di Marco Pannella
Il testo che segue è l’intervento di Marco Pannella al convegno “La sinistra e il garantismo”, organizzato dal Partito Socialista il 15 novembre 2005. Al di là dei riferimenti temporali, un intervento che nella sua essenza, a più di dieci anni, nulla ha perso, purtroppo, della sua attualità.
Voglio innanzitutto ringraziare la Presidenza che mi consente di accettare un “privilegio”: sono arrivato da pochissimi, in queste ore molti altri oratori mi hanno preceduto; e ritrovandoci in questa che possiamo definire una militanza, ecco che mi si sono come accese delle “lampadine”, “flash” che ora provo a condividere con tutti voi. E sono arrivato a una conclusione semplice nella sua enunciazione, ma ritengo importante, essenziale: sottolineare che quel che di nuovo si sta realizzando, se sappiamo semanticamente e concretamente tradurre la rivoluzione liberale, socialista e laica in ipotesi e di lavoro politico: l’urgenza e la necessità non tanto del “riformismo”, quanto della Riforma, una Riforma che oggi, bisogna pur sottolinearla, manca di prospettiva e consapevolezza. Ed è una Riforma che urge in modo particolare per quel che riguarda la libertà religiosa e la libertà di coscienza dei credenti e dei cattolici in particolare: come nel Risorgimento, quando la libertà dei cattolici liberali, la loro moralità, il loro “dover essere” si traduceva in supplementari sofferenze, letteralmente atroci, dal momento che venivano scomunicati; pur non essendo ancora “modernisti”, venivano comunque posti all’“Indice” gli Antonio Rosmini, i Vincenzo Gioberti…tutto ciò viene liquidato come vecchia paccottaglia, e in realtà è “cosa” modernissima, attualissima. Oggi, per esempio, apprendiamo che in Italia ci sono almeno duemila sacerdoti rinchiusi in istituti ecclesiastici o para-ecclesiastici, per curarne le loro tragedie, “raddizzarli”, come ha detto di recente un cardinale della curia vaticana. Sono anni che vado ripetendo che non c’è più un padre Burgalazzi con la sua sociologia applicata, ed ecco che l’altro giorno viene fuori la notizia che vi ho appena riferito; ecco allora che dobbiamo farci carico anche di questo aspetto. Credo che per chi ha fatto sua laicamente la religione della libertà e della responsabilità della scelta, la condizione più atroce, quanto meno sul piano morale, sia la condizione dei sacerdoti, dei veri credenti cattolici.
Voglio ora spendere qualche parola per quello che credo costituisca una vera questione di classe: la giustizia e, in particolare, il problema delle carceri: è la maggiore questione sociale che abbiamo in Italia. Sessantamila detenuti nelle carceri italiane non ci sono mai stati nella storia della Repubblica. Si tratta di un’emergenza che riguarda persone che vivono in spazi dove potrebbero viverne al massimo due terzi di loro, in situazioni terribili dal punto di vista igienico e dal punto di vista della vivibilità, del lavoro e dell’educazione per cui sono stati tagliati tutti i finanziamenti. C’è poi la cifra che riguarda l’emergenza giustizia, sono dati ufficiali forniti dai procuratori della Cassazione quando aprono gli Anni Giudiziari: quasi dieci milioni di processi pendenti nei tribunali di ogni ordine e grado, e almeno sei milioni sono procedimenti penali.
In questi anni sta accadendo qualcosa di letteralmente inaudito, nel senso che oltre alle nostre voci di radicali e di pochi altri, non c’è chi le dica. Abbiamo una Costituzione che dice delle cose precise; e poi le leggi non scritte, la cosiddetta “Costituzione materiale”. Sono per esempio vent’anni, e lo abbiamo detto e denunciato in ogni modo, che si sta sabotando il diritto del Capo dello Stato di poter esercitare, quando crede e vuole, il potere costituzionale della grazia. La legge e la dottrina al riguardo sono chiarissime, abbiamo fornito decine di pareri di giuristi e presidenti emeriti della Corte Costituzionale che ci confortano nella nostra tesi. Eppure s’è fatto di tutto per sabotare questo diritto del presidente della Repubblica; si è detto che la persona da graziare doveva presentare la domanda, e non è vero; che occorre il consenso del ministro della Giustizia, e non è vero. Ora come ultima carta in ordine di tempo, si è inventato un conflitto tra i poteri dello Stato che la Corte Costituzionale dovrà dirimere chissà quando. Solo che uno dei poteri in presunto conflitto si è ben guardato dal sollevare alcunché; e dunque?
Ancora: sono anni che vado dicendo che la Corte Costituzionale è una sorta di “Cupola” mafiosa che fa strage e strame del diritto; e lo abbiamo visto e lo vediamo ogni volta che “legifera” a proposito del referendum: dove i verdetti, le ammissioni o le bocciature dei quesiti non sono “tecnici” ma eminentemente politici; e lo ha ammesso, che si trattava di verdetti politici, il presidente emerito della Corte Livio Paladin.
E pensate ora alla situazione che stiamo vivendo: tutti mobilitati e impegnati nello scontro sulla vicenda Previti, che si trascina da dieci anni almeno; e ci si cristallizza su queste posizioni. Non so più come dire, ormai, che da decenni ovunque il Paese, e a Roma in particolare, sono teatro di manifestazioni popolari di massa, oltre che di mobilitazioni di rivendicazione di settori sindacali, corporativi, e per celebrazioni di ogni tipo. Manifestazioni, mobilitazioni, celebrazioni “assicurate” da un sistema organizzato, che funziona in genere a sostegno di schieramenti politici e/o istituzionali. Invano chiedo e spero che sia possibile veder esprimersi in tal modo soggetti e/o oggetti delle grandi questioni sociali, democratiche, liberali, socialiste, laiche, nonviolente di classe e insieme di Riforma civile e di religiosità umanistica.
“Ieri” erano i milioni di cosiddetti “fuorilegge del matrimonio” che per generazioni si sono visti vietati famiglia, amore e dignità sociale: costretti a vivere nella clandestinità obbligata e vergognosa di sé; mentre chi poteva, si faceva annullare il matrimonio a pagamento, dalla Sacra Rota.
Poi è stata la volta dell’aborto. Una secolare, antropologica, politica di battaglie sociali per superare il flagello immondo delle donne raschiate a sangue, e spesso uccise da mammane e fattucchiere, nella clandestinità dei tavoli da cucina, milioni nell’arco di una sola generazione; mentre chi poteva, beneficiava di lussuose, compiacenti, costose cliniche in Italia o all’estero.
Anche in questo caso, come per il divorzio, non venne esercitata una sola possibilità per manifestare e manifestarsi, se si escludono le iniziative organizzate dai liberali, socialisti, laici, democratici, radicali: con Loris Fortuna, e con Adele Faccio, Adelaide Aglietta, Emma Bonino, e Gianfranco Spadaccia in carcere.
Nei due casi, per due problemi sociali “vecchi” di decenni, prodotto e frutto della cultura, dell’ideologia, degli interessi delle classi politiche dominanti con il fascismo e il post-fascismo, bastarono cinque anni: cinque anni dalla presentazione del progetto di legge Fortuna-Baslini; poi tre anni dalla richiesta referendaria sull’aborto. Così l’Italia venne accolta e ri-conosciuta come società e Stato europei, e non territorio vatico-stalinista.
L’Italia, anche quella “ufficiale”, sembrò per un attimo comprendere e comprenderci: negli stessi tempi si dette gli obiettivi che proponevamo: per esempio il nuovo diritto di famiglia (che giaceva parlamentarmente e politicamente dimenticato dal 1971) vide la luce in quei giorni; o l’abolizione dei lager manicomiali, solo da noi radicali promossa e sostenuta con un referendum, mentre perfino Franco Basaglia la riteneva un’iniziativa immatura e prematura.
Veniamo al dunque: oggi la maggiore, tremenda questione sociale italiana è costituita dall’amministrazione (si fa per dire) della “Giustizia”. Giusto per convalidare il dubbio, la certezza che io vivo altrove che qui da noi, da loro, fornisco qualche cifra “impossibile”, “inaudita” letteralmente, eccessiva forse perfino per qualche radicale, liberale, socialista; e pazienza se contraddice il politically correct italiano e internazional-europeo di matrice bertinottiana.
E allora sottopongo alla vostra attenzione alcuni punti.
Gli ultimi provvedimenti di amnistia e di indulto risalgono a ben quindici anni fa. Sono trascorsi ben cinque anni dal Giubileo e dalla campagna per l’amnistia e l’indulto, per un “Piano Marshall” per le carceri e il reinserimento sociale dei detenuti. Sono trascorsi ben tre anni da quando il Parlamento applaudì ripetutamente Giovanni Paolo II mentre invocava un provvedimento di clemenza e una riduzione delle pene.
A chiedere l’amnistia e l’indulto non sono solo i detenuti e le associazioni, ma anche gli operatori e la polizia penitenziaria, i medici e gli infermieri, gli educatori e gli assistenti sociali, i direttori, gli avvocati, i magistrati.
Attualmente, come ho già detto, sono ben 60mila i detenuti in Italia: un vero e proprio record nella storia repubblicana. Altre 50mila persone sono in misura alternativa alla detenzione. Altre 70-80mila persone, già condannate a pene inferiori a tre anni (quattro in caso di tossicodipendenza), sono in attesa della decisione del giudice circa la possibilità di scontare la condanna in misura alterativa. In totale: 180-190mila persone, che significa una crescita esponenziale di ben due volte nel volgere di quindici anni.
In Italia un’amnistia di fatto esiste già. Un’amnistia clandestina e di classe. Basti pensare che, solo negli ultimi cinque anni, ben 665.073 persone hanno beneficiato della prescrizione dei reati per i quali erano stati inquisite. Se crescono le carcerazioni, crescono ancora di più le prescrizioni: da 66.556 nel 1996 a 94.181 nel 2000 a 221.888 nel 2004.
Non è vero che aumentando le carcerazioni si riducono i reati. E se la mano pesante della giustizia si scarica per intero sugli esclusi, senza avvocato e senza difesa, soprattutto immigrati e tossicodipendenti, in totale sono 8.942.932 i processi pendenti, di cui 5.580.000 penali, tra la data del delitto e quella della sentenza la durata media è di 35 mesi per il primo grado del processo e di 65 mesi per l’appello. Sono moltissimi i reati che non vengono nemmeno perseguiti: nella sua relazione di apertura dell’Anno Giudiziario, il primo presidente della Corte di Cassazione Favara ha documentato come le persone denunciate siano state ben 536.287 e i delitti denunciati per i quali è iniziata l’azione penale siano stati 2.890.629 (in crescita rispetto all’anno precedente), ma nell’80,8 per cento dei casi l’autore era ignoto.
Il problema della sicurezza e della legalità riguarda la società libera, ben più che il carcere. Le vittime del reato hanno interessi non dissimili da quelli delle vittime di un sistema della giustizia forte con i deboli e debole con i forti. Una giustizia che sia efficace ed efficiente ed equa è una necessità di tutti.
Il carcere è spesso un luogo illegale, dove le leggi non sono applicate. Come, ad esempio, il Regolamento penitenziario, varato nel 2000 e rimasto in buona parte lettera morta.
L’amnistia e l’indulto, da semplici provvedimenti umanitari e razionalizzanti, diventano l’unica risposta a quella che è diventata una vera e propria emergenza sociale. Una questione che, direttamente o indirettamente, riguarda la vita e le condizioni di milioni di cittadini e di famiglie italiane. Per costruire una nuova giustizia, occorre rimuovere questo enorme “tappo” con un’amnistia. Attraverso l’indulto, invece, è possibile riportare il numero delle presenze a quello delle capienze, vale a dire ridurre di almeno 15mila gli attuali detenuti. Investire sul recupero e sulla prevenzione è la vera politica per la sicurezza, una politica meno costosa socialmente, umanamente ed economicamente. Tenere una persona in carcere, peraltro nelle attuali condizioni miserevoli, costa 63.875 euro l’anno, in gran parte per la struttura, mentre per il vitto di ogni recluso si spendono mediamente solo 1,58 euro al giorno. Tenere un tossicodipendente in carcere (e sono almeno 18mila) costa il quadruplo che assisterlo in una comunità o affidarlo a un servizio pubblico.
Concludo: dobbiamo avere l’intransigenza, non abbiamo infatti il diritto di essere inerti, di dare corpo politico, sociale, intellettuale a queste nostre iniziative e lotte, questa nostra “obiezione” contro questo sistema, in lampante, evidente continuità con l’aspetto social-fascista, social-corporativista che sempre più si sta affermando. Un’“obiezione”, una letterale “rivoluzione” da realizzare con la Rosa nel Pugno. Una “rivoluzione” della nonviolenza, della laicità, dello schierarsi nel momento in cui le storie non corrispondono ai vissuti di tanta parte del popolo. Ho una convinzione, e per questo mi sono schierato con durezza e determinazione: ritengo che ogni giorno di più di questo governo berlusconiano, come certe detenzioni, costituisca una catastrofe da evitare, a noi, e anche a chi se la merita e a chi ce la procura. Non promesse, ma una lotta che inizi a dare corpo anche a questo tipo di istanze, che vanno onorate con la nostra moralità, impegno e, anche, il nostro sorriso.
di Leonardo Sciascia
“Ma si è mai posto, lei, il problema del giudicare?”. e per un momento si arrovesciò nella poltrona, quasi di tal problema stesse agonizzando.
“Sempre”, disse Rogas.
“E l’ha risolto?”.
“No”.
“Appunto: non l’ha risolto…Io sì, ovviamente…Ma non una volta per tutte, non definitivamente… qui e ora, con lei, parlando del prossimo caso alla cui decisione dovrò presiedere, posso anche dire: non l’ho risolto. Ma badi: parlo del prossimo caso. Non del caso che appena mi è passato o del caso di dieci o venti o trent’anni fa. Per tutti i casi passati il problema l’ho risolto, sempre: e l’ho risolto nel fatto stesso di giudicarli, nell’atto di giudicarli…lei è cattolico praticante?”.
Rogas fece un gesto che voleva dire: come tutti. E davvero pensava che tutti ormai, e dovunque, si fosse un po’ cattolici.
“Già: come tutti”, interpretò giustamente il presidente. E assumendo l’atteggiamento di un prete al catechismo: “Prendiamo, ecco, la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dell’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima, il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore: ma nel momento in cui lo celebra, non più. E tanto meno dopo. Lo vede lei un prete che dopo aver celebrato messa si dica: chissà se anche questa volta la transustanziazione si è compiuta? Nessun dubbio: si è compiuta. Sicuramente. E direi anche: inevitabilmente. Pensi a quel prete che, dubitando, al momento della consacrazione si ebbe sangue sulle vesti. E io posso dire: nessuna sentenza mi ha sanguinato tra le mani, ha macchiato la mia toga…”.
Senza volerlo, Rogas emise come un gemito. Il presidente lo guardò con disgusto. E come nei fuochi d’artificio, che quando si crede siano finiti, nell’attonito silenzio e buio se ne accende uno più luminoso, più complicato e tonante, Riches disse: “Naturalmente, non sono cattolico. Naturalmente non sono nemmeno cristiano”.
“Naturalmente”, fece eco Rogas. E davvero non se ne stupiva.
Il presidente ne ebbe la delusione e l’irritazione di chi finisce di fare un giuoco di prestidigitazione, e salta fuori un bambino a dire che ha capito il trucco. Con una nota d’isteria proclamò: “L’errore giudiziario non esiste”.
“Ma i gradi del giudizio, la possibilità dei ricorsi, degli appelli…”, obiettò Rogas.
“Postulano, lei vuol dire, la possibilità dell’errore…Ma non è così. Postulano soltanto l’esistenza di un’opinione diciamo laica sulla giustizia, sull’amministrazione della giustizia. Un’opinione che sta al di fuori. Ora quando una religione comincia a temer conto dell’opinione laica, è ben morta anche se non sa di esserlo. E così la giustizia, l’amministrazione della giustizia: e uso il termine amministrazione, si capisce, per farle piacere; e comunque senza la minima ombra statuale e burocratica”. Più sommesso e malinconico: “Tutto è cominciato con Jean Calas… Approssimativamente, dico: poiché è necessario fissare dei punti precisi, un nome, una data, quando vogliamo prender coscienza delle grandi disfatte o delle grandi vittorie dell’umanità…”.
“È cominciato con…?”.
“Jean Calas: ‘le meurtre de Calas, commis dans Toulouse avec le graive de la justice, le 9 mars 1762, est un des plus singuliers événements qui mérotent l’attention de notre Age et de la postérité. Si dimentica presto l’innumerevole moltitudine di coloro che muoiono nelle guerre, non soltanto perché quei morti s’appartengono a una inevitabile fatalità, ma anche perché sono stati in condizione di dare la morte ai loro nemici e di non cadere senza essersi difesi. Là dove il pericolo e il vantaggio sono alla pari, cessa il doloroso stupore e persino la pietà si affievolisce; ma se un padre di famiglia innocente è caduto nelle mani dell’errore, o della passione, o del fanatismo; se l’accusato non ha altra difesa che la propria virtù, se gli arbitri della sua vita non corrono alcun rischio, facendolo sgozzare, che quello di sbagliarsi; se possono impunemente uccidere con una sentenza: allora la voce pubblica si leva, ognuno teme per se stesso…’. L’ha mai letto?”.
“Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas”, recitò Rogas.
“Ah, lo ha letto”, constatò il presidente. E beffardo, ma con un fondo di minaccia: “La nostra polizia si concede inimmaginabili lussi”.
“Io mi concedo qualche lettura”, precisò Rogas.
“E la polizia si concede lei. Ma lasciamo perdere…Jean Calas, dunque… Il ‘trattato’, e quant’altro Voltaire ha scritto sulla morte di Calas, io lo so quasi a memoria. È stato il punto di partenza dell’errore: dell’errore che potesse esistere il cosiddetto errore giudiziario…Naturalmente, questo errore non sorge dal nulla né resta così, isolato o quanto meno isolabile: ha tutto un humus, tutto un contesto…Io ho passato molto tempo della mia vita, una infinità di quelle ore che si usa chiamare libere, libere dalle preoccupazioni dell’ufficio, e per me non ci sono mai ore libere in questo senso: le ho passate a confutare Voltaire sul caso di Jean Calas. Cioè a confutare l’idea della giustizia, dell’amministrazione della giustizia, che da quel caso, per come Voltaire l’assume, si diparte”…
(da: “Il contesto. Una parodia”).
di Enzo Tortora
A quanti mi chiedono come sto, rispondo: “dipende da voi”. E non è una battuta. Quando dissi che dal momento della mia autoconsegna la mia storia usciva da me stesso, diventando parametro e pendolo per misurare e scandire le storie della giustizia e di certa politica italiana, non intendevo affatto scherzare. Lascio ad altri il melanconico sport di velenose ironie (quelli che parlano di show radicale per fortuna sono in vertiginosa diminuzione) e adesso vi guardo, da questo privilegiato osservatorio che è una detenzione voluta, ma non per questo indegna.
Guardo questo paese, o meglio, ciò che resta di questo paese, con la convinzione profondissima che le grandi battaglie radicali possono essere la sua sola medicina. Nessuno ha posto, con tanta immediata chiarezza, non solo i temi dello sfacelo attuale (qualunque demagogo è in grado di elencarli: le lamentazioni, addirittura, sono l’esercizio retorico che costoro prediligono) ma anche, e soprattutto, la via per uscirne. E qui, capisco, come quando dalla diagnosi si passa alla necessità di una terapia, il discorso si fa duro da intendere per la partitocrazia, per i bojardi del potere corporativo (una certa magistratura, i potentati economici, una editoria tossica e tossicodipendente, delle strutture sanitarie diventate riserve di caccia lottizzate, delle amministrazioni locali appestate ed indegne, dei predicatori di pace che vendono armi all’universo mondo) e la loro stretta, l’isolamento attorno al Partito radicale rischia di farsi mortale. Lo è, di fatto. Non provvedessimo noi, con la radio, con quel po’ di spazio informativo che riusciamo a strappare ad un inutile, ostile baraccone televisivo di Stato, del Partito non si avrebbe notizia, come di certi esploratori partiti nell’800 per l’Amazzonia. Condannati (ma qui anche il motivo del nostro orgoglio) a risalire le rapide, le correnti, le foreste più intricate con la sola forza della nostra volontà, e del nostro numero: non deve apparire strano, o tantomeno autolesionistico se talvolta, contando proviamo un brivido.
Leggevo pochi minuti fa che gli iscritti in meno, rispetto al 1985, sono, per il Partito comunista, ventisettemila. Perfino il grande pachiderma è in crisi. Ed è in crisi, a differenza del nostro partito, molto più gravemente perché è in crisi di produzione politica, di progettualità, come si dice in questo mondo, dove le parole, ahimè, rischiano di contare più delle cose. Per il Partito radicale, al contrario, di fronte ad una effervescenza e una ricchezza ideale forse mai vista prima (si pensi alle grandi battaglie sui rapporti Nord-Sud, e dunque sulla fame, sull’affermazione di coscienza, sui diritti civili, sulla vita del diritto, sull’ecologia, sulla libertà controllata della droga, sulla riforma del sistema elettorale che da arcipelago frantumato e rissoso ci riconduca a decente immagine di democrazie occidentale) ci troviamo, e non potrebbe che essere così, numericamente in pochi. Ma nessuno, nell’ultimo Congresso, ha parlato di viaggio facile nel sordo panorama politico italiano. Abbiamo parlato di sfida e di storico sforzo. Se qualcuno desidera cantori di ninna nanna, si accomodi altrove. Ci sono partiti nati per distribuire biberon. Si dà il caso, felicissimo caso, che questo Partito radicale, in un paese uscito con eterni patteggiamenti da una condizione di servitù per precipitare, svagato in un’altra peggiore (mai come oggi penso alla rilettura di quegli “eroi” frettolosamente sepolti e censurati ai quali alludeva Pannella nel suo intervento congressuale: i Silone, i Rosselli, i Parri, gli Ernesto Rossi, che sono sì i veri profeti disarmati di una Liberazione tradita, d’un Risorgimento finito in letame) rappresenti la sola riforma possibile in una terra che ha campato, sinora, di sola cultura controriformista.
Di chiacchiere e di truffa, di ladroneccio e di sopraffazione. Ridar prestigio alla parola “politica”, che ormai negli italiani, giustamente, eccita solo reazioni o di disgusto o di rigetto e di rifiuto, è il nostro compito. Non è necessario avere letto Mosca o Pareto per rendersi conto che di manovratori obliqui, di faccendieri loschi, di impettiti erogatori di parole, di mulini e vento siamo ormai da oltre un secolo stufi e nauseati. La politica come valore, e non come potere, è concetto che solo la mafia, solo la camorra possono considerare irrilevante, desueto, superato. Eppure, a giudicare dai risultati, lo sfascio che costoro hanno prodotto è immenso. Ma è sfacelo che isola, per così dire, i suoi stessi autori. Li presenta, finalmente nudi, davanti alla coscienza del paese. Che si sente presentare conti allucinanti, astronomici, vergognosi: i conti dei loro sciali, i conti della loro dolce vita parlamentare, i conti della loro irresponsabile stupidità. I conti, davvero, stanno cominciando a profilarsi. E la gente, la gente alla quale noi ci rivolgiamo in fretta con ostinata, onesta fiducia (lo show radicale, appunto: e quello che è solare disturba sempre, i pipistrelli) comincia finalmente a capire. La necessità di cambiar musica, e con la musica, una buona volta, anche i suonatori sta diventando inderogabile. In questo panorama di cinismo diffuso, di rassegnazione vile e gattopardesca, noi, radicali, in pochi, abbiamo il diritto di chiedere, a chi ci approva, uno sforzo ulteriore. Non possiamo, eternamente, essere quelli che si buttano dal ponte, in pieno inverno, per tirare a riva uno che sta affogando. Gli applausi della gente non ci servono. Anzi, in certi casi ci infastidiscono. “Grazie di esistere” disse una volta un vicesegretario di un Partito, ospite del nostro Congresso. “Grazie di resistere”, caso mai. La lotta sta diventando sempre più dura, e più feroce. La faccia libanese dell’Italia difende i suoi eserciti privati, i suoi privilegi di moschea con una sorta di furore islamico, divisa tra l’ironia, stolida quanto feroce, e il colpo basso, la prediletta coltellata alla schiena. E che noi si abbia ragione (una ragione che spesso ci addolora, perché è la denuncia di vergogne impensabili) lo dimostra la stessa virulenza dei loro goffi, sempre più goffi contrattacchi. È stato per me particolarmente commovente ritrovare, sullo sfondo del congresso fiorentino, le due parole “Giustizia e Libertà”, che siglarono il solo momento degno, alto, pulito, delle speranze del dopo guerra. Fu subito notte, o quasi. Fu subito spartizione, o quasi. Fu subito, in nome di un antifascismo di maniera, il riprendere la struttura, il metodo, la cultura e gli stili del peggior fascismo. Dovessimo erigere un monumento a questo ributtante fregolismo, o trasformismo nazionale, potremmo impiegarvi anni di inutile fatica. Ed eccoci qui, davanti a questa democrazia monca, irrisolta, nominalistica, avvilita. Eccoci qui, so che questo foglio, un po’ come la mia personale condizione, scandisce tempi che diventano sempre più urgenti. E so che ognuno di voi, se radicale, non ci lascerà, ancora una volta, lanciare dal ponte per salvare una vita tra acque sempre più infette. Non siate tra quelli che applaudono, vi prego. Non siate fra quelli che ci dicono “grazie di esistere”. Provate ad esistere in proprio, una buona volta. Vorrei, per concludere, ricordare che nel mio saluto di Capodanno, come al momento del mio arresto, ho precisato ciò che i radicali intendono per “giustizia giusta”. Non solo l’infamia di procedure penali aberranti, di codici medievali, di pentiti che disonorano una civiltà che è di tutti (e non solo di certi giudizi): io per “giustizia giusta” intendo molto, molto di più. Intendo giustizia per chi è malato e viene curato a chiacchiere, per chi è pensionato e viene nutrito ad aria, per chi è sfrattato e gli si dice “aspetti”, per chi è cittadino e viene considerato servo. Per chi, senza lavoro, vede passarsi, come estremo viatico, una raccomandazione, che è un insulto. Insopportabile. A questa Italia i radicali intendono dare l’addio senza rimpianti: perché su questa Italia, imbastardita e irriconoscibile, non hanno trafficato, speculato, tradito, e gonfiato le loro fortune. Ma ora ho finito. O meglio, continuo semplicemente la nostra battaglia. Ma ricordate ciò che vi ho scritto all’inizio. Non possono esistere più alibi. “Come sto?”. Dipende esclusivamente da voi. Perché significa “come staremo”. Come vivremo.
di Enzo Tortora
Pubblicavano anni fa un divertente almanacco, mi sembra redatto da Mino Maccari, che aveva questo titolo provocatorio, “L’antipatico”. Composto come un’agenda da regalare a Capodanno, conteneva per ogni giorno una massima, a volte un divertente memento. Che so: “Ma sei proprio sicuro di averli letti i Promessi Sposi?”, oppure: “Ma l’hai davvero apprezzato, come dicevi nel brindisi, l’intervento dell’onorevole che per tre volte hai chiamato Sua Eccellenza?”. Era insomma una splendida enciclopedia dei tic, delle vanità, delle piccole e grandi viltà italiane; quelle viltà che per alcuni, vestite di parole roboanti, diventano automaticamente virtù.
Arrivato al 31 dicembre (“Ma non hai mandato per caso all’amica il biglietto di auguri destinato alla consorte?”), s’era portati a concludere che in un solo caso, in Italia, a un uomo si è portati a perdonare tutto. Dico tutto. Si può essere matricidi, antropofagi, dilapidatori del denaro pubblico, stupratori di vergini ma ad un patto: occorre essere “simpatici”. Di fronte alla “simpatia” l’italiano è come ipnotizzato. Ma se per un drammatico, fatale opposto si dà il caso contrario (l’uomo in questione non risponde a quei canoni che per certi italiani sono sacri: dare del tu a tutti, avere certe amicizie a corte, scodinzolare di fronte a chiunque, possedere una verità privata e una pubblica, inchinarsi agli Eminentissimi, accettare le botte – quando vengono dall’Alto – con devota rassegnazione, essere beceri e triviali quel tanto che basta), allora nella terra di Giustiniano si è condannati con rito napoletano a 10 anni di galera (ne ho già degustato tredici mesi senza aver fatto nulla; lo considero solo un aperitivo), per reati folli, mai provati, inesistenti ma infamanti.
Ed ecco che un cronista torinese, a caccia di commenti alla sentenza, avvicina al parco pubblico una coppia di pensionati che, richiesti d’un parere, esalano con granitica certezza: “Giustissimi. A noi quell’uomo è sempre stato antipatico…”. La fatal parola dunque ritorna. Non è una sciocchezza, badate.
Ero “antipatico” a Pandico, per esempio, che forse con la sua stessa meraviglia si è trovato finalmente – dopo 20 anni di assassinii, di tentati parricidi, stragi, calunnie, inchini al potente del suo mondo – a mettere in moto, tra gli applausi generali, i gargarismi dei giuristi, i sermoni dei tuttologi, la trepida assistenza dei magistrati finalmente “giusti”, le sbrodolate dei masticatori di niente, la più tetra ed invereconda tragicommedia che la storia del diritto ricordi. Ma l’Italia farse così se le vuole, se le cova quotidianamente e, purtroppo, se le merita.
È del resto lo stesso Paese la cui classe politica, senza avvertirne non dico la vergogna ma almeno la comicità, s’è calata le braghe e messo il grembiulino davanti a un Licio Gelli benedicente. Gelli era “simpatico”. E’ un Paese i cui finanzieri, come davanti a Sindona, cadevano in ginocchio davanti a Calvi. Calvi era “simpatico”, oltre che potente. Ed è, diciamolo, il Paese la cui giustizia ha ormai i suoi Dioscuri, i suoi baluardi in uomini come Pandico, Melluso e il noto pittore Margutti. Il conto torna: il cerchio si salda.
Perché è vero. La sera del 17 giugno 1983, mentre la mia immagine, in manette, con voluttà, addirittura alla moviola, veniva proposta dalla TV di Stato – perché la grande crociata era stata vinta, e trovato il responsabile di tutto – un altissimo dirigente comunista che banchettava a Napoli per non so quale convegno salutò l’evento con questo testuale commento: “Finalmente ce l’hanno tolto dai coglioni”. A lui, come a Pandico, non ero “simpatico”.
Non avevo una mia morale, accanitamente perseguita in tutta la mia vita: ero un moralista. Perché da noi questo succede. Abituati a misurare gli altri col metro di sé stessi, alcuni manigoldi reputano impossibile che uno faccia o dica semplicemente le cose nelle quali crede. No: ci deve essere un “risvolto”, un interesse, una vena di ipocrisia. Ed ecco nascere la “leggenda totale nera”, la mia biografia immaginaria e immonda: e ci avete inzuppato troppe penne in questa broda. Penne che diventavano, e ancora diventano, frecce avvelenate di selvaggi. Urli la tua innocenza? Non sei vittima: sei “vittimista”. Ti difendi in tribunale con la disperazione? Senti scrivere da un giornalista che i tuoi occhi sono “abilmente lucidi”. Agli ultimi imbecilli che ancora in questi giorni parlano di “privilegio” (io sono disposto a concedere a questi disonesti intellettuali tutti i miei “privilegi”: si accomodino, facciamo subito volentieri il cambio), non intendo nemmeno replicare. Ma provo la sensazione, veramente, di uno che da più di due anni indica la luna (l’infamia del nostro processo penale, l’uso abbietto di certi giudici della condanna senza prove) e si sente far divagazioni sul colore del suo dito. “Qualcosa l’avrà fatta…”, ridacchiano i più benevoli.
Mi rendo perfettamente conto: si è “simpatici”, secondo un certo metro, se non si è, diamine, così “rigidi” nella difesa di sé stessi. Provo vergogna per questa morale immorale, accomodante e vile. Provo disperazione per un Paese dove l’innocenza – dico innocenza assoluta, inattaccabile – deve farsi strada con tanto strazio e tanta pena.
Provo pietà per tutti gli onesti, e in Italia ce ne sono ancora, costretti quasi a vergognarsi della loro onestà dinnanzi a tanto scempio di giustizia e di diritto. Lo ammetto: non sono “simpatico”.