Proposta Radicale 8 2023
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Partito Radicale perché

di Marco Pannella

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Nicola Chiaromonte, notizia biografica

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L’intellettuale e la politica

di Nicola Chiaromonte

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Il mio ricordo di Nicola Chiaromonte

di Ignazio Silone 

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Partito Radicale perché

Partito Radicale perché

di Marco Pannella

Trentunesimo Congresso del Partito Radicale: si decide che se non saranno raggiunti 10.000 iscritti entro il 31 dicembre 1986 e se entro il successivo 30 gennaio 1987 le iscrizioni rinnovate non saranno almeno 5.000, il Partito Radicale procederà al suo scioglimento. Alle straordinarie iscrizioni del commediografo Eugene Ionesco, di Marek Halter, animatore di “S.O.S. razzismo”, del Premio Nobel George Wald ma anche degli ergastolani Vincenzo Andraous e Giuseppe Piromalli, degli ex terroristi Maurice Bignami e Alberto Franceschini si deve – secondo Marco Pannella – “lo “scandalo” che stiamo vivendo, la possibilità ancora esistente che una chiusura decretata e di già pressoché attuata dalla violenza, dalla discriminazione e dal boicottaggio della partitocrazia, grazie all’assenza di regole e della fellonia di tanta parte dell’ordine giudiziario, venga evitata e trasformata nel suo contrario”.

È arrivato da Godot. Non è Beckett, ma Ionesco. Abbiamo udito la sua profezia che è già testimonianza. Se questo partito scompare – ci dice – la sua scomparsa sarà «spiritualmente disastrosa». Non deve scomparire ma vivere per e con tutta la violenza della nonviolenza. «Già testimonianza», dico. Perché di Eugene Ionesco, ora che è finalmente arrivato, ora che di lui posseggono l’identità, la congrega dei violenti di qui, del nostro tempo – sacerdoti, dottori, militi, mass-medisti di violenza e di menzogna, con il loro Ponzio Pilato, Rai-Tv – s’applicheranno a distruggerne l’immagine. Ma chi crede d’essere? È vecchio e non bambino. Se non mente, è de-mente. Del Partito Radicale non sa nulla. Vi s’iscrive, di getto. Sol perché Piero Dorazio gliene parla un attimo. E subito aggiunge, niente di meno, un «lo giuro». Lo giuro – esclama – tutte le mie deboli forze saranno dedicate a farlo vivere, questo partito di cui non so nulla e di cui ignoravo l’esistenza un attimo fa. È arrivato anche Marek Halter. Per lui è già più chiaro. È un ebreo che ha – da noi – sentito puzzo d’ebrei. Anzi, di una vera e propria comunità giudìa. Accade – soprattutto a loro – che, incontrandosi, subito si riconoscano, e sappiano gli uni tutto degli altri. Il tempo è poco. Non ci pensa sopra, lui, e s’iscrive. Il suo «S.O.S.-razzismo» è spiegazione e conferma. Dunque il Partito Radicale è proprio ghetto. Ma basta, probabilmente, non mollare la presa, e costoro arrivano tardi. Nemmeno quattro settimane, e l’Italia della RAITV, di Biagio di Nusco, Raffaella d’Avellino, Pippo di Corleone, anche sotto il nuovo re, che sembra liberale, l’Enrico, detto non a caso «Manca», avranno liberato definitivamente il paese e la gente del Partito Radicale. E Godot, e Ionesco, e Halter, e il «Nobel» George Wald, e l’argentino Arturo Goetz, e il brasiliano Aristodemo Pinotti, e il gambiano Saikou Sabally, gli iscritti che accorrono in queste ultime ore, ben dimostrano che si tratta di una peste che sta per dilagare nel mondo. Peste, ho scritto? È l’AIDS stessa, e il suo vettore principale questo porcile con i suoi abitanti, così prolifici: han figliato, in 100 giorni, da duemila che erano, altri cinquemila. La progressione rischiava d’esser geometrica. Un Partito? Ma che scherziamo! Guardate quel che succede. A ottanta anni Ionesco e Wald, e con loro almeno altri tremila italiani iscritti in pochi giorni, in poche settimane, prima mai s’erano iscritti a un partito, a un partito vero. Perché mai è a un «partito» che ora si iscriverebbero?

Lo ha spiegato, lo ha gridato il 30 novembre, a Bologna, dinanzi a una platea prestigiosa, l’unico vero potente del PCI italiano, l’unico che operi efficacemente a livello di leggi e di istituzioni l’on. Luciano Violante, ingiungendo silenzio e pudore al “partito dei camorristi e dei mafiosi”, degli assassini e dei terroristi, dei destabilizzatori. Per la verità, la riconoscenza massima la dobbiamo, e portiamo, proprio a Vincenzo Andraous, e a Giuseppe Piromalli. Il primo condannato per tre assassini commessi in carcere dove era entrato per imputazioni ben minori; l’altro “presunto” boss di una “famiglia” della “ndrangheta”, con cinque ergastoli addosso o in arrivo. È a questi due compagni, infatti, ed a pochi altri, che dobbiamo lo “scandalo” che stiamo vivendo, la possibilità ancora esistente che una chiusura decretata e di già pressoché attuata dalla violenza, dalla discriminazione e dal boicottaggio della partitocrazia, grazie all’assenza di regole e della fellonia di tanta parte dell’ordine giudiziario, venga evitata e trasformata nel suo contrario. Senza l’immediata decisione di offrire al Partito Radicale – loro! – l’obolo delle iscrizioni, della dichiarazione di volontà che esso viva; senza le reazioni ipocrite e violente che la notizia della loro decisione provocò, permettendo di conseguenza a molti altri di conoscere la situazione, e di decidere di assumersi la stessa responsabilità e di praticare la stessa scelta, il Congresso del Partito sarebbe stato altro, e questa lotta di oggi, e l’arrivo di Godot, probabilmente non sarebbero stati nemmeno immaginati. A loro dedico queste righe, perché sappiano meglio quanta forza è in loro, quanta forza è in qualsiasi persona, quale sacrilegio e quale bestialità sia spegnere una qualsiasi esistenza, che non esistono “perversi” ma solamente dei “diversi”, e quanto sia possibile rovesciare quasi in un attimo il senso della vita, propria e altrui. Sappiano ch’io mi auguro, dal più profondo del cuore e dell’intelligenza, ch’essi restino per sempre, se non compagni di un Partito che potrebbe fra pochissimo non esserci più, compagni d’amore, di nonviolenza. Confrontino il “valore” – per sé e per gli altri, per coloro che amano e per tutti – degli assassini e delle violenze (comunque motivati o “necessitati”) che hanno commesso o concorso a commettere, e quello delle due lettere che ci hanno inviato, un giorno.

L’indifferenza e l’inerzia sono i nostri nemici. Nel pieno degli anni di sangue e di piombo, consentiti se non commissionati direttamente dai palazzi del potere reale che usurpa quello legale e costituzionale del nostro paese, il Partito Radicale non perdeva occasione per intervenire contro la violenza e le violenze dei “compagni assassini”. Affermavano che “violenti” e “nonviolenti” erano fratelli; tragicamente separati, ed estranei gli inerti e gli indifferenti. Insieme sapevamo che occorre dar non solamente parola, ma anche mano, corpo – nell’oggi – alle speranze e agli ideali; che insieme vivevamo in un’epoca in cui urgono più che mai, come la scienza pressoché unanime ci indica, immense ambizioni umane, per salvare il mondo, governare la terra, concepire un nuovo possibile contro il possibile ormai logoro e terribile che si sta consumando. Ma in loro, nei compagni e fratelli assassini e suicidi, mancava la convinzione che occorra prefigurare nell’oggi il domani. Che “dar corpo” alle idee di giustizia, di pace e di libertà, non basta: occorre dare il proprio corpo; e darlo alla felicità, alla tolleranza, al dialogo, alla gente e al diritto, alla drammatica pienezza e al rigore della fantasia ragionevole e buona. Non già immolare il corpo altrui, e il proprio, sull’altare di un’etica del sacrificio e della morte, liberatrice e redentrice. Ora il testo della iscrizione al Partito Radicale di Maurice Bignami, condannato all’ergastolo per appartenenza al gruppo terroristico “Prima Linea”, che leggerete in appendice, o le parole dei 22 compagni della “dissociazione” primo fra tutti, per me, Alberto Franceschini, mostrano che su questa convinzione sta nascendo un Partito Radicale infinitamente più ricco e forte nella nonviolenza, nel suo esser democratico, liberale, intelligente: quello stesso che il 31 dicembre sapremo se sarà vissuto lo spazio di un mattino, o il primo di gennaio se sarà risorto come araba fenice dalle ceneri. Come durante la guerra contro la Germania nazista e l’Italia fascista, occorrono ormai un “secondo”, un “terzo” fronte, senza di che la guerra nonviolenta contro la violenza dell’oppressione, della miseria, dell’intolleranza, della distruzione della terra, è già perduta. Il “fronte italiano” – sul quale abbiamo combattuto la prima fase – potrà forse tramutare in grande successo la sconfitta definitiva che incombe – se subito, chi ci legge, s’iscrive per i residui giorni del 1986 e per il 1987, contestualmente. Ma se questo accadesse, la riapertura – a metà febbraio – del 32° Congresso non potrà ingaggiare per il futuro, e a lungo, la nuova grande lotta per assicurare davvero la vita del diritto e il diritto alla vita, senza che subito si aprano il “secondo” fronte e gli altri “fronti” europei e non solo europei. Se un nuovo umanesimo non governa il mondo, il mondo è distrutto. Ormai, tutti lo comprendono e sanno. Occorre armare questa convinzione di un governo, cioè di una organizzazione del mondo, che ha in sé il rischio di precipitare nel baratro della presunzione e del sogno, ma anche la possibilità di elevarsi al livello del necessario. Occorre in partenza, e non domani, non come un obiettivo lontano, conquistare ed imporre un “potere” europeo. Democratico, perché non democratico c’è già, ed è il “Leviatano” sovietico. Non può che trattarsi degli Stati Uniti d’Europa (o forse d’Eurafrica, o ancora altro, visto che è tempo di concepire e chiedere l’adesione d’Israele alla Comunità Europea, come testa di ponte per la liberazione di tutti i cittadini e i popoli del medio oriente dalle schiavitù mostruose, antiche, moderne, incombenti che li massacrano). Occorre questo “soggetto” storico, istituzionale, ed è possibile oltre che necessario perseguirlo, organizzare la rivolta dell’opinione pubblica europea, ed esigere intanto che l’Europa, così com’è, iscriva almeno nelle proprie intenzioni e nei propri doveri la cittadinanza delle persone oppresse fino agli Urali, accendendo una campagna politica gandhiana, con migliaia di obiezioni-affermazioni di coscienza per affermare la libertà della circolazione e delle idee e delle persone anche nell’Est europeo. Occorre che al governo del nostro tempo, del nostro territorio, delle nostre vite e speranze siano iscritti come compiti prioritari quelli impliciti in quanto già detto, ma anche la salvezza della biosfera, un titanico intervento sui due fronti dell’etere, e su quello – almeno in Europa centrale – della prevenzione del più grave sisma tellurico del millennio, certezza scientifica incontestata che acceca le coscienze degli pseudo-governi esistenti. Insomma, vorrei che fosse chiaro, a chi legge che noi non chiediamo nulla, per la prima volta nella nostra storia, dopo aver praticato, per due decenni almeno, la onorevole mendicità di chierici di un nuovo possibile, nel quadro rigoroso del diritto e della nonviolenza, della democrazia politica, e della saldatura umanistica fra scienza e coscienza, fra scienza e potere. Non chiediamo, ma tentiamo di mutare in “società di conoscenza”, almeno parziale, la “società della comunicazione e dell’informazione”, in cui viviamo e moriamo. Perché si sappia, e si scelga o si sciolga il Partito Radicale. Noi affermiamo che soltanto i “non radicali” possono costituire con noi, il Partito Radicale del 1986, del 1987. Solamente loro possono decretare questa vita e questa possibilità. I nostri amici non italiani, ma anche tanti di qui, non possono immaginare quanta violenza di censura e di boicottaggio impedisca il raggiungimento di poche migliaia di iscrizioni, nella “democratica” Italia. Possiamo solo ricordare che in poche centinaia, grazie a criteri di organizzazione nonviolenta, rigorosissima e libertaria, abbiamo compiuto in Italia quanto non hanno realizzato, in milioni, tutti gli altri insieme, avendo ed essendo tutto il potere. Ed aggiungere che è intellettualmente onesto e doveroso ammettere che, se saremo almeno in diecimila, con un altro fronte almeno aperto oltre a quello italiano, è possibile (anche se improbabile) tentare di farcela. D’altra parte se qualcuno, al mondo, si prendesse la briga di conoscere, analizzare, di studiare quel che siamo divenuti in queste settimane, constaterebbe – ne sono certo – l’esplosiva classicità umana (quasi da tragedia e da polis greche) e l’esplosiva diversità politica, sociale e culturale di questo Partito.

La sua vita è affidata – quale che sia il giorno, ma anche il periodo, l’epoca in cui ci legge – al lettore di questo opuscolo, che dobbiamo all’impegno puntuale e importante di Massimo Teodori. È la vita di un Partito nuovo, inedito, sul quale la stampa, i mass media italiani hanno, pressoché unanimi finora taciuto: quasi fino all’ultimo, dunque. La gente non sa se non comprende. Come e più che da vent’anni a questa parte, l’opinione pubblica non è in grado di conoscere per scegliere e deliberare. Il nostro compito, antico e nuovo, resta innanzitutto quello di spartire insieme il pane della conoscenza e insieme vivere la verità vitale del dialogo, del dramma – personale e civile – della legge, della libertà, della tolleranza, dell’amore. Com’è giusto, come sempre abbiamo fatto, è chiaro, penso, a questo punto, che non ci appelliamo alla paura per la nostra scomparsa, ma alla speranza, alla fiducia in sé di ciascuno e verso tutti.

(introduzione all’opuscolo del Partito Radicale per la campagna dei “diecimila iscritti”, dicembre 1986)

Nicola Chiaromonte, notizia biografica

Nicola Chiaromonte, notizia biografica

Nicola Chiaromonte nasce a Rapolla, provincia di Potenza, il 12 luglio 1905; muore a Roma il 18 gennaio 1972. Si laurea in legge a Roma, dove, già da studente, milita nelle file antifasciste. L’avversione al regime gli impedisce di pubblicare in Italia per tutti quegli anni altri scritti che di critica letteraria o cinematografica. Dal 1932 comincia a collaborare clandestinamente, dall’Italia, ai “Quaderni” di “Giustizia e Libertà”, che si pubblicano a Parigi. I quattordici anni di esilio politico di Chiaromonte cominciano nel 1934, in Francia, dove è per qualche tempo attivo nel movimento “Giustizia e Libertà”. Il 1936 lo vede combattente nella guerra civile spagnola, come aviatore nella squadriglia aerea repubblicana capeggiata da André Malraux. Lasciata la Spagna per contrasto coi comunisti che hanno assunto il controllo delle forze repubblicane, Chiaromonte resta in Francia fino al crollo del ’40. Dopo una lunga sosta nell’Africa del Nord, raggiunge infine New York.

Gli anni americani sono fecondi di lavoro; collabora con articoli e saggi alle massime riviste di allora, “Partisan Review”, “Politics”, “New Republic”. Scrive regolarmente, accanto a Gaetano Salvemini, per “Italia Libera”. Nel 1948 torna a Parigi; per quattro anni lavora all’Unesco, rientra infine a Roma, e fin dalla fondazione collabora stabilmente al “Mondo” di Mario Pannunzio. Nel 1956 fonda con Ignazio Silone la rivista “Tempo Presente”, che entrambi dirigono per dodici anni. Dal 1968 alla morte è critico teatrale de “l’Espresso”.

Due sono i libri che Chiaromonte pubblica in vita: una raccolta di note e saggi teatrali, “La situazione drammatica” (1971, e uno di saggi letterari e filosofici, “Credere e non credere” (1971). Postumi altrui volumi, tra cui “Scritti politici e civili”, “Scritti sul teatro” e una raccolta di saggi in inglese, “The Worm of Consciousness”, “Il tarlo della coscienza”.      

L’intellettuale e la politica

L’intellettuale e la politica

di Nicola Chiaromonte

La mia firma si trova fra quelle di coloro che hanno aderito all’atto di fondazione del Partito Radicale. È la prima volta che mi trovo a far atto di adesione formale a un partito politico. Finora, non avevo appartenuto che a “Giustizia e Libertà”, aderendovi nel 1932 e uscendone (non senza scrupolo e rammarico) nel 1935, quando appunto il “movimento” volle trasformarsi in partito. Sento quindi un certo obbligo a spiegarmi.

Comincerò col dire che la riluttanza dell’intellettuale, oggi, a dare il proprio assenso a un gruppo politico mi sembra giustificata. Le ragioni sono molte. La più semplice è questa: per lunga abitudine, particolarmente angusta qui da noi, i partiti politici da una parte chiedono all’intellettuale un’inaccettabile sottomissione ideologica, dall’altra, non si sa bene che cosa. In nome dell’ideologia, gli domandano di approvare in anticipo le azioni e le tattiche dei politici; in nome dell’efficacia, vera o presunta, si queste, esigono che egli sottoscriva in blocco l’ideologia. Se di tale logica egli poi dubita, gli si risponde (nel più caritatevole dei casi) che, come intellettuale, non ha competenza per giudicare gli uomini d’azione. Così, lo si vorrebbe assoggettare due volte: una in quanto semplice militante, insieme agli altri obbligato alla “disciplina”, un’altra in quanto personaggio particolarmente sospetto, da tenere particolarmente a bada.

In simili strettoie, all’intellettuale non rimane che il rifiuto di partecipare, e pensi chi vuole che il suo rifiuto è causato da mancanza di generosità, egocentrismo, o inguaribile bisogno di vivere nell’astrazione. Nossignori. Oggigiorno, l’intellettuale non rappresenta nulla se non rappresenta l’individuo e la sua libertà, se non mantiene a qualunque costo il principio stesso dell’individualità, il diritto al dubbio e alla critica, il senso del vero e del falso, il rifiuto delle “menzogne utili”. In questo, la sua funzione è eminentemente sociale, eminentemente solidale dei diritti di ognuno, e più dei più umili, cioè dei più silenziosi e più facilmente ingannati.

Gli amici che mi hanno chiesto di aderire al Partito Radicale, non mi hanno chiesto né di aderire a un’ideologia né di dare una firma in bianco. Mi hanno chiesto di partecipare come potevo al tentativo di costituire nel paese una forza organizzata che contribuisca a rompere la mortifera immobilitò della vita politica italiana e a fare dell’Italia quel paese moderno che non è: un paese in cui si pensi, si agisca e si progredisca in accordo col mondo circostante.

Io sono convinto che questo è un tentativo da fare e rifare, per quante volte fallisca. Ho fiducia nelle intenzioni di quelli che ora lo iniziano. Quindi partecipo.

(da “Il Mondo”, 28 febbraio 1956)

Il mio ricordo di Nicola Chiaromonte

Il mio ricordo di Nicola Chiaromonte

di Ignazio Silone 

Incontrai Nicola Chiaromonte per la prima volta nel 1934 in Svizzera, dove io mi trovavo già da alcuni anni. Egli arrivò da Parigi. Mi avevano colpito alcune note e articoli non firmati, apparsi su “Giustizia e Libertà”, che mi erano stati indicati come opera sua. Notizie più personali su di lui avevo appreso da Annie Pohl, la sua prima moglie, che era gravemente ammalata ed era venuta in Italia nell’illusione di trovarvi un clima più adatto alla sua salute.

Ricordo ancora la forte impressione che Chiaromonte mi lasciò fin dal primo incontro. Nello scambiarci le notizie sulla situazione romana dovemmo constatare l’isolamento e la demoralizzazione in cui vivevano le forze residue dell’antifascismo sia dell’ambiente intellettuale che di quello operaio.

Chiaromonte costituiva per me la scoperta d’un fenomeno nuovo ed imprevisto di autoliberazione. Egli appariva immune dalla retorica dominante senza l’aiuto d’una tradizione politica familiare o di gruppo. Era approdato a idee chiare sulla società leggendo i classici, specialmente greci, e qualche autore recente. Conosceva Proudhon, anche qualche “inedito” di Marx in quel tempo pubblicato in Germania (come la “Deutsche Ideologie”) e aveva cominciato a studiare Husserl. Ma l’ambiente romano gli era insopportabile perché l’insofferenza del regime tra i suoi amici si risolveva in chiacchiere.

Stringemmo amicizia, ma le nostre relazioni rimasero postali. A me non era permesso risiedere in Francia, essendo stato già espulso dal paese, e mi ero rassegnato a vivere isolato in Svizzera. Chiaromonte invece aveva trovato a Parigi un ambiente più favorevole che sembrava soddisfarlo. Ma ben presto in lui e nel suo fraterno amico Andrea Caffi maturò l’insofferenza verso alcune esigenze del movimento politico di “Giustizia e Libertà” da cui esso poteva difficilmente prescindere.

Alla guerra civile spagnola Chiaromonte partecipò senza esitazioni e senza pentimenti assieme a molti altri volontari di altri paesi; ma dei numerosi intellettuali d’ogni levatura, che parteciparono a quell’impresa, forse egli è stato l’unico, o uno dei pochi, a non farne oggetto di pubblicità. Si sa che cosa ha rappresentato la guerra di Spagna per Orwell, per Koestler, per Hemingway, per Malraux. (Si conosce ora anche il giudizio accorato della Simone Weil sul terrore repubblicano, ma esso fu espresso in una lettera privata a Georges Bernanos che è stata conosciuta dopo la loro morte). Chiaromonte si è espresso su aspetti politici di dettagli di quell’avvenimento solo un paio di volte (ad es. sulla cronologia dell’intervento comunista) e nulla più. In questo atteggiamento c’è probabilmente un riflesso della sua visione dell’uomo nella irrazionalità della storia, quale si trova nei suoi saggi su “Guerra e Pace”, su Roger Martin du Gard, su Stendhal, su Pasternak.

Con maggiore agio e libertà, durante una dozzina d’anni, dal ’56 al ’68, Chiaromonte si è espresso nella rivista “Tempo Presente” da noi diretta. Egli vi si è dimostrato fedele al precetto scelto a programma dall’inizio: “Promuovere il riesame di pensare correnti, mettendoli a confronto con la realtà del mondo attuale”. La rivista dimostrò la sua efficacia anche fuori della sfera puramente intellettuale. La denunzia delle persecuzioni contro le minoranze religiose in Italia e la lotta contro la censura negli spettacoli ebbero buoni effetti. La difesa degli scrittori e artisti perseguitati in Russia, in Polonia, in Ungheria, in Spagna, in Grecia, valse a liberare la causa della libertà della cultura dal monopolio settario dei partiti politici. Lo stesso si dica della ferma denunzia di ogni condiscendenza, anche di amici, al golli

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