Proposta Radicale 1 2022
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E ora, dopo il 12 giugno?  Il 13 giugno e poi il 14, il 15…

di Valter Vecellio

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Diritti negati: quei malati marchiati per sempre

di Maria Antonietta Farina Coscioni

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Francia: Macron vince, Macron perde

di Gualtiero Donati

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La tesi di uno strano studente, Marco Pannella…*

di Luigi Ciaurro

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Perché la RAI non proietta il film di Vajda su Katyn?

di Mino Vianello

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E ora, dopo il 12 giugno? Il 13 giugno e poi il 14, il 15…

E ora, dopo il 12 giugno?

Il 13 giugno e poi il 14, il 15…

di Valter Vecellio

Ora, dopo i risultati sui cinque referendum per una giustizia più giusta del 12 giugno, ora che il quorum non si è raggiunto? Ora c’è il 13 giugno, il 14 giugno, il 15 giugno… Nel senso che non tanto “noi”, quell’adunata di refrattari fatta di radicali, garantisti, liberali, libertari, abbiamo perso un’occasione; piuttosto sono gli “altri”, a non averla saputa cogliere; non ne hanno saputo e voluto approfittare.

Da più parti si è sottolineata la bassa affluenza alle urne. Come sottolineato con evidente soddisfazione e compiacimento, si registra una grande disaffezione. Una “pigrizia” coltivata e nutrita con cura, funzionale al regime di una democrazia cattiva nella quale si vive. Serve, che un crescente numero di elettori diserti le urne. Accade da tempo che almeno la metà di quanti hanno diritto al voto decida di non esercitare questa facoltà perché delusa, frustrata, non si riconosce in nessuna delle offerte politiche che vengono offerte.

Non sorprende che tanti abbiano scelto di esprimersi in prima persona con un SI o con un NO. Hanno ritenuto inutile farlo, non capivano il senso dei quesiti; così dice Nando Pagnoncelli volto e voce dell’istituto Ipsos. Pagnoncelli ha ragione: ma se per settimane e mesi, dai mezzi che dovrebbero essere di comunicazione si martella dicendo che i referendum sono inutili e pericolosi, inventando letteralmente falsità, evidentemente poi si finisce per credere che lo siano; se non non si fa nulla per spiegare in termini semplici e lineari i quesiti, che per legge devono essere riportati nella scheda così come recitano le norme che si chiede di abrogare, non ci si può lamentare se poi si capisce poco o nulla del quesito stesso. Ma a differenza della Costituzione, che è stata scritta in un italiano accessibile a chiunque, sono i legislatori che formulano leggi astruse, piene di commi e paragrafi tecnici; imparassero loro a scrivere leggi chiare e poi anche i quesiti lo saranno. Non mancano commentatori che lamentano una mancata informazione: già, ma chi doveva assicurarla se non gli stessi che oggi, fuori tempo massimo, dicono che è mancata? Ma quando la Commissione Parlamentare di Vigilanza ha elaborato quel ridicolo e assurdo calendario di tribune referendarie, oltre ai radicali, chi ha levato la sua voce? Dicono poi che ai referendum hanno aderito personaggi discutibili e screditati. Ammesso e non concesso: non si rendono conto di attribuire a questi personaggi che ritengono discutibili e screditati un grandissimo potere: quello di rendere cattive buone cause, solo per il fatto di sostenerle o meno.

Non manca poi chi si accorge che il quorum andrebbe abolito, o quanto meno ridimensionato. Lo potevano proporre un anno fa, sei mesi fa, tre mesi fa. No: lo dicono a referendum annullati, con la riserva di non fare comunque nulla.

A suon di referendum non si risolvono problemi delicati come quelli della amministrazione della giustizia; lo dicono leader politici e commentatori i raffinati e pensosi editoriali. Intanto senza i referendum, di giustizia non si sarebbe proprio parlato e non si sarebbe neppure discusso per quel poco che si è fatto. E comunque: le forze politiche presenti in Parlamento hanno avuto tutto il tempo per affrontare queste questioni in Parlamento e fare le necessarie, urgenti, riforme. Perché non l’hanno fatto? I fautori del NO e segnatamente il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle, tutti gli altri che hanno invitato a disertare le urne: quali proposte hanno e che cosa intendono fare da subito, in Parlamento, visto che è in Parlamento che dicono si debba operare? Ci sono loro: dicano Enrico Letta, Giuseppe Conte, tutti gli altri e soprattutto facciano.

Perché sono come quel bue che dà del cornuto all’asino. Forza e coraggio: il risultato di questi referendum mostra che si è forse isolati, ma non soli. Soprattutto né vinti, né rassegnati.

Diritti negati: quei malati marchiati per sempre

Diritti negati: quei malati marchiati per sempre

di Maria Antonietta Farina Coscioni

È una questione di una tale enormità che non trovo le parole per definirla. Il diritto all’oblio oncologico e il salto nel passato è stato immediato. Penso a quel passaggio doloroso, netto, dall’indubbio significato, che Luca Coscioni ha vissuto sulla sua pelle.

Non bastava il peso della diagnosi di sclerosi laterale amiotrofica a 28 anni: da lì a poco non gli fu rinnovato l’insegnamento a contratto di Politica economica. Così, oggi, ogni volta che ascolto i racconti di malati o di ex pazienti oncologici, le discriminazioni patite, i diritti negati, sono pugni allo stomaco. Ma soprattutto colpi alla libertà e alla dignità: diritti di cui tutti siamo titolari. In Italia, almeno un milione di persone guarite dal cancro subisce discriminazioni: non possono accedere a mutui, adottare bambini; negati avanzamenti di carriera, ottenere prestiti e finanziamenti per aprire un’attività, nessuna copertura assicurativa. In Francia, Lussemburgo, Belgio, Olanda, Portogallo, il diritto all’oblio oncologico è una realtà: la legge garantisce agli ex pazienti oncologici il diritto a non essere discriminati, a non essere “rappresentati” dalla malattia. In Italia no. Sono tanti i malati oncologi anche se in follow-up: come A.S., la cui storia ho raccolto di recente, nell’ambito di un lavoro che curo per l’Istituto Coscioni: nel 2018 gli viene diagnosticato un carcinoma pancreatico; lui, più fortunato di altri, esce da questa situazione; ma la guarigione clinica non corrisponde a quella sociale. La guarigione da una malattia oncologica, infatti, passa anche dal pieno inserimento nella società. Con il riconoscimento del diritto all’oblio oncologico si avrebbe la parità di trattamento delle persone che sono state affette da patologie oncologiche, il pieno riconoscimento di tutti i diritti spettanti a un soggetto sano o malato che sia, senza discriminazione alcuna. In sostanza: la guarigione dal cancro non va considerata solo dal punto di vista clinico; occorre che in parallelo sia riconosciuta la guarigione sociale. Per questo è importante sostenere l’appello: https://dirittoallobliotumori.org/ per un intervento normativo in tema di diritto all’oblio oncologico anche nel nostro Paese.

L’Istituto Luca Coscioni sostiene la campagna «Io non sono il mio tumore», «Tu non sei il tuo tumore» promossa dall’Associazione e Fondazione Italiana di Oncologia Medica insieme a «IncontraDonna”, “aBRCAdabra” e “Pazienti Italia Melanoma”. Con il riconoscimento del diritto all’oblio oncologico, per esempio, per accedere a servizi bancari, finanziari, assicurativi, non si potranno chiedere informazioni sullo stato di salute relative a malattie oncologiche pregresse, quando sia trascorso un certo periodo di tempo da individuare dalla fine del trattamento attivo in assenza di recidive o ricadute della patologia. Lo stesso discorso andrà fatto per l’accesso alle adozioni di minori. Perché, pur in assenza di un divieto di legge, nel nostro Paese, la diagnosi di un tumore, è verosimilmente ritenuta ostativa all’adozione. La scienza dice che i guariti dal cancro hanno la stessa aspettativa di vita della popolazione di uguale sesso e di pari età. Non dobbiamo e non possiamo escludere le conoscenze scientifiche e rinunciare a migliorare la qualità di milioni di persone per chissà quali interessi economici. Dunque basta discriminazioni verso gli ex pazienti oncologici. 

Luca Coscioni avrebbe ripetuto: «Non privare mai un uomo dell’amore e della speranza. Quest’uomo cammina, ma in realtà è morto”.

Francia: Macron vince, Macron perde

Francia: Macron vince, Macron perde

di Gualtiero Donati

Il presidente francese uscente Emmanuel Macron vince le elezioni. Varca per la seconda volta la soglia dell’Eliseo. Bene: per i francesi, per l’Europa, per tutti. Tuttavia, pur vincitore, è perdente.

Si può, si deve, cominciare dal principio. Le elezioni rivelano quello che attenti osservatori e analisti non improvvisati ben conoscono: c’è una Francia smarrita, confusa, irritata, irritabile, piena di sé e vuota, gonfia e pesante, seduta e “vecchia”. In buona compagnia: ben più di metà Europa è in queste condizioni. Mal comune, guaio peggiore.

Il mandato presidenziale di Macron comincia il 14 maggio 2017. Quella sera un po’ tutti siamo rimasti abbagliati dalla sua “marcia” trionfale al suono della “Marsigliese” e l’”Inno alla gioia”. Sfumate le note, la realtà: sia al primo che al secondo turno, registra un alto numero di astensioni. Al primo numero non solo Marine Le Pen e il suo Fronte Nazionale di destra estrema raccolgono il consenso di una quantità di francesi; anche il candidato di una sinistra non meno demagogica e infantile, quella capeggiata da Jean-Luc Mélenchon si “piazza” in modo più che ragguardevole; al secondo turno, Macron prevale, ma sempre tanti i voti confluiscono su Le Pen; alta la percentuale degli astenuti: Macron e Le Pen, andate al diavolo entrambi, non siete differenti. Tra chi vota Macron, non lo fa “per” lui; piuttosto perché non vuole Le Pen. Sceglie il male minore; che sempre male considera, sia pure di intensità meno letale. La maggioranza dei francesi, insomma, non era per nulla convinta di Macron.

Oggi la situazione si ripete: alta soglia di astensione, superiore al 2017; ancora consenso a Mélenchon e soprattutto a Le Pen. In questi cinque anni Macron non ha saputo (o potuto) sanare la situazione che già era vistosamente emersa cinque anni fa; questa è la realtà e c’è poco di che essere allegri: Macron ha praticamente raschiato il suo fondo; i partiti centristi si sono schiantati (spariti di fatto socialisti e gollisti); al secondo turno chissà a chi riuscirà a “rubare” i voti. Si vedrà.

In questo la Francia ha molto in comune con l’Italia: lo “smarrimento” dell’elettore italiano non è di oggi. Una classe politica che non sa essere classe politica, non è cosa di oggi o di ieri. Una quantità di campanelli d’allarme sono suonati, a quanto pare invano: è un qualcosa di più che anomalo che si sia riconfermato Sergio Mattarella presidente della Repubblica perché non si è saputo esprimere un altro candidato; e che a palazzo Chigi ci sia l’ennesimo presidente del Consiglio estratto quale coniglio dal cappello e non proveniente direttamente da un lineare percorso politico; è più che anomalo che si debba tirare un sospiro di sollievo perché capo dello Stato e capo del Governo sono, oggi, Mattarella e Mario Draghi. Se si guarda con inquietudine il fatto che raccolgano consenso Le Pen e Mélenchon, non si dovrebbe dimenticare un istante che in Italia hanno trionfato i loro equivalenti: la coppia Giorgia Meloni e Matteo Salvini da una parte; il movimento di Beppe Grillo dall’altra. Ha ragione il segretario del Partito Democratico Enrico Letta più che allarmato: un insediamento di Le Pen all’Eliseo, comporterebbe “un terremoto senza precedenti in Europa… una cosa che sfascia l’Europa e avrebbe un impatto anche su di noi”.

Sarebbe un secondo, gravissimo, disastro: perché ancora sanguina la ferita costituita dalla Brexit. Oltreoceano, ci sono gli Stati Uniti che ancora non si sono ripresi dai gravi vulnus inferti da uno dei peggiori presidenti che si siano insediati alla Casa Bianca: c’è un’America che si rispecchia ancora in Donald Trump e la cosa mette i brividi: l’assalto a Capitol Hill è un oltraggio che non va dimenticato e che mai si sarebbe creduto. Germania, Italia e Spagna non avrebbero certo la forza, da soli di andare avanti. Per non parlare dell’effetto domino; anche in Italia a breve ci saranno elezioni amministrative, e al massimo entro un anno elezioni politiche.

In questo contesto (“arricchito” dalla crisi e dalle conseguenze del Covid, che ancora si fanno sentire; e della guerra scatenata da Vladimir Putin in Ucraina, che pesa e ancor più peserà sulle spalle di tutti), c’è poco di che stappare bottiglie di champagne per festeggiare. Macron vince le elezioni. Ma la partita è ancora tutta da giocare e conquistare: e non riguarda il solo Macron, la sola Francia, neppure la sola Europa…

La tesi di uno strano studente, Marco Pannella

La tesi di uno strano studente, Marco Pannella…*[1]

di Luigi Ciaurro

Di recente, un giornalista di “Radio Radicale”, Lanfranco Palazzolo, è riuscito ad entrare in possesso del testo della tesi di laurea in giurisprudenza di Marco Pannella[2]. Si tratta di una questione che per anni è stata avvolta nel mistero e forse nelle maldicenze, ma che ora – grazie a una seria ricerca d’archivio – è stato possibile ricostruire nei suoi dettagli[3].

La vicenda era conosciuta: Marco Pannella si era iscritto dapprima alla facoltà di giurisprudenza alla Sapienza di Roma e poi aveva concluso gli studi ad Urbino, con la clamorosa votazione minima di 66/110.

Ma cosa successe quel maledetto martedì 17 marzo 1953, data della discussione della tesi di laurea, in cui rischiò di essere addirittura bocciato[4]? Ma qual era stato il percorso scolastico e universitario di Marco Pannella?

È fatto notorio che Pannella fosse nato a Teramo il 2 maggio 1930. Meno conosciuta è la circostanza che si fosse iscritto a scuola con ben due anni di anticipo: è stato lui stesso a ricordarlo, ciò avvenne a causa della severissima madre svizzera di Lucerna[5]. Fra l’altro – sempre grazie alla madre – sin da ragazzo Pannella era perfettamente bilingue. E a quell’epoca il francese era ancora la lingua internazionale della diplomazia.

Prima notazione. Solo con la legge n.610 del 1969 sulla c.d. “liberalizzazione degli accessi” fu possibile iscriversi a qualsiasi corso di laurea con qualunque diploma di maturità. All’epoca di Pannella, invece, ci si poteva iscrivere alla facoltà di giurisprudenza solo avendo conseguito l’impegnativa maturità classica. Infatti, Pannella si era diplomato presso il liceo classico Giulio Cesare di Roma nell’anno scolastico 1946-47, a diciassette anni appena compiuti. La famiglia infatti era rientrata a Roma quando lui aveva undici anni, per cui frequentò quel liceo durante gli studi classici, tranne un anno in cui a causa dei bombardamenti si trasferì con la famiglia in Abruzzo.

Seconda notazione. In passato gli esami di maturità erano estremamente severi e impegnativi: non a caso per le vecchie generazioni quell’esame rimaneva un “incubo notturno” anche in età adulta. Pertanto, non era scontato essere promossi a giugno senza essere “rimandati a settembre” in una o più materie. Ebbene: Pannella, nonostante fosse “bi-anticipatario”, si maturò in tutte le materie senza essere rimandato, con una valutazione media di 6,5, laddove spicca non casualmente un 8 in storia[6].

In seguito lo studente Pannella si iscrive alla facoltà di giurisprudenza presso l’università La Sapienza di Roma nell’anno accademico 1947-48.

Successivamente, in data 1 febbraio 1952, ottiene il trasferimento con decreto rettorale all’università degli studi di Urbino, quando risultava essere già al primo anno fuori corso.

Il libretto universitario attesta che l’ultimo esame sostenuto a Roma risaliva al 18 ottobre 1951 (diritto del lavoro, voto 19)[7].

Dal libretto emerge inoltre che Pannella a Roma aveva svolto 16 esami, di cui 3 complementari. A quest’ultimo proposito, va segnalato che – accanto agli opzionali di diritto canonico e di antropologia criminale – sorprende la scelta di affrontare l’esame di psicologia, probabilmente mutuato dalla facoltà di magistero (voto 28). Si trattava infatti non solo di una scelta eterodossa rispetto ad un ordinario curriculum di giurisprudenza, ma di una perspicua e preveggente capacità di comprendere l’importanza di questa innovativa branca del sapere. Infatti, solo nel 1971 furono attivati veri e propri corsi di psicologia a Roma e a Padova presso le facoltà di magistero e solo con la legge n.56 del 1989 fu istituito l’ordine professionale degli psicologi.

Altresì: sempre quello stesso libretto universitario certifica un dato inquietante. Infatti risultano “scritte” due bocciature in diritto romano, una bocciatura in diritto civile e un ritiro in diritto del lavoro. Certamente all’epoca i criteri di verbalizzazione erano più rigorosi rispetto alla prassi attuale, ma non può non colpire l’annotazione di ben quattro incidenti d’esame.

Il curriculum universitario evidenzia anche il grande sforzo finale compiuto da Marco Pannella per conseguire la laurea. Le date sono significative. Nel febbraio 1952 si trasferisce all’università di Urbino; nel marzo del 1953 si laurea. In quel limitato lasso di tempo – oltre alla stesura della tesi – supera ad Urbino ben cinque esami di cui quattro in materie biennali (le più impegnative: diritto civile, diritto romano, diritto amministrativo e storia del diritto romano), più il “temutissimo” esame di procedura civile.

Quel martedì mattina lo studente Giacinto Marco Pannella si presentava davanti alla commissione di laurea con una media di circa 83 punti, al netto delle bocciature.

Non è facile ricostruire gli eventi a quasi settant’anni di distanza. Anche se le carte potrebbero dirci qualcosa. Lo stesso Pannella ne accennò, spesso scherzando, ma non raccontò mai i particolari.

È rinvenibile però un articolo su “Il Borghese” del 1999[8], in cui il giornalista Mario Natucci – “riordinando i ricordi dei suoi amici che furono studenti insieme a lui”, Ungari, Jannuzzi, Bandinelli e Loteta – dà una versione dei fatti a mio avviso non del tutto convincente. Ad esempio, afferma che Pannella si presentò con una tesi che non aveva nemmeno letto. Non credo fosse vero, proprio per l’impegno e la diligenza dimostrati da quello studente nel superare in poco tempo i cinque esami citati, tanto più che l’elaborato era alquanto stringato. Poi adombra l’ipotesi che in realtà la discussione durò a lungo a causa del confronto tra professori filoclericali e laicisti a proposito dell’articolo 7 della Costituzione. Nel frattempo, secondo Natucci, “Pannella lasciò che i docenti battibeccassero. Era di intelletto pronto e non faticò ad orientarsi sull’argomento”. Addirittura, mentre disquisivano, “Pannella tirò fuori due tesine[9] che aveva presentato assieme alla tesi e se le ripassò. Ne uscì con 66. Era finita, la mamma era stata accontentata”. Mi sembra che questa ricostruzione faccia troppo torto a quello che fu lo studente universitario e il giovane politico Pannella.

In un’occasione lo stesso Pannella ricordò di essersi trovato per due ore di fronte ad una commissione schierata con undici professori[10]. In effetti, dal processo verbale della commissione di laurea risulta la presenza proprio di undici professori[11]. E’ interessante analizzare il loro curriculum, che forse ci consente di dare una spiegazione – seppure ex post e tra mille virgolette – a quello che può essere successo in quelle maledette due ore.

Iniziamo dal presidente della com​mis​sione, Giulio Vismara (storico del diritto), che poi fu anche preside della facoltà. Proveniva dalla Cattolica di Milano, era un fervente uomo di fede e padre di cinque figli. Poi c’erano i seguenti professori: Lorenzo Spinelli (diritto ecclesiastico): anch’egli poi fu preside della facoltà di Urbino (e poi rettore a Modena), allievo di Jemolo, fu a lungo il decano dei giuristi cattolici. Renato Scognamiglio (diritto del lavoro) era un allievo di Santoro Passarelli, che fu uno dei primi presidenti dell’Unione nazionale giuristi cattolici. Danilo De Cocci (esperto di diritto amministrativo e delle assicurazioni) era addirittura un deputato in carica della Democrazia Cristiana (rimase poi ininterrottamente parlamentare fino al 1983). Serio Galeotti, un costituzionalista di area cattolica. Nel verbale risulta formalmente come relatore, in quanto Marino Bon Valsassina (anche lui docente di diritto costituzionale) – il quale era il vero e proprio relatore che aveva assegnato ed approvato la tesi di Pannella – non insegnava più nell’ateneo di Urbino, si diede malato e – a quanto riferisce sempre Natucci – fece pervenire “un telegramma carico di apprezzamenti positivi sulla tesi”. Marcello Gallo (diritto penale), il quale fu poi negli anni Ottanta senatore della Democrazia Cristiana. Ercole Cacaterra (economia politica) fu un allievo di Francesco Vito, figura storica della Cattolica di Milano. Arturo Massolo è un notissimo filosofo marxista, che probabilmente era incaricato della supplenza in filosofia del diritto. Infine, figurano Giovanni Zaccaria (amministrativista), Alessandro Santini (un avvocato civilista del posto) e probabilmente, data l’illeggibilità della firma, Renzo Domini (o qualcosa di simile), forse un assistente volontario.

Data la composizione della com​missione, potrebbe venire un sospetto, che allo stato potrebbe considerarsi solo un’ipotesi di studio. Forse il giovane Pannella si trovò dinanzi ad un piccolo plotone di esecuzione di matrice cattolica, essendo lui probabilmente ben noto non tanto quale esponente liberale, quanto come leader dell’Unione Goliardica Italiana di cui era diventato presidente nel 1952 dopo il congresso di Firenze. Come noto, l’UGI era riuscita ad imporsi nell’UNURI, già agli inizi degli anni Cinquanta con Stanzani Ghedini, spodestando l’iniziale prevalenza cattolica, che vide Agostino Greggi primo presidente dell’UNURI stessa[12]. Secondo la testimonianza di Massimo Teodori, agli inizi degli anni Cinquanta l’UGI si caratterizzò per un certo anticlericalismo e per il forte tentativo di dar vita ad un terzo polo culturale e politico (anche se non partitico) rispetto alla Democrazia Cristiana e alle sinistre.

Questa può essere una spiegazione, ancorché a dire il vero nella tesi di Pannella non emergano affatto intonazioni anticlericali. Tuttavia, a pagina 44 dell’elaborato Pannella usa non a caso un condizionale denso di significati: “in definitiva, si può concludere, il privilegio e la particolare posizione riservata alla religione cattolica non dovrebbe – almeno in linea di massima – risolversi in un pregiudizio di fatto del generale principio di uguaglianza giuridica dei cittadini”. Questa conclusione potrebbe essere il risultato di un compromesso tra il liberal Pannella e il relatore, l’ultra cattolico Bon Valsassina, sulla base del presupposto che non possa non esserci un certo confronto dialettico fra i due.

Va ricordato che Pannella sin dal 1950 era stato incaricato dal movimento della gioventù liberale di curare i rapporti con l’UGI, evidentemente a testimonianza che il Partito Liberale aveva ben intuito le doti soprattutto comunicative di quel giovane studente.

Quanto ai contenuti della tesi di laurea, in primo luogo colpisce la sua stringatezza: solo 73 pagine. Secondo Fulco Lanchester la limitata voluminosità della tesi potrebbe essere stata la causa di una votazione così bassa[13]. Tuttavia, probabilmente questo era più o meno lo standard dell’epoca presso la facoltà di giurisprudenza di Urbino; altrimenti è lecito supporre che lo stesso Bon Valsassina non avrebbe approvato e firmato l’elaborato prima del suo deposito presso la segreteria amministrativa.

Secondo la citata testimonianza di Marcello Gallo, che come abbiamo visto era presente alla discussione, la tesi era stata considerata dalla commissione come non avente “né capo né coda”. In effetti colpisce la mancanza, ad esempio, di un paragrafo dedicato alle conclusioni. Infatti la tesi termina illustrando la differente posizione giuridica dei figli illegittimi rispetto ai legittimi, come una delle tante questioni affrontate nello specifico.

In ogni caso, rileggendo con le lenti di oggi quel testo, in primo luogo appare infondata la “calunnia”, secondo cui la tesi sarebbe stata scritta in diversi spezzoni da vari amici di Pannella. Infatti, lo stile lessicale dell’intero elaborato appare del tutto omogeneo. Piuttosto, la tesi appare – come molto spesso avviene del resto – in gran parte compilativa, tuttavia con una serie di significativi “colpi di genio”, che a mio avviso ne esaltano il valore complessivo.

Ad esempio Pannella da militante liberale insiste in varie occasioni su una pregiudiziale: “ma perché l’uguaglianza arrivi a sussistere è condizione necessaria la libertà: infatti la libertà nell’ambito delle relazioni sociali dà come conseguenza l’uguaglianza”. Questa è una sintesi molto significativa del pensiero di un “buon liberale”.

Ma non basta. Altrove Pannella insiste molto sul concetto di “partecipazione politica” come nucleo essenziale di un ordinamento che pur voglia favorire l’attuazione del principio di uguaglianza.

In un punto specifico Pannella sor​prende e dimostra che nel 1953 un giovane ragazzo era già “avanti” di svariati decenni. Si tratta solo di una nuance, ma dirompente e clamorosa per quei tempi. “Consideriamo il problema rispetto al sesso. L’uomo e la donna cittadini (l’ermafrodito non è conosciuto dall’ordinamento che lo assegna ad uno dei due sessi di cui abbia i caratteri prevalenti; ndr) sono dotati della stessa capacità giuridica essendo titolari di una sfera giuridica capace di identica espansione”.

Inoltre, proprio nell’incipit della tesi – dedicato più che al principio di uguaglianza alla “aspirazione” dei consociati alla uguaglianza – un paio di pagine si caratterizzano per una certa attenzione agli aspetti psicologici degli uomini (quasi a voler evocare la c.d. “psicologia delle masse”), a riprova della pionieristica sensibilità a quella disciplina sopra ricordata.

Infin, ponendosi un pur semplice interrogativo, Pannella sembra voler anticipare la complessa problematica del rapporto tra entrata in vigore della Costituzione e abrogazione delle leggi precedenti, che sarà poi affrontata dalla prima sentenza della Corte Costituzionale (n.1 del 19569: “la norma costituzionale (art.3) ha fatto venir meno rispetto al sesso ogni superstite differenza?”.

Immaginiamo ora quel ragazzo magro e alto 1 metro e 91, che usciva soddisfatto con la tesi sottobraccio avviandosi verso i cosiddetti “torrioni” di Urbino, magari inseguito per sbarcare il lunario dal fotografo di turbo che lo chiamava “dottore”. Era sorridente, illuminato dai primi raggi del sole di una primavera ormai alle porte. Poi lo scorgiamo sotto i portici incamminarsi – per avvertire la madre lontana – verso la postazione telefonica situata sul retro del bar Basili a palazzo Albani, in compagnia dell’immancabile sigaretta e con lo sguardo pieno di sogni e proteso verso le sfide del futuro.


NOTE

[1]  Questo articolo, in origine è stato pubblicato dal trimestrale “Libro Aperto” (n.108), trimestrale fondato da Giovanni Malagodi e diretto da Antonio Patuelli.

[2]  Si tratta di una tesi di laurea di 73 pagine, che reca sul frontespizio le tradizionali indicazioni: Università degli studi di Urbino – Facoltà di Giurisprudenza; “L’uguaglianza giuridica dei cittadini nella Costituzione italiana”; Tesi di laurea di Giacinto Marco Pannella; Relatore: Ch.mo Prof. Marino Bon Valsassina; anno accademico 1951-52.

[3]  Grazie alla cortesia del dottor Antonio Munari, funzionario dell’ateneo urbinate, è stato possibile rinvenire il decreto del rettore dell’università di Roma del 1 febbraio 1952, riguardante il trasferimento di Pannella all’università di Urbino; copia del libretto universitario della Sapienza; l’estratto del processo verbale della commissione di laurea in giurisprudenza di Urbino del 17 marzo 1953; il certificato dell’università di Urbino del 25 novembre 1954 concernente il conseguimento della laurea e la lista degli esami superati con le relative votazioni.

[4]  Nell’ambito di una conversazione telefonica con il sottoscritto in data 17 gennaio 2022, il professor Marcello Gallo, che era presente durante quella discussione, ha confidato che dovette impegnarsi affinché lo studente Pannella non fosse bocciato, come una parte della commissione avrebbe preferito. Amplius si rinvia all’intervista dello stesso Marcello Gallo su “Radio Radicale” dal titolo: “Ecco perché mi sono battuto per promuovere Marco Pannella”, disponibile ora al seguente link: https://www.radioradicale.it/scheda/658240/quel-giorno-17-marzo-1953-la-discussione-della-tesi-di-marco-pannella

[5]  “Ero studente, a Roma, uno studente un po’ avanti perché mia madre nel desiderio di perfezione aveva preteso che saltassi due anni” (cit. da D. Galli, Pannella, 2016, pag.14).

[6]  Per entrambe le notazioni si rinvia a G. Moncalvo, Pannella, Milano 1983. In particolare, “ho fatto il liceo a Roma, tranne un anno, durante la guerra, quando sfollammo per i bombardamenti e tornammo in Abruzzo” (p.28). Circa i voti alla maturità classica, 8 in storia, 7 in matematica e storia dell’arte e 6 nelle restanti materie (p. 29).

[7]  Nell’ambito delle votazioni più elevate riportate a Roma, si ricorderanno 28 in filosofia del diritto e psicologia; 27 in diritto costituzionale, antropologia criminale; 26 in diritto ecclesiastico; 24 in diritto penale. Appare evidente una certa propensione nelle discipline pubblicistiche in senso lato.

[8]  Cfr. “Il Borghese”, 12 agosto 1999, pp. 38 s.: La tesi del dottor Pannella? Un referendum sul concordato, articolo siglato M.N. (alias Mario Natucci), che contiene anche la notizia (non confermata, aliunde) che nel marzo del 1953 “all’epoca il giovane Pannella era militare, soldato semplice”. Si trova anche questo significativo ricordo: “Pannella esordì in politica come attivista monarchico con la campagna referendaria del 1946. A Roma, nella zona di piazza Bologna in cui abitava, andava ad affiggere manifesti monarchici che lui stesso confezionava sui fogli dei quaderni di scuola. Non era un attivista del Partito nazionale monarchico, ma piuttosto un attivista che aderiva idealmente all’ala monarchica del Partito liberale”.

[9]  Questi i titoli delle tre tesine (di cui probabilmente solo le prime due effettivamente discusse): Se la clausola di pagamento all’estero in moneta estera di merci importate in Italia senza l’osservanza delle disposizioni sia da ritenersi nulla; se possa qualificarsi organo indiretto dello Stato il ministro di culto che adempie alle formalità amministrative per la trascrizione del matrimonio canonico; l’imperium dei pontifices (in particolare quello del potifex maximus).

[10]  “Già, l’università. Una laurea del resto l’ho pur presa anch’io in giurisprudenza, a Urbino, con un voto bassissimo, 66. Scelsi Urbino fra tante università perché pareva che lì arei potuto far presto. Discussi la tesi per tre ore, con undici professori” (cfr. G. Moncalvo, op. cit., pag. 30).

[11]  Dal processo verbale risulta anche che ciascuno degli 11 commissari diede allo studente Pannella il voto minimo (6).

[12]  Nell’ambito di una letteratura specifica alquanto limitata si rinvia esemplarmente a G. Quagliariello, Studenti e politica (1925-1946), Manduria, 1987; P. Pastorelli, L’Unione Goliardica Italiana (1946.1968), Bologna 2015; V. Emiliani, Cinquantottini. L’Unione goliardica italiana e la nascita di una classe dirigente, Venezia 2016.

[13]  V. l’intervista su “Radio Radicale2 dal titolo: “I relatori della tesi di laurea di Marco Pannella”, disponibile sul sito al link: https://www.radioradicale.it/scheda/656859/i-relatori-della-tesi-di-laurea-di-marco-pannella-intervista-al-prof-fulco-lanchester, dove viene ricostruita anche la figura del professor Marino Bon Valsassina, relatore di Pannella, docente “incaricato” di diritto costituzionale, definito un “costituzionalista antagonista” da Lanchester, secondo il quale fu anche il primo (nel 1966) a ipotizzare l’utilizzo dello strumento referendario ai fini del mutamento della legge elettorale. Fu anche presidente dell’Unione Monarchica Italiana e consigliere comunale per la destra a Roma, dal 1971 al 1981.

Perché la RAI non proietta il film di Vajda su Katyn?

Perché la RAI non proietta il film di Vajda su Katyn?

di Mino Vianello

Katyn fu la località dove nel 1943 i sovietici uccisero migliaia di ufficiali e soldati dell’esercito polacco, tentando di farlo passare come un crimine nazista. Boris Eltsin riconobbe la verità di quanto appurato dalla Commissione Internazionale della Croce Rossa nel ‘43 con le parole “Perdonateci, se potete”. Della Commissione, per inciso faceva parte il professor Luigi Palmieri, ordinario di Medicina Legale all’Università di Napoli, di cui nel 1948 il direttore dell’Unità chiedeva la rimozione dall’insegnamento universitario…

Di “Katyn”, il film di Andrzej Wajda, il critico cinematografico del “Corriere della Sera” scrisse che si sarebbe dovuto vedere in piedi, sull’attenti; non fu mostrato in nessun cinema di Milano e in una dozzina di città su tutto il territorio nazionale (lo 0,17 per cento dei quattromila cinema esistenti in Italia, nella prima settimana un totale di otto sale in tutto il paese). Del resto, non aveva proclamato Vjačeslav Michajlovič Molotov, all’indomani del patto concluso con i nazisti, “La Polonia non esiste più”? E allora perché non restare ossequienti alla memoria del “Gigante del Pensiero” (come Palmiro Togliatti definì Josif Stalin) che voleva annientare la Polonia? Perfino i leader del partito comunista polacco erano stati eliminati nel 1938…

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