono poco impegnate nella causa sociale dell’inserimento lavorativo di queste persone e, quindi, del contrasto alla recidiva: del 33% dei detenuti coinvolti in attività lavorative (19.153 impiegati totali nel 2023) ben l›85%, lavora alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, usualmente per poche ore al giorno o al mese.

È dalla intuizione consapevole del Ministro Carlo Nordio circa la necessità di inserire ogni intervento di gestione dell’emergenza carceraria all’interno di un quadro sistemico di collaborazione tra società civile e sistema della giustizia imperniato sul principio costituzionale e sul coinvolgimento strutturale dei corpi intermedi e delle categorie produttive, che ha visto la luce il 17 giugno del 2023 l’accordo Interistituzionale tra Ministero della Giustizia e CNEL volto a promuovere, con attività concrete, il lavoro e la formazione quali veicoli di reinserimento sociale per le persone private della libertà.

Tre le tappe fondamentali del percorso intrapreso da DAP e CNEL. A partire dalla giornata del 16 aprile in cui si sono confrontati più di 400 addetti ai lavori. Un momento non episodico che ha ristabilito un ponte e individuato nel CNEL un “luogo” deputato alla condivisione di esperienze, opportunità, criticità, proposte e alla connessione tra i diversi attori. Sei sessioni di lavoro tematiche con proposte operative per identificare spunti e indicazioni per le tappe successive: la stesura del disegno di legge del CNEL sul reinserimento socio-lavorativo dei detenuti e la costituzione del Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale.

Il disegno di legge scaturito dall’accordo è volto ad offrire ai decisori pubblici strumenti giuridici idonei a migliorare l’attuale sistema di governance, agevolando – al contempo – l’elaborazione di una politica pubblica nazionale sul lavoro in carcere. La rivisitazione complessiva in materia di ordinamento penitenziario intende, quindi, concorrere alla strutturazione di una rete interistituzionale volta a gestire l’inclusione lavorativa nella sua globalità sia in carcere che nella fase post-rilascio. Declinando il principio costituzionale, viene prevista l’equiparazione salariale tra lavoratori liberi e lavoratori ristretti. Tra le misure: il recepimento del sistema regionale di governance multilivello, la valorizzazione della Cassa delle Ammende, la costituzione di un fondo volontario alimentato dalle fondazioni bancarie; e ancora il potenziamento della “Legge Smuraglia”, delle commissioni carcerarie e di quelle regionali per il lavoro penitenziario, fino al “collocamento mirato” dei giovani detenuti. E ancora, una piattaforma informatica e un punto unico di accesso per la sistematizzazione delle relazioni tra imprese e carceri.

In attesa dell’esame del disegno di legge, per dare coerente seguito all’accordo con il Ministero della Giustizia, il CNEL ha poi costituito un “Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale”, organismo interno al Consiglio, che vuole concorrere, in stretto raccordo con il DAP e attraverso il coinvolgimento dei corpi intermedi, alla realizzazione di un sistema integrato per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. Le reti non mancano, manca la loro sinergia operativa, da realizzarsi attraverso il Segretariato, accompagnando la complessità dei tanti attori coinvolti e facilitando l’interconnessione tra reti istituzionali, parti sociali e terzo settore.

La prescrizione costituzionale dell’art. 27 non solo esprime il fine istituzionale del sistema penale in un paese civile, ma anche il fondamentale contributo al progetto democratico e alla coesione sociale del nostro paese. Una democrazia compiuta deve essere capace di riconoscere e tutelare i diritti individuali anche dove e quando il patto sociale è stato temporaneamente rotto dalla violazione di una norma penale, prediligendo la rieducazione quale unico strumento che può disarmare la vendetta, la devianza e l’antisocialità. Affrontare efficacemente il tema della recidiva, può aiutarci a migliorare la nostra capacità di misurarci col complesso e più generale problema dell’inclusione sociale. Non integrare le persone abitualmente escluse dai processi di creazione di valore sociale ed economico (non solo ex-detenuti ma anche persone con altre forme di vulnerabilità sociale come migranti ed ex tossico-dipendenti) significa trasformarle in costi sociali per le nostre comunità, in termini sia di utilizzo di risorse pubbliche che di riduzione di sicurezza sociale e legalità.

Il problema dell’inclusione sociale richiede un approccio di sistema, basato sul dialogo istituzionale e sociale. Esattamente quello che grazie all’iniziativa del Ministro Nordio il CNEL è stato chiamato a fare, innescando ed immettendo in un circuito di reciproca collaborazione e coinvolgimento partecipativo tutti gli attori, a partire dal DAP che dell’intero sistema di reti non può che essere il primo e consapevole protagonista. Una sfida che il CNEL ha accettato nel nome della Costituzione e dei compiti che essa gli ha demandato, individuandolo quale luogo e snodo centrale per l’incontro e la partecipazione dei corpi intermedi all’analisi e alla risoluzione delle questioni sociali ed economiche di rilevanza nazionale. Una sfida complessa che non è possibile semplificare o ridurre a slogan o soluzioni salvifiche di immediata attuazione, ma che comporta invece il reciproco riconoscimento di una corresponsabilità collettiva che unisce istituzioni, imprese, società, di fronte a problemi che rischiano di erodere la coesione sociale e la qualità della nostra democrazia.  

*Presidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro

Carcere, recidiva zero Istruzione, formazione, lavoro

Carcere, recidiva zero Istruzione, formazione, lavoro

Il documento del CNEL

Lo Stato italiano destina oltre 3 miliardi di euro l’anno all’Amministrazione Penitenziaria (3,3 miliardi di euro nel 2022), di cui circa il 60% dedicato al corpo di Polizia penitenziaria e il 9% ai servizi per la custodia. Ciò nonostante, l’allocazione di tali risorse spesso non si traduce in una gestione efficace del sistema carcerario, che presenta in primo luogo una situazione di sovraffollamento cronico (condizione che riduce la possibilità dei detenuti di svolgere attività lavorative e formative).

Il tasso di affollamento ufficiale medio in Italia è del 110,6% nel 2023, il 4° più alto dell’Unione Europea (dopo Francia, Romania e Belgio), di 17 punti percentuali superiore alle media UE-27. Guardando invece al tasso di affollamento reale, che indica la percentuale di persone detenute in più rispetto ai posti effettivamente disponibili, la percentuale italiana sale al 119%. Tra le carceri più affollate emergono quelle di Lucca (190,0%), Milano San Vittore (185,4%), Varese (179,2%) e Bergamo (178,8%).

Malgrado un progressivo calo degli ingressi e tentativi da parte dei vari Governi di «svuotare le carceri» nel corso degli anni, il numero dei detenuti è pressoché stabile dal 2008, assestandosi a 60.166 nel 2023. Di questi, il 29,1% è over 50, un dato in aumento del 13,3% rispetto al 2010. Una popolazione carceraria sempre più anziana, con pene definitive da scontare sempre più lunghe, contribuisce a spiegare il calo degli ingressi e la contemporanea crescita delle presenze.

Il sovraffollamento comporta anche una maggiore incidenza di eventi critici, come violenze, aggressioni, autolesionismi e suicidi, che minano la sicurezza sia dei detenuti che del personale degli istituti penitenziari. In particolare, nel 2021 ci sono state 25 manifestazioni di protesta e 24 atti di auto-danno intenzionale ogni 100 detenuti (contro, rispettivamente, le 19 e i 18 del 2016).

Nelle carceri italiane vi sono inoltre spazi dedicati a lavoro e formazione che risultano inutilizzati, denotando una carenza di infrastrutture e opportunità per svolgere attività utili alla riabilitazione e al reinserimento sociale. Su 164 istituti (86,8% del totale) che hanno fornito informazioni sui loro locali adibiti ad attività lavorative e formative nel 2022, emerge la presenza di 627 spazi a disposizione. Di questi, il 58% sono spazi attivi e utilizzati, mentre il 42% degli spazi non sono attivi (molti dei quali in condizioni ottime o discrete). A tal proposito, il PNRR ha stanziato 132,9 milioni di euro entro il 2026 per la costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi per strutture penitenziarie, con l’obiettivo di favorire le attività lavorative e contrastare sovraffollamento e recidiva, all’interno di strutture a basso costo energetico. Gli stanziamenti consentiranno la realizzazione di 8 padiglioni penitenziari, per un totale di 640 nuovi posti detentivi.

Regime di detenzione

In Italia, nel 2022 i detenuti in custodia cautelare costituivano il 26% del totale: si tratta di individui detenuti in attesa di giudizio, privi di una sentenza definitiva, ma soggetti alle stesse condizioni dei detenuti già condannati. Nonostante la drastica riduzione dal 2008, anno in cui erano pari al 51,4%, il dato rimane superiore alla media europea (22%).

Nel 2023 sono 694, pari all’1,2% del totale, i detenuti sottoposti alle restrizioni del 41bis – un regime di detenzione introdotto per contrastare il fenomeno della criminalità organizzata che prevede l’isolamento dei condannati in celle individuali, con controllo 24 ore su 24. I reparti 41-bis sono distribuiti su 12 istituti; tra questi, l’istituto con più detenuti in regime speciale è quello dell’Aquila (150), mentre quello che ne ha meno è la Casa Circondariale di Nuoro-Baddu e Carros in Sardegna (3).

Solo 1 detenuto su 5 (pari al 21,2% del totale) in Italia risiede in sezioni a custodia aperta nel 2023, con un trend in calo del 53% rispetto al 2022 e del 61% rispetto al 2019. Nonostante queste sezioni siano considerate più capaci di favorire attività formative e lavorative, il 38,9% dei detenuti risiede ancora in sezioni a custodia chiusa.

L’area delle misure penali esterne, invece, comprende tutte quelle soluzioni alternative alla detenzione in carcere, come la libertà vigilata, la detenzione domiciliare, i permessi premio, la semilibertà, il lavoro esterno e la sospensione della pena con messa alla prova. Quest’area ha visto una crescita del 166% dal 2014, e nel 2022 sono stati concessi 24.704 permessi premio a persone detenute, ma con una concentrazione nelle carceri del Nord del Paese.

Le misure alternative sono stimate essere più efficaci in termini di riduzione della recidiva e di potenzialità reintegrativa rispetto a ogni forma di segregazione – grazie al mantenimento di legami familiari, sociali e lavorativi – favorendo quindi responsabilizzazione e partecipazione. Tuttavia, finché non sarà capace di sottrarre realmente spazio alla detenzione, affermando la cultura delle misure penali vissute all’interno della società, non sarà possibile considerare l’allargamento dell’area penale esterna come una conquista nel percorso verso un’esecuzione penale più aperta e differenziata.

Una forte problematica del sistema carcerario italiano rimane infatti la sua difficoltà a prevenire la recidiva e a favorire il reinserimento dei detenuti nella società. Oltre la metà dei detenuti è condannata per reati contro il patrimonio (24%), contro la persona (18%) e per stupefacenti (14%), e negli istituti penitenziari si registra un alto tasso di recidività: 6 condannati su 10 sono già stati in carcere almeno 1 volta. Si stima che questo dato possa calare fino al 2% per i detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale.

La carenza di personale che si registra nei Dipartimenti Amministrativi e nelle Direzioni degli istituti penitenziari limita la capacità di gestione e di controllo delle strutture e delle attività. Per esempio, nel 2021 la quota di istituti in cui era presente un direttore a tempo pieno era pari al 49%. Dunque, sono numerosi i direttori che prestano servizio in più di un carcere, riducendo inevitabilmente la qualità del lavoro svolto. Nel 2020, per la prima volta dopo 23 anni, sono stati indetti dei nuovi concorsi per i dirigenti degli istituti penitenziari. A seguito di specifici corsi di formazione, nel 2023 sono stati inseriti 45 nuovi direttori.

Lo stato della collaborazione tra carceri e imprese

Nell’ambito del sistema carcerario, l’importanza di promuovere la reintegrazione sociale dei detenuti attraverso l’istruzione, la formazione e l’accesso al lavoro è diventata sempre più evidente.

In Italia, nel 2023, il 40% dei detenuti possiede un titolo di studio pari o inferiore alla scuola media, con un tasso di analfabetismo dell’1,4%.

La disomogeneità – anche interregionale – fra i detenuti in termini di età, titolo di studio, durata della pena, vissuto esistenziale etc. rende complessa l’introduzione di percorsi che garantiscano il successo formativo e l’avvio di programmi mirati ed efficaci. Nell’anno scolastico 2022-2023 il 34,2% dei detenuti ha frequentato corsi di istruzione all’interno delle carceri, con una discrepanza tra il numero di detenuti iscritti ai corsi e quelli effettivamente promossi (pari al 45,1% degli iscritti totali).

A fronte di tale situazione, 44 atenei capillari sul territorio nazionale hanno aderito al Consorzio Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (CNUPP), istituito nel 2018 con l’obiettivo di garantire opportunità di studio e percorsi universitari all’interno degli istituti penitenziari. Nel corso dell’anno accademico 2022-2023, sono stati 1.439 i detenuti iscritti a corsi presso gli atenei aderenti al CNUPP. In un ulteriore sforzo volto a migliorare tali percorsi formativi, il Governo ha siglato accordi mirati. Tra questi, spicca il protocollo d’intesa del 2019 tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) e il CNUPP, che ha portato alla firma di 34 accordi finalizzati al miglioramento dell’offerta didattica negli istituti penitenziari. In seguito a questo protocollo, nel 2021 è stato istituito un tavolo tecnico5 per l’individuazione di soluzioni per favorire la didattica in aula e istituire postazioni desktop per l’e-learning.

Nel 2023, la formazione professionale all’interno delle carceri italiane ha mostrato una crescita significativa, coinvolgendo circa il 6% dei detenuti. Tuttavia, osservando il trend 2006-2023, emerge un quadro più complesso: si nota infatti un periodo di crollo nei numeri dei corsi offerti rispetto agli anni precedenti.

Nonostante ciò, i dati più recenti evidenziano una ripresa nell’interesse e nella partecipazione dei detenuti alla formazione professionale. Tra il 2021 e il 2023, il numero di corsi attivati – le cui tipologie più frequentate includono settori come cucina e ristorazione, giardinaggio e agricoltura e edilizia – è aumentato dell’85%, mentre il numero di detenuti iscritti ha visto un incremento del 117%. Inoltre, si registra un aumento nella quota di detenuti promossi tra coloro che hanno completato i corsi, pari all’88,84% nel 2023.

Nel contesto della formazione professionale, la Lombardia si posiziona al 1° posto per numero di corsi attivati e portati a termine, con 67 corsi avviati e 44 completati. Seguono la Toscana e il Lazio, rispettivamente con 31 e 20 corsi attivati e 34 e 17 corsi portati a termine. I corsi professionali vengono organizzati attraverso accordi con Regioni, Enti locali competenti e Agenzie formative accreditate dalle Regioni, che si basano sulle esigenze dei detenuti e sulle richieste del mercato del lavoro. In aggiunta, le Direzioni degli istituti penitenziari hanno la possibilità di progettare attività formative specifiche per rispondere alle esigenze del lavoro all’interno delle strutture carcerarie.

La situazione attuale del lavoro in carcere presenta alcune criticità e disparità, che ne limitano il potenziale trasformativo e reintegrativo. La normativa vigente prevede diverse forme di lavoro per i detenuti:

— Alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria: le modalità sono suddivise fra lavoro interno e lavoro esterno e la remunerazione è pari a 2/3 di quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali di lavoro;

— Alle dipendenze di datori di lavoro esterni, che si suddivide in lavoro intra-murario ed extra-murario. Il Regolamento di Esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario del 2000 ha aperto la strada a significative opportunità di collaborazione tra il sistema carcerario e le imprese pubbliche e private, così come le cooperative sociali. Gli enti esterni possono quindi assumere detenuti direttamente all’interno degli istituti penitenziari, gestendo officine e laboratori, utilizzando gratuitamente locali e attrezzature già esistenti. Tale disposizione non solo favorisce l’utilizzo efficiente delle risorse disponibili all’interno delle carceri, ma offre anche ai detenuti la possibilità di acquisire competenze professionali e di lavoro. Il Regolamento consente alle imprese di assumere detenuti con le stesse modalità previste per i lavoratori esterni, anche in termini di remunerazione.

In Italia il 33% dei detenuti è coinvolto in attività lavorative (19.153 impiegati totali nel 2023), ma solamente l’1% di essi è impiegato presso imprese private e il 4% presso cooperative sociali. La stragrande maggioranza, pari all’85%, lavora infatti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. È importante evidenziare che in questo 85% rientrano anche detenuti che lavorano solo per poche ore al giorno o al mese, o per periodi brevi. Le Direzioni degli istituti tendono infatti a ridurre gli orari di lavoro o ad attuare una turnazione al fine di mantenere un livello di occupazione sufficiente.

Fra i detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, l’82,5% svolge servizi d’istituto. I principali limiti di questa forma di lavoro includono una minore qualificazione professionale, nonché la disponibilità non sempre adeguata di strumentazioni e attrezzature. Gli orari di lavoro ridotti e il minore sviluppo di relazioni interpersonali possono ulteriormente limitare l’opportunità per i detenuti di acquisire competenze spendibili all’esterno.

I dati rilevano una marcata eterogeneità geografica nell’impiego dei detenuti, con un divario di 15,1 punti percentuali tra la prima e l’ultima Regione classificata, rispettivamente Lombardia e Valle d’Aosta. Tale quadro sottolinea la necessità di una maggiore diversificazione delle opportunità lavorative per i detenuti, nonché la promozione di partenariati più ampi, su tutto il territorio, con il settore privato, al fine di favorire una reale reintegrazione sociale attraverso il lavoro.

Il valore aggiunto delle partnership pubblico privati

Dalle analisi riportate emerge la necessità di incrementare la collaborazione tra il mondo delle carceri e il sistema delle imprese, attraverso partnership pubblico-privati che possano offrire ai detenuti percorsi formativi e lavorativi adeguati alle loro esigenze e alle richieste del mercato del lavoro. Questo comporterebbe vantaggi non solo per i detenuti, ma anche per lo Stato e per le imprese.

La legge italiana già prevede vantaggi fiscali e contributivi per le imprese che assumono detenuti o internati all’interno degli istituti penitenziari. Lo strumento normativo che sostiene tali agevolazioni è la c.d. Legge Smuraglia (Legge 193 del 2000). Tra i vantaggi offerti vi è lo sgravio dei contributi pari al 95% dell’aliquota contributiva dovuta, calcolata sulla retribuzione corrisposta al lavoratore, e un credito di imposta di €520 per i detenuti e di €300 per i semiliberi. Questi benefici si protraggono per un periodo di 18 o 24 mesi dopo il rilascio del detenuto, a condizione che il rapporto di lavoro prosegua all’esterno con lo stesso datore di lavoro. Ulteriori incentivi sono contemplati nel Codice degli Appalti pubblici (Decreto Legislativo 50/2016), che prevede la possibilità di assegnare punti aggiuntivi nelle procedure di affidamento d pubblici alle imprese che impiegano detenuti in carcere. L’assegnazione di questi punti non è automatica, ma deve essere esplicitamente prevista nel bando di gara.

Tali incentivi sono stati rafforzati dalle previsioni di bilancio per il periodo 2023-2025, che includono un aumento delle risorse destinate alle remunerazioni e agli sgravi fiscali per le attività lavorative dei detenuti. Le spese per la remunerazione dei detenuti lavoratori registrano un aumento di 2 milioni di euro, mentre gli sgravi fiscali e le agevolazioni destinate alle imprese che impiegano detenuti vedono un incremento di 6 milioni di euro.

Inoltre, la Legge di Bilancio 2022 prevede l’istituzione di un Fondo (con una dotazione di 4 milioni di euro per l’anno 2023 e di 5 milioni di euro per il periodo 2024-2025) per la realizzazione di progetti finalizzati al recupero e al reinserimento sociale, all’assistenza sanitaria e psichiatrica, nonché all’integrazione dei detenuti e dei condannati.

Nel 2022 sono state 357 le istanze da parte di imprese e cooperative per accedere agli sgravi fiscali previsti dalla Legge Smuraglia, di cui il 65% proveniente da sole quattro Regioni: Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige. Nel 2023, un totale di 538 soggetti è stato ammesso a fruire delle agevolazioni fiscali previste dalla Legge Smuraglia: 355 imprese e 183 cooperative sociali, per un totale di 10,5 milioni di euro concessi su un budget disponibile di 15,1 milioni di euro.

Di questi fondi, il 68% è stato ottenuto da cooperative sociali, nonostante queste ultime costituiscano solo il 30% dei soggetti ammessi alle agevolazioni. Questo sottolinea la frammentarietà delle risorse ottenute dalle imprese, che tendono ad usufruire delle cooperative come tramite per l’assunzione di detenuti, evidenziando la necessità di promuovere una maggiore partecipazione diretta delle imprese private ai programmi di reintegrazione lavorativa dei detenuti.

Il valore aggiunto delle partnership pubblico-privati per il lavoro in carcere si manifesta in un triplice beneficio per i detenuti, la società e le imprese, in un’ottica «win win win».

La mancata offerta di opportunità lavorative per i detenuti priva lo Stato di un ritorno sul Prodotto Interno Lordo (PIL) fino a 480 milioni di Euro. Secondo le proiezioni di The European House – Ambrosetti, in un primo scenario ipotetico, mantenendo invariato il numero di detenuti, se la percentuale di detenuti occupati in attività lavorative aumentasse dal 33% al 60% con l’85% di essi ancora impiegato presso l’Amministrazione Penitenziaria in attività a basso valore aggiunto, il ritorno sul PIL ammonterebbe a 288 milioni di Euro. In un secondo scenario ipotetico, se la percentuale di detenuti occupati in attività lavorative aumentasse dall’attuale 33% all’80%, con tutti gli extra-lavoratori impiegati presso imprese o cooperative in attività a maggior valore aggiunto, il ritorno sul PIL raggiungerebbe i 480 milioni di euro. Queste stime mettono in evidenza il potenziale impatto positivo sul PIL derivante dall’incremento delle opportunità lavorative per i detenuti, soprattutto se orientate verso settori ad alto valore aggiunto e promosse attraverso partnership pubblico-privati.

Le criticità che ostacolano una collaborazione efficiente

Fra le principali criticità che ostacolano le collaborazioni con gli istituti di pena vi è la limitata raccolta di informazioni, dati statistici e documentazione relativi alla popolazione carceraria. Una maggiore e migliore raccolta di dati a livello nazionale è una priorità assoluta, poiché misurare il progresso (o la sua assenza) significa fornire al Paese gli strumenti per evolvere, assicurando al tempo stesso l’efficacia di meccanismi di accountability. Tuttavia, oltre ai dati, o alla mancanza di essi, sono molteplici le criticità che ostacolano l’attivazione di collaborazioni tra istituti di pena e imprese.

Per le carceri, le difficoltà sono radicate nel contesto detentivo e nelle debolezze strutturali del sistema attuale. Le infrastrutture carcerarie necessitano di un rinnovamento urgente, e sono spesso non dotate in maniera adeguata di spazi, mezzi e tecnologie adatti allo svolgimento di corsi di formazione professionale e attività lavorative. A questo si aggiunge il fenomeno del sovraffollamento, che porta a un aumento di eventi critici e complica ulteriormente la gestione delle attività lavorative e formative. È poi essenziale potenziare le risorse umane all’interno dell’Amministrazione Penitenziaria dotate di competenze tecniche e manageriali, che possano agire da interlocutori e promotori per la creazione di partnership pubblico-privati. La scarsità di istruzione/professionalizzazione dei detenuti e l’assenza di una profilazione a fini formativi e lavorativi rappresentano ulteriori ostacoli significativi. Infine, la mancanza di una governance integrata che coinvolga Amministrazioni centrali, autonomie locali, terzo settore e forze produttive frena la pianificazione di lungo periodo e la realizzazione di investimenti strategici ed efficienti nel settore penitenziario.

Per le imprese, il coinvolgimento nel lavoro carcerario è intrinsecamente legato a logiche di competitività e regolamentazione, ma si scontra anche con fattori socioculturali radicati. I possibili vincoli derivanti dal regolamento interno alle aziende (es. limiti di privacy nella gestione dei dati) e la lentezza burocratica nel processo di assunzione dei detenuti costituiscono delle barriere all’ingresso. In seguito, la mancanza di una cultura pro-business e di interlocutori operativi specializzati e l’inadeguatezza degli spazi interni utilizzabili riducono la competitività del lavoro in carcere.   Anche in questo caso, la scarsa istruzione e professionalizzazione della popolazione detenuta, insieme all’assenza di profilazione a fini formativi e lavorativi e all’alto turnover dei detenuti, costituiscono delle criticità. La mancanza di garanzie e flessibilità lavorativa, dovuta alle costrizioni e agli obblighi della detenzione, rende ancora più complessa l’assunzione di detenuti da parte delle imprese. Infine, la stigmatizzazione della persona detenuta porta alla diffusione di pregiudizi riguardanti la sua validità, affidabilità e motivazione professionale, complicando ulteriormente il coinvolgimento delle imprese in programmi di lavoro carcerario.

In sintesi, sebbene si noti un tentativo di progredire verso un incremento degli investimenti e delle collaborazioni tramite agevolazioni, dai dati raccolti emergono una sostanziale insufficienza e lentezza di intervento e un coinvolgimento delle imprese ancora marginale – fattori che continuano a ostacolare il ruolo rieducativo dell’istituto penitenziario.

Per superare le criticità illustrate e incrementare il lavoro in carcere, è necessario introdurre dei modelli sistemici che possano garantire ai detenuti percorsi formativi e lavorativi adeguati alle loro esigenze e alle richieste del mercato esterno, favorendo il loro reinserimento nella società. Tali modelli devono basarsi su una visione di medio-lungo termine, che concepisca il lavoro come un’opportunità di rieducazione e reintegrazione dei detenuti, e non solo come una misura punitivo-retributiva. In più, devono tenere conto del contesto socioeconomico in cui si inseriscono, valorizzando le risorse e le potenzialità del territorio e coinvolgendo i diversi soggetti pubblici e privati interessati. Tra i modelli esistenti, si possono citare alcuni esempi di best practice a livello nazionale e internazionale.

Le best practice europee In Europa, un esempio di best practice è quello del Regno Unito, dove il sistema carcerario vanta Partnership Pubblico-Private consolidate relative all’istruzione e alla formazione dei detenuti. Tra queste, si può citare il lavoro svolto da Prisoners Education Trust (2022-2026), un’Organizzazione Non Governativa (ONG) che sostiene i detenuti del Regno Unito ad acquisire le competenze, l’esperienza e la motivazione per vivere una vita libera dal crimine, aiutandoli a studiare a distanza a livelli non disponibili in carcere. Tra i detenuti con accesso all’iniziativa, il 40% ha continuato gli studi, il 24% ha fatto domanda di lavoro (con un aumento della probabilità di trovarlo del 20%), e il 36% ha intrapreso percorsi di volontariato, con una riduzione media della recidività del 20%. Tra le iniziative del Governo inglese per riqualificare i detenuti, il New Prison Education Service (2023) prevede programmi di apprendistato nella ristorazione e nell’edilizia, e di formazione manufatturiera, con colloquio garantito al rilascio. Il programma è particolarmente efficiente grazie alle partnership in atto con aziende private, l’investimento di 1,8 milioni di sterline per migliorare l’alfabetizzazione dei detenuti, e la formazione di 2.200 detenuti in 23 carceri. L’iniziativa è parte di un progetto più ampio che ha già portato al raddoppio del numero di detenuti lavoratori nel periodo 2021-2023. Un’altra benchmark internazionale è il sistema scandinavo, fondato sulla riabilitazione e sul mantenimento dell’umanità dei detenuti, che si traduce in un minor numero di persone in carcere, una bassa recidività e più competenze per l’impiego. Non a caso, Islanda, Finlandia e Norvegia sono i 3 paesi con la popolazione carceraria minore in Europa, con una media di 46,3 detenuti ogni 100.000 abitanti.

Il caso della Norvegia è particolarmente di rilievo. Qui, il sistema carcerario si basa su pene di breve durata incentrate sulle competenze lavorative dei detenuti, i quali vengono accompagnati in un percorso formativo e professionale personalizzato, in collaborazione con le imprese. Ne risulta che il tasso di recidività in Norvegia è tra i più bassi in Europa, pari al 20% dopo due anni e al 25% dopo 5 anni, e che i detenuti vedono un aumento del 40% del loro tasso di occupazione dopo il carcere.

A livello nazionale, la II Casa di Reclusione di Bollate (MI) rappresenta un caso di successo dal punto di vista dello sviluppo di collaborazioni virtuose tra istituzioni e imprese. Con un regime a custodia attenuata, Bollate si impegna a migliorare le prospettive lavorative future dei detenuti, anche grazie alla collaborazione con un vasto network di cooperative, che offrono ai detenuti posizioni qualificate e innovative in settori come le telecomunicazioni, la grafica, la tecnologia, il giardinaggio e la sartoria. Il lavoro in carcere a Bollate coinvolge 387 detenuti, di cui il 27% alle dipendenze di imprese e cooperative sociali (+23% rispetto alla media nazionale).

Uno studio condotto dall’Università di Essex e l’Einaudi Institute for Economics and Finance, in collaborazione con il Ministero della Giustizia italiano, ha analizzato il caso del Carcere di Bollate per evidenziare come la detenzione in un carcere a regime «aperto» possa essere direttamente correlata a una riduzione della recidiva fino a 10 p.p., con importanti ricadute in termini di risparmio, riduzione del sovraffollamento carcerario, miglioramento della sicurezza sociale e attrazione di investimenti. Dunque, Bollate si avvicina molto alle caratteristiche che contraddistinguono il sistema scandinavo – pur ospitando in media più del triplo dei detenuti, e con una spesa per detenuto nettamente inferiore.

Altri esempi di best practice nazionali sono quelli della Casa di Reclusione di Massa Carrara (MS) e del Carcere Due Palazzi di Padova (PD), che si distinguono per la loro capacità di creare importanti aree produttive interne e di offrire ai detenuti competenze spendibili sul mercato del lavoro esterno.

Nel Carcere di Massa Carrara, il 74% dei detenuti (+41% rispetto alla media nazionale) lavora – principalmente nella tessitoria industriale e nella sartoria che si trovano al suo interno, per la produzione di lenzuola e coperte per gli istituti penitenziari italiani, e in un centro di prenotazione telefonica delle visite mediche dell’ASL di Carrara.

Nel Carcere di Padova sono 237 i detenuti che lavorano, di cui il 63% alle dipendenze di imprese e cooperative (+58% rispetto alla media nazionale). Tra queste spicca il caso della Pasticceria Giotto, un laboratorio di pasticceria professionale all’interno dell’istituto che produce dolci artigianali. Negli oltre 15 anni di attività della Pasticceria, più di 200 detenuti sono stati guidati in un percorso formativo e professionalizzante nell’arte della pasticceria, e non solo: il laboratorio è infatti affiancato da un reparto di confezionamento e logistica.

Un nuovo modello di business

I lavori organizzati e retribuiti da imprese e cooperative creano un ponte necessario tra il carcere e la società, e forniscono ai detenuti la possibilità di svolgere attività a più alto valore aggiunto. Dai dati disponibili, emerge tuttavia una concentrazione di detenuti impiegati da imprese e cooperative in alcune regioni del Nord del Paese, un’evidenza che indica la necessità di incrementare gli sforzi al Sud, nelle Isole e al Centro Italia.

In questo percorso, il contesto esterno, dato dal tessuto socioeconomico (e quindi dalla presenza di imprese, di cluster industriali e di operatori del terzo settore), è considerato uno dei principali fattori abilitanti per l’attivazione di partnership pubblico-privati. Il tessuto socioeconomico è però solo uno degli elementi cardine per il lavoro in carcere, che è infatti strettamente legato al funzionamento di una governance multilivello, caratterizzata da un’elevata complessità e pluralità di attori (a livello locale e nazionale). In questo contesto, il mantenimento di un dialogo continuo tra i soggetti coinvolti emerge come un pilastro Sud e Isole 39 per cooperative e 28 per imprese Centro 81 per cooperative e 23 per imprese Veneto 277 per cooperative e 61 per imprese Lombardia 186 per cooperative e 95 per imprese imprescindibile per garantire il successo delle iniziative di lavoro in carcere. Questo dialogo non solo   favorisce la condivisione di conoscenze, risorse e buone pratiche tra le varie parti interessate, ma svolge anche un ruolo chiave nel creare un senso di responsabilità condivisa e nell’assicurare una visione olistica e integrata nel processo decisionale.

L’istituzione del Segretariato permanente del CNEL concorre all’obiettivo di rafforzare il dialogo e la collaborazione tra i molteplici soggetti coinvolti. L’operato del Segretariato potrà migliorare il funzionamento del sistema di governance, per incrementare il lavoro in carcere e ridurre la recidiva, se riuscirà a raggiungere i seguenti obiettivi:

— Favorire la conoscenza delle forme di lavoro idoneo a combattere la recidiva (remunerato, intramurario alle dipendenze di terzi, in esterno, autonomo);

— Favorire la messa a sistema di buone prassi per implementare la domanda e i servizi di sostegno al lavoro dei detenuti da parte degli enti produttivi;

— Promuovere l’iniziativa progettuale di istituzioni private, enti e organizzazioni del terzo settore in base alle proprie competenze e missioni settoriali;

— Contribuire all’evoluzione del quadro normativo-giuridico in materia di lavoro e detenuti.

Per concludere, di seguito le raccomandazioni di The European House – Ambrosetti per favorire le Partnership Pubblico-Private tra carceri e mondo delle imprese:

— Promuovere un patto d’intenti tra Ministeri interessati e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) per individuare un quadro d’azione comune, con conseguenti interventi organizzativi e formativi;

— Costituire centri di servizi e competenze – in collaborazione tra DAP, imprese e cooperative – all’interno degli istituti penitenziari per la formazione di detenuti e personale amministrativo;

  Stipulare accordi strategici e di lungo periodo tra carceri e organizzazioni e centri per l’impiego esterni; Imprese pubbliche e Pubblica Amministrazione (per utilities, lavoro, formazione).

— Replicare casi virtuosi anche in altri istituti: diffondendo circuiti carcerari aperti e differenziati (anche all’interno delle singole Regioni), potenziando l’utilizzo di misure alternative e supportando il ruolo di cooperative e imprese sociali;

— Alimentare una collaborazione solida e duratura tra la Direzione delle carceri, gli Enti locali e gli ecosistemi regionali, per ridurre la frammentarietà e discontinuità delle iniziative;

— Adottare misure di continuità tra formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere, potenziando gli incentivi previsti dopo l’uscita e favorendo la reintegrazione futura degli ex detenuti.

(da “Astrolabio”, periodico on line degli Amici della Terra)

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