Murgia non ha potuto scegliere troppi no della politica
colloquio con Maria Antonietta Farina Coscioni
di Giovanni Maria Flick **
La Costituzione è in vigore da pochi giorni quando la stessa Assemblea costituente, il 19 gennaio 1948, approvò le “Disposizioni sulla stampa”, la legge 47 promulgata l’8 febbraio successivo. Abroga i limiti posti dal regime fascista, rimuove i divieti, i controlli preventivi, le autorizzazioni (magari ribattezzandole “registrazione”), ma appare ispirata dalla diffidenza più che dalla fiducia, dal timore di un uso eccessivo della ritrovata libertà. In tono sbrigativo, riserva al governo «le norme per l’attuazione della presente legge», tuttora in vigore senza modifiche salvo quella del 1981 sulle rettifiche (articolo 8 e articolo 21 sulla connessa disciplina processuale) e la recente dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 13, sulla reclusione per i colpevoli di diffamazione a mezzo stampa con l’attribuzione di un fatto determinato, puniti con una pena aggravata rispetto alla generale previsione dell’articolo 595 Codice penale (sentenza 150/2021).
Una lunga vicenda, a voi ben nota, preceduta da reiterati inviti al legislatore – tutti caduti nel vuoto – da importanti pronunce della Corte EDU e dal rinvio di un anno della dichiarazione di illegittimità costituzionale, affinché la disciplina assicurasse il giusto equilibrio fra la tutela della reputazione individuale con l’esercizio pieno e non intimidito della libertà di stampa (nell’accezione larga del sostantivo “stampa”), che costituisce lo strumento più potente per l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, ora tutelata anche dalle Carte sovranazionali, che ne puniscono le violazioni.
Questa evoluzione, sommariamente richiamata, va letta insieme all’articolo 57 del Codice penale, che coinvolge il direttore nella responsabilità penale dei singoli autori, per i reati eventualmente commessi. Negli anni ’50, ben prima che l’Ordine fosse istituito, quella previsione di responsabilità penale oggettiva, anziché personale secondo Costituzione, fu accompagnata da polemiche durissime, non soltanto in via di principio, ma legate a inchieste e denunce, per esempio sulla speculazione edilizia e gli interessi di grandi gruppi immobiliari, i quali contrattaccavano con querele intimidatorie, produttive di sentenze contradittorie fra loro e nei diversi gradi di giudizio. Lo scenario, anche tra gli esponenti politici e istituzionali, appariva molto più sensibile alla tutela dei grandi interessi industriali e finanziari (spesso a loro volta presenti direttamente e indirettamente nei giornali come editori e finanziatori) che alla tutela della libertà di stampa come presidio delle libertà democratiche. Nonostante tanto dibattere, quell’articolo ebbe una sola modifica significativa, nel 1958, con la sostituzione della responsabilità oggettiva (che difficilmente avrebbe superato il vaglio di legittimità costituzionale) con l’omesso controllo, la culpa in vigilando, il cui effettivo esercizio è a sua volta spesso impossibile. Anche il vilipendio delle istituzioni veniva minacciato a tempo e fuor di tempo.
C’è da chiedersi come sia stato possibile attraversare i decenni senza una seria volontà (da parte di tutti, non escluso il mondo dell’informazione) di pervenire ad un reale ed equilibrato aggiornamento normativo, a tutela sia della libertà di stampa e di manifestazione del pensiero, sia dei diritti fondamentali delle persone nonché della reputazione dei singoli, delle istituzioni, delle imprese e di ogni altra entità collettiva i quali siano danneggiati dall’attribuzione di addebiti falsi o travisati, quando non siano bersaglio di vere e proprie campagne di disinformazione (evento più raro ma non inesistente). Forse a renderlo possibile è stata la nostra abilità nel non affrontare i problemi e porre rimedi, attraverso il loro aggiramento. Così credo sia avvenuto almeno fino agli anni ’90, cioè fino a quando l’articolo 57 del Codice penale è stato “sterilizzato” da cinque amnistie senza soluzione di continuità: 1966, ’78, ’81, ’86, ’90. Poi, a partire dal nuovo Codice di procedura penale, le amnistie sono finite; sono però sopravvenute (non sempre, ma spesso) le prescrizioni dei processi, sempre più lunghi; la reazione, genuina o intimidatoria, di quanti si ritengono danneggiati o non tollerano la funzione critica della stampa e dei giornalisti, si è spostata dall’ambito strettamente penale a quello delle richieste risarcitorie, quando non ha coltivato entrambi i versanti, anche con pretese insostenibili dal singolo, sempre più raramente tutelato dalla copertura assicurativa dell’editore.
Questo profilo non è affatto estraneo al tema sul quale concentrerò la mia attenzione fra poco, e cioè al rapporto fra procedimenti penali e cronaca giudiziaria. La pubblicazione di notizie e atti giudiziari, infatti, vìola spesso le norme (mal scritte e ipocrite) sul segreto investigativo e il divieto di pubblicazione degli atti d’indagine; ma questo non preoccupa giornali e giornalisti, perché in genere tali violazioni non sono perseguite, per molteplici ragioni. Quel che più interessa è il fatto che, salvo un utilizzo gravemente irrispettoso e anche poco scaltro di tali atti, essi rappresentano una sorta di scudo penale e civile: l’informazione fa solo il suo dovere pubblicando notizie di interesse pubblico, purché rispettino – secondo i ben noti princìpi stabiliti dalla Cassazione – «i limiti della verità, della continenza e della pertinenza». In tal caso non soltanto si beneficia della scriminante del diritto di cronaca (rispetto ad attribuzioni oggettivamente diffamatorie, ancorché “vere”) ma si “scarica” sul provvedimento giudiziario, ancorché ben lontano dall’essere una sentenza, il riscontro del requisito della verità.
Non spetta al giornalista (nell’articolo e nel titolo) verificare che il fatto attribuito o ipotizzato sia vero: ad essere vero è che il Pubblico ministero o il Giudice delle indagini preliminari (sulla base della motivata richiesta del pubblico ministero) affermino determinati fatti e formulino ipotesi di reato, prognosi di colpevolezza, sussistenza dei presupposti per applicare misure cautelari o personali. Basta avere la cautela di utilizzare qualche condizionale, di attribuire alla magistratura la paternità delle ipotesi di accusa, virgolettare stralci di affermazioni o trascrizione di conversazioni (intercettate). Senza dimenticare, soprattutto nell’ultimo anno, di sottolineare che la persona indagata è “presunta innocente” fino a sentenza definitiva, nel rispetto del decreto legislativo 188/2021: una delle tante “riforme Cartabia” che attua una direttiva europea rivolta non ai giornalisti ma agli Stati e alle autorità giudiziarie, affinché non siano attribuite responsabilità come fossero già accertate in sentenza, e non siano indicati come colpevoli persone non condannate definitivamente (e che spesso non sono ancora neppure imputate). Singolare che sia stata necessaria una direttiva europea per ricordarci di attuare principi fondamentali sanciti, da 75 anni, dalla nostra Costituzione.
Definire il concetto di continenza spetta a voi giornalisti, alla vostra esperienza e professionalità, se necessario ai vostri organi disciplinari o anche eventualmente al giudice. È continenza il rispetto dell’altro, è continenza ciò che è utile, ciò che è necessario perché io possa dire quello che penso o per riferire quello che ritengo sia di interesse pubblico. Non è continenza quel che aggiungo per gratificare me o altri; anche solo un aggettivo, del quale avrei tranquillamente potuto fare a meno. Altro discorso è la continenza degli atti giudiziari, che spesso manca. Ne farò cenno.
Da “100 giorni” si parla molto di intercettazioni, ma non ho ancora avuto il piacere di leggere una sola riga modificativa, aggiuntiva o abrogativa delle norme attuali, peraltro disposte da una legge recente i cui effetti devono essere ancora pienamente valutati. Che il problema esista ne sono convinto anche io, da almeno 25 anni: da ministro della Giustizia, proposi una riforma che naufragò in Parlamento e che per molti versi, e in alcuni istituti specifici, somigliava a quella del mio successore Orlando, modificata prima ancora di entrare in vigore e a lungo rinviata. Anche allora l’impulso alla riforma fu dato dalla pubblicazione di intercettazioni ambientali che coinvolgevano persone estranee al processo e il cui contenuto non aveva alcuna rilevanza penale; e però la diffusione violava gravemente la privacy e la dignità di quelle persone. Ora siamo finalmente arrivati alla selezione delle intercettazioni rilevanti, da parte del Pm, e all’istituzione di un archivio riservato posto sotto la sua sorveglianza e responsabilità.
C’era tuttavia, fin da allora, anche l’intento di limitare, in modo effettivo, il ricorso alle intercettazioni ai soli casi di assoluta indispensabilità, quando sia impossibile proseguire con altri mezzi un’indagine già in corso. In altre parole: prima deve esistere una notizia di reato, con una fattispecie ben delineata e gravi indizi di reato, anche contro ignoti. Se non è possibile procedere diversamente e se il reato, per la sua gravità, rientra fra quelli intercettabili, è giusto che la procura chieda al Gip di disporre le intercettazioni. Non è stato così in passato e mi auguro che oggi lo sia. Sarebbe interessante verificare, su un campione di procedimenti penali pervenuti a sentenza, quali fossero i reati ipotizzati nella richiesta al Gip, quali quelli contestati (dallo stesso Pm) al momento di esercitare l’azione penale, e quali quelli effettivamente riconosciuti o negati in sentenza. Inoltre l’assoluta indispensabilità mal si concilia con le frequenti richieste di proroga (che ora dovrebbero diminuire, nel quadro di un più rigoroso rispetto dei termini di durata delle indagini preliminari). Se alcune settimane di captazione e di ascolto non sono sufficienti a dare riscontro all’ipotesi di accusa, il sospetto è che si stia procedendo con la cosiddetta “pesca a strascico”: prima o poi qualcosa entra nella rete, magari del tutto diversa da quella ipotizzata.
Sono convinto che le intercettazioni siano indispensabili, sono consapevole che nessun vero cronista resta insensibile davanti alla possibilità di ottenerle, specie se in esclusiva, ma sono preoccupato per il loro abuso. Ho qualche speranza che la situazione stia cambiando, ma non ne sono sicuro. Comprendo, peraltro, le ragioni che rendono l’argomento incandescente. Sono almeno quattro.
La prima. Sono in gioco interessi primari dell’ordinamento: la libertà personale, la riservatezza, la sicurezza, il diritto di informazione e di cronaca. Decidere quale interesse debba prevalere sull’altro non sempre è facile. Un’indicazione, però, proviene dalla Costituzione: quando si comprimono – per legge e con provvedimento dell’autorità giudiziaria – i diritti e le libertà fondamentali, si devono rispettare i criteri di proporzionalità e adeguatezza.
La seconda. Non sempre è questione di norme, ma di comportamenti. La legge già prevede il requisito della “assoluta indispensabilità” delle intercettazioni: la regola è che non si possano utilizzare in altri procedimenti, salvo che risulti indispensabile e rilevante per accertare specifici delitti indicati dalla legge; non è consentito utilizzarle per aprire nuovi procedimenti o per la ricerca indiscriminata di elementi di prova. Nella prassi, a volte, tali limiti vengono forzati o elusi, magari al fine di soddisfare esigenze di sicurezza collettiva. Ma lo strumento penale serve per punire fatti criminali, non per reprimere (o risolvere) fenomeni sociali.
La terza. Gli interventi del legislatore sono stati caotici e contraddittori. Le norme sono complicate e contorte. Ho già accennato alla riforma del ministro Orlando: il decreto legislativo 216/2017 non è mai entrato in vigore, e dopo numerosi differimenti è stato modificato con decreto legge dal successore, il ministro Bonafede, tra l’altro con l’estensione delle intercettazioni ai delitti contro la pubblica amministrazione.
La quarta. L’evoluzione tecnologica ha coinvolto tutti i mezzi di ricerca della prova, dalle analisi del Dna, alle qualità delle riprese video, alla geolocalizzazione, agli strumenti di “forensic”. Per le comunicazioni e le conversazioni private, alle intercettazioni telefoniche o ambientali “tradizionali” si è aggiunto “il captatore informatico” (trojan). Uno strumento molto invasivo la cui utilizzazione incontrollata rischia di porsi in contrasto con l’articolo 15 della Costituzione.
Al di là della minore permeabilità delle nuove regole rispetto alle fughe di notizie e alla ricerca inarrestabile dei cronisti, non credo che i nodi del rapporto fra giornalisti e pubblici ministeri (o polizia giudiziaria) siano circoscritti alle intercettazioni. Più in generale, come ho già descritto, riguardano il rapporto fra atti giudiziari, intercettazioni incluse, e diritto di cronaca. Oggi la maggior parte delle intercettazioni pubblicate dai giornali proviene dalle ordinanze di custodia cautelare, che non sono soggette a restrizioni (al di là del fatto, grave, che a volte sono in possesso dei giornalisti prima della notifica all’interessato e al suo avvocato). In tal caso la continenza e la pertinenza, peraltro espressamente previste dalla legge, dovrebbero riguardare il pubblico ministero che chiede la misura e il Gip che la concede.
In definitiva l’attività giudiziaria fornisce materiali appetibili per il mondo dell’informazione sotto molti profili: agevolano il controllo sociale e sui pubblici poteri da parte dei giornalisti, compito primario dell’informazione in un paese libero; permettono di conoscere e approfondire le attività e i comportamenti della criminalità organizzata, rilevante per la sicurezza pubblica e la tenuta delle istituzioni democratiche; soddisfano curiosità e prurigini umanamente comprensibili, ma che dovrebbero essere sottoposte a un vaglio critico e a un rigoroso filtro deontologico, personale ed eventualmente degli organi della professione. Oltre a tutto questo, come ho già detto, la fonte giudiziaria, in tempi di magra per il giornalismo d’inchiesta e per i rischi anche economici per chi lo pratica, è un palco in prima fila a teatro o allo stadio: un minimo di cautela, molta narrazione, nessun rischio.
Nessun rischio giudiziario, probabilmente. Ma molti rischi su altri piani, sì. Partiamo da un esempio, non troppo lontano. L’incapacità della politica di affrontare e risolvere questioni sociali e offensive criminali ha determinato la sempre più ingombrante – anche generosa e pagata a caro prezzo dai migliori magistrati – supplenza giudiziaria (lotta al terrorismo, alla mafia, alla corruzione), salvo poi lamentarsene o illudersi di porvi rimedio con le continue «trattative» e contiguità tra partiti e correnti associative, come dimostrano le vicende del Csm (quelle degli scandali recenti nelle precedenti consiliature, ma anche quelle di oggi, per la composizione del nuovo Consiglio superiore della magistratura). La stessa lotta politica si trasferisce nelle procure, perché gran parte dei procedimenti, specie nell’ambito dei reati (veri e presunti) contro la pubblica amministrazione sono originati da esposti degli avversari politici, per denunciare abusi e malversazioni, o per proseguire nelle aule giudiziarie le battaglie perdute nelle aule parlamentari o dei consigli regionali e comunali.
Se anche l’informazione politica, economica, sociale, è filtrata dall’osservatorio giudiziario, dai suoi atti pubblici, dalle briciole o dagli ossi gettati in pasto, fino ai piatti succulenti riservati solo ad alcune testate più «affidabili», l’ansia da prestazione è soddisfatta, l’illusione di stare dalla parte giusta della storia e dell’etica alimenta il fenomeno; ma i guasti sono pesanti, il disorientamento nell’opinione pubblica è crescente, la credibilità dell’informazione sempre più declinante. Ci sono testate schierate su fronti opposti, che forniscono al lettore lo stesso menù, con ingredienti diversi: l’una cucina a fuoco lento gli indagati di destra o della sinistra di un tempo; l’altra, la sinistra vasta: da quella dei partiti definiti comunisti e post-comunisti a quella dei movimenti, passati in fretta dalla purezza al giustizialismo, dalle epurazioni alle fuoriuscite. È pluralismo dell’informazione anche questo, si dirà; ma non si alimenta del confronto delle idee, quanto della selezione delle notizie e della demonizzazione mediatica e giudiziaria degli avversari. Molti, autorevoli ex direttori e cronisti di punta, fanno oggi ammenda per il passato forcaiolo e pettegolo, non di rado spietato, dei loro giornali soprattutto al tempo di tangentopoli. Nessuna ammissione, dei loro successori, sulle responsabilità attuali. Forse sono inesistenti? Sono certo che qualche ammissione arriverà in tempo per le celebrazioni dell’80° del vostro Ordine. In qualche modo spero di essere presente, magari da remoto…
C’è un altro responsabile di questa deriva: la lunghezza dei processi. Quando dall’ordinanza cautelare all’avviso di conclusione delle indagini passa un anno, perfino due, e poi molti altri mesi per chiedere il rinvio a giudizio, e ancora un anno per l’udienza preliminare, e altri uno o due per l’inizio del dibattimento di primo grado, che senso ha sostenere che si dovrebbe aspettare il processo? La riforma Cartabia, appena entrata in vigore, sia pure con termini e decorrenze molto articolate, fissa termini tassativi che non dovrebbero più consentire la terribile sequenza appena descritta. Lo verificheremo alla prova dei fatti, senza dimenticare le carenze di risorse e organico lamentate ancora pochi giorni fa, nelle relazioni di apertura dell’anno giudiziario nei distretti di Corte d’appello.
Insomma, siamo riuniti per celebrare i 60 anni dell’Ordine dei giornalisti, e sembra che siano stati soprattutto decenni di faticosa ricerca di equilibri mai conseguiti e più spesso elusi, aggirati; di libertà di stampa sempre insidiata; sopravvissuta e progredita più grazie all’indubbio pluralismo informativo che alla stabilità dell’assetto ordinamentale e alla solidità delle garanzie. Nel frattempo la rete e le innovazioni tecnologiche, a cui corrisponde la contrazione del mercato pagante, hanno indebolito l’editoria, ridimensionato le testate tradizionali, impoverito e precarizzato i giornalisti, privandoli anche dell’istituto di previdenza.
Mi domando quale sarebbe oggi la situazione, non solo per l’informazione e il confronto delle idee, ma per la nostra libertà, senza l’articolo 21 della Costituzione, con il suo lapidario primo comma: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Ha provveduto poi la Corte costituzionale ad ancorare l’esercizio di questo diritto alla libertà di stampa, definendola fin dal 1969 «pietra angolare dell’ordine democratico» (sentenza 84). Nel 1971 disse che il diritto all’informazione è il più alto fra i diritti fondamentali e (1985) lo definì un cardine della democrazia. L’informazione è la linfa della politica e della democrazia liberale. Senza libertà non c’è democrazia; se l’informazione è limitata, ostacolata, la democrazia è carente. I Padri Costituenti hanno avuto un’intuizione di presbiopia della Costituzione. Non potevano immaginare lo sviluppo della televisione, di internet, della rete, dei social e ora del metaverso: strumenti che hanno arricchito ma anche insidiato il diritto all’informazione. Però per fortuna l’articolo 21 adotta una formula onnicomprensiva: “ogni altro mezzo di informazione”.
Il diritto alla libertà di comunicazione si fonda su due pilastri: il diritto all’informazione, ad informare e ad essere informati, cioè a comunicare con tutti gli altri (articolo 21); il diritto a comunicare liberamente e segretamente con una persona sola (articolo 15) escludendo i terzi dalla manifestazione del proprio pensiero. Due forme alternative di esercizio della libertà, a volte perfino complementari: si pensi alla riservatezza sulla fonte dell’informazione (il sogno di ogni giornalista di poter invocare una specie di segreto confessionale, al fine però di poter rendere pubblico il contenuto). Ma esiste anche una terza forma di libertà, quella di non comunicare del tutto: il diritto alla privacy, al riserbo, in alternativa (temporanea o meno, riferita a una sfera specifica o ad ambiti più vasti) al diritto di comunicare a tutti ciò che penso.
Fin qui tutto appare chiaro: si affiancano tre diritti, di volta in volta scelti e azionati dalla libertà di ciascuno. Senonché l’informazione, che in sé è un diritto compiuto, è anche strumentale ad altri obiettivi e diritti costituzionali. Per esempio è essenziale per il raggiungimento della pari dignità sociale, posta come condizione dell’eguaglianza dall’articolo 3. Attraverso l’informazione si può rispettare e promuovere la pari dignità sociale; ma si può anche azzerarla.
I diritti di ciascuno, infatti, possono coesistere con quelli degli altri, ma possono anche contrapporsi, soprattutto quando – oggettivamente o soggettivamente – vengano ecceduti i limiti già ricordati. La persona nei confronti della quale sia stato esercitato il diritto di informare può soffrire un pregiudizio al proprio onore, al proprio decoro, alla propria identità, talvolta ingiusto, sempre difficilmente riparabile. È fondamentale, allora, tutelare anche il diritto dei cittadini ad essere informati correttamente, in modo completo.
La libertà di informazione è sovraordinata rispetto ad altre libertà, perché pensare, ragionare, conoscere ed esporre la propria conoscenza è molto vicino alla libertà personale. È inoltre strumentale all’esercizio di molte altre libertà: politica, sindacale, religiosa, professionale. Infine, è architrave del sistema pluralista e democratico, perché l’opinione pubblica svolge un ruolo fondamentale nel controllo dell’esercizio dei poteri pubblici e nel dare concretezza alla sovranità popolare. Nella Dichiarazione universale e nella Convenzione europea dei diritti dell’Uomo il diritto ad informare è posto come premessa del diritto ad essere informati. Nel 1993 lo ha riconosciuto anche la Corte costituzionale.
Dal diritto all’informazione discende il riconoscimento del pluralismo delle fonti; un’informazione che abbia una fonte sola o fonti controllate dall’alto non sarebbe tale. Il pluralismo è la condizione (ma non la garanzia) per l’obiettività, l’imparzialità e la completezza dell’informazione. Il tema del pluralismo aprirebbe molti altri percorsi, sia quelli compiuti negli scorsi decenni sull’emittenza radiotelevisiva, sia quelli attuali e del prossimo futuro, nella rete e nel cyberspazio, con le grandi opportunità e le terribili incertezze, i pericoli, le manipolazioni e gli abusi (dei gestori come degli utilizzatori) nel rispetto delle persone e nella tutela dei diritti civili, politici e sociali. Non ne parlerò, ma vorrei con voi ricordare la saggezza di Stefano Rodotà. Non lo rimpiangeremo mai abbastanza. Partiva dall’Habeas corpus, che abbiamo ereditato dalla Magna Charta, per dire che il diritto alla disponibilità del mio corpo vale anche per il corpo elettronico: l’Habeas data.
Vorrei concludere queste considerazioni con un richiamo ad alcune vicende al tempo della nascita dell’Ordine, che altri qui presenti conoscono molto meglio di me. Esse testimoniano quale cantiere incessante e tuttora aperto sia stata la costruzione di una piattaforma – come diremmo oggi – a tutela della libertà di informazione, anche attraverso l’attribuzione di uno status di indipendenza ai giornalisti e dell’autogoverno alla categoria, incluso il controllo deontologico e disciplinare a tutela dei lettori e della dignità della professione. Di Albo, e quindi di Ordine, si parlava già nell’Assemblea costituente, ma non mancavano autorevoli componenti (per tutti, Luigi Einaudi) contrari alla previsione di un ordine, considerato un “recinto professionale” incompatibile – almeno in una visione strettamente liberale – con il diritto fondamentale riconosciuto a tutti dall’articolo 21. Per questo l’istituzione dell’Ordine e la confluenza in esso degli Albi preesistenti (tal quali: l’epurazione si era fermata dopo le prime battute) fu stralciata dalla legge sulla stampa del 1948, in attesa di tempi migliori. Fu un emendamento di Andreotti, sottosegretario alla Presidenza con delega all’editoria, a mantenere il collegamento con qualcosa che non c’era ancora, ma avrebbe potuto – anzi, ci sarebbe stata – in futuro: tra i documenti da presentare nelle cancellerie dei tribunali per registrare le nuove (e anche vecchie) testate, occorreva un documento del direttore responsabile, «da cui risulti l’iscrizione nell’albo dei giornalisti, nei casi in cui questa sia richiesta dalle leggi sull’ordinamento professionale». Una sorta di paradosso.
E fu un altro democristiano-giornalista, dieci anni dopo, a sbloccare la nascita dell’Ordine. Guido Gonella, ministro della Giustizia, propose nel 1958 il disegno di legge approvato a fine legislatura, nel 1963; ne divenne il primo presidente, dal 1965 a fine 1971 (e tale rimase, nonostante i sei mesi da guardasigilli nel governo “balneare” Leone del 1968) quando si dimise per tornare a fare il ministro della Giustizia nel primo governo Andreotti. Sul versante associativo e sindacale cresceva la componente di sinistra che contestava all’Ordine lo scarso coraggio nella difesa della libertà di stampa dagli attacchi dei gruppi economici più potenti e dall’ossequio alle versioni ufficiali sui disordini nelle manifestazioni di piazza post ’68 (in particolare dopo la morte dell’agente Annarumma nel novembre 1969) e sulla strage di Piazza Fontana del dicembre 1969. Gonella fu invitato a dimettersi, ma non lo fece fino a quando la prospettiva di tornare al governo rappresentò una buona occasione per farlo spontaneamente. Eppure sbaglierebbe chi leggesse quella vicenda come una sorta di commissariamento alla nascita da parte della politica, attraverso il partito allora egemone. Guido Gonella era uomo libero e giornalista fin dagli anni ’30, e nei famosi Acta Diurna sull’Osservatore Romano veicolava in Italia informazioni e idee sulla situazione internazionale: uno dei pochi osservatori sottratti al regime fascista e alla deriva bellicista. Fino al suo arresto, breve ma intimidatorio, nel 1940. Dopo la guerra, degasperiano di stretta osservanza, lo precedette alla segreteria del partito, lo affiancò e gli sopravvisse nelle attività di governo. La recente biografia di Giorgio Campanini, “Guido Gonella. La passione della libertà”, ha ricevuto ampio spazio anche sul sito dell’Ordine.
Insomma, nonostante il cordone ombelicale che lega il giornalismo e i giornalisti alla politica e ai partiti, forse mai del tutto tagliato (anche per l’importanza avuta per alcuni decenni dalla stampa di partito e per la presenza di molti autorevoli giornalisti-parlamentari), l’Ordine dei giornalisti ha favorito largamente, non senza contrasti e contrapposizioni interne alla categoria, la libertà di stampa, la dignità della professione, il diritto dei cittadini all’informazione. Un prezioso e indispensabile ruolo istituzionale, a volte competitivo, sempre complementare, solo in qualche occasione contrapposto a quello proprio del sindacato e delle associazioni. Ho già detto che per l’80° mi collegherò da remoto; ma per il 70° spero proprio di essere invitato.
*Relazione per il convegno: “Il giornalismo alla sfida del futuro”, in occasione del 60 anniversario dell’Ordine dei Giornalisti, Roma 3 febbraio 2023
**Presidente emerito della Corte Costituzionale, già ministro della Giustizia
di Gualtiero Donati
Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, “situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia”. A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano.
Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. È quello che prescrive la legge; viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: “Detenzione illegale di arma”. I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, è da credere che sappiano quello che dicono e fanno.
Cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: “Non luogo a procedere”. Ma come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa “non luogo a procedere”? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Semplice: perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma; perché la pistola che si diceva “fabbricata prima del 1890”, in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: “Non è un’arma, è un giocattolo”. Niente da fare. “Detenzione di arma illegale”. Bastava guardarla, quell’“arma illegale”: “Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500”. Per i carabinieri era “un’arma illegale”.
I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. In paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. “Si può?”. “Prego, accomodatevi”. Lì, in bella vista “l’arma illegale”. Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane, i mesi; e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: “All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella”.
di Domenico Forgione *
Segnalo il caso del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Il 25 febbraio 2020, la maxi retata dell’operazione “Eyphèmos” privò della libertà – tra gli altri – il sindaco Domenico Creazzo, appena eletto consigliere regionale in quota Fratelli d’Italia, il vicesindaco Cosimo Idà, il presidente del consiglio comunale Angelo Alati, il sottoscritto (consigliere di minoranza) e il responsabile dell’ufficio tecnico Domenico Luppino.
Le considerazioni sui provvedimenti di scioglimento dei comuni per infiltrazioni o condizionamenti mafiosi, espresse nella sua lettera a Il Dubbio dall’ex vice-sindaca di Rende Marta Petrusewicz, hanno aperto un interessante dibattito, al quale l’avvocato Pasquale Simari ha offerto il contributo dell’esperto: “La vicenda di Rende non si differenzia da quella della maggior parte dei Comuni sciolti per mafia”. Parole forti, suffragate da fatti che purtroppo godono di scarsa visibilità mediatica: le sentenze dei processi che, a distanza di anni dai titoloni dei giornali, ridimensionano o addirittura smentiscono le ordinanze di custodia cautelare. Sarebbe pertanto ora di pensare ad un albo dei comuni sciolti per mafia ingiustamente, da pubblicare (per dirla con Sciascia) “a futura memoria”.
Con questo spirito, mi permetto di segnalare il caso del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Il 25 febbraio 2020, la maxi retata dell’operazione “Eyphèmos” privò della libertà, tra gli altri, il sindaco Domenico Creazzo, appena eletto consigliere regionale in quota Fratelli d’Italia, il vicesindaco Cosimo Idà, il presidente del consiglio comunale Angelo Alati, il sottoscritto (consigliere di minoranza) e il responsabile dell’ufficio tecnico Domenico Luppino.
La presenza di cinque indagati “infiltrati” nel Comune determinò la sospensione e poi lo scioglimento del Consiglio comunale (14 agosto 2020): “All’esito di approfonditi accertamenti”, si legge nel decreto, “sono emerse forme di ingerenza della criminalità organizzata che hanno esposto l’ente locale a pressanti condizionamenti, compromettendo il buon andamento e l’imparzialità dell’attività comunale”. Al termine dei diciotto mesi previsti dalla legge, secondo prassi consolidata, seguì la proroga di ulteriori sei mesi, poiché non risultava ancora “esaurita l’azione di recupero e risanamento” dell’ente.
Lo scioglimento dei Comuni si fonda sulla relazione del prefetto al ministero dell’Interno: nella sostanza, la condivisione dei contenuti dell’ordinanza di custodia cautelare, a sua volta una sorta di copia-incolla degli “esiti dell’attività di indagine” e delle “notizie di reato” trasmessi dagli investigatori al pubblico ministero. Tre anni dopo gli arresti, la sentenza di primo grado (17 febbraio 2023) ha smentito l’esistenza di un condizionamento dell’amministrazione comunale, poiché all’archiviazione del sottoscritto si è aggiunta l’assoluzione degli altri quattro indagati.
Per il sindaco di Sant’Eufemia Creazzo, l’accusa era di scambio elettorale politico- mafioso: a “cercare la ‘ndrangheta è la politica e non il contrario”, aveva sentenziato la relazione del ministro Lamorgese. Quasi un anno e mezzo di arresti domiciliari e un provvedimento di obbligo di dimora, prima della sentenza di assoluzione perché “il fatto non sussiste”. Il vicesindaco Cosimo Idà veniva presentato come “capo, promotore ed organizzatore di una fazione mafiosa all’interno del locale di ‘ndrangheta di Santa Eufemia”. Nove mesi di carcerazione preventiva, la scarcerazione per accertato scambio di persona e l’assoluzione perché “il fatto non sussiste”.
Scambio di persona anche per Angelo Alati, presidente del consiglio comunale accusato di rivestire la carica di “mastro di giornata” e assolto perché “il fatto non sussiste”, l’inconsistenza indiziaria era già emersa nell’udienza del Tribunale del riesame che ne aveva ordinato la scarcerazione, un mese e mezzo dopo l’arresto. Terzo scambio di persona riguardò chi scrive, accusato “di monitorare gli appalti assegnati dal Comune di Santa Eufemia per consentire alle aziende del locale di ‘ndrangheta di insinuarsi nei lavori”, “da spia” interna al Comune, a disposizione della cosca per compiere atti minatori nei cantieri, di disporre di “agganci” che gli consentivano di “conoscere preventivamente gli esiti delle indagini che provvedeva a veicolare tra i sodali per eludere l’attività investigativa o la cattura”.
Sette mesi di carcerazione preventiva, scarcerazione e proscioglimento al termine dell’udienza preliminare. Il responsabile dell’ufficio tecnico Domenico Luppino era accusato di prendere parte a riunioni di ‘ndrangheta e di operare “in favore della cosca affinché gli appalti fossero assegnati direttamente o indirettamente a una ditta gradita all’organizzazione mafiosa locale”. Assolto perché “il fatto non sussiste”, dopo ben tre anni di carcere.
Il filone politico dell’inchiesta si è rivelato un flop totale. Del “solido complesso probatorio” restano parole che sono sale su ferite ancora aperte: nel caso del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte si va comunque ben oltre i “collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso” o le “forme di condizionamento” degli amministratori. L’operazione “Eyphèmos” dimostra che diversi omissis piuttosto che “collegati” o “condizionati dalla ‘ndrangheta” sono organici alla stessa. Un salto di qualità rispetto alla fattispecie di cui all’art. 143 T.U.E.L. del tutto evidente”. Ma di evidente, purtroppo, c’è soltanto lo scarto tragico tra ipotesi e realtà. Quando, nove mesi fa, si è votato per ridare alla comunità eufemiese un’amministrazione comunale, soltanto due tra i trentanove candidati nella precedente elezione si sono ripresentati. In un piccolo paese esistono dinamiche familiari e sociali che rendono arduo l’impegno politico sulla base delle attuali disposizioni di legge. Molti preferiscono defilarsi: per paura, per delusione, per senso di responsabilità.
Prevenzione e pregiudizio sono spesso le facce della stessa medaglia e concorrono alla compressione della democrazia, laddove impediscono l’affermazione della volontà popolare. Per questo, occorre denunciare la criminalizzazione subita da vaste aree del Paese. Affinché gli studenti di domani avvertano lo stesso moto di indignazione oggi suscitato dagli studi sul volto truce del potere nella storia d’Italia: la brutalità della legge “Pica”, la revisione arbitraria delle liste elettorali in epoca crispina, i mazzieri di Giolitti, lo scioglimento dei Comuni nel passaggio dallo Stato liberale al regime fascista. Ogni volta che, in nome dell’interesse superiore del mantenimento dell’ordine pubblico, una “guerra santa” ha ferito i principi democratici, sospeso le garanzie costituzionali e causato un numero spropositato di “vittime collaterali”. Oggi come ieri questo è stato. Ma questo è Stato?
(*Giornalista, storico e scrittore)
colloquio con Maria Antonietta Farina Coscioni
“Come valuta decisione di Michela Murgia di sposarsi per garantirsi dei diritti a vicenda con il marito?
“Murgia ha il grande merito di aver sollevato una questione che per indifferenza, ipocrisia o non saprei come altro definire, la maggioranza del ceto politico preferisce ignorare. Ancora una volta la volontà di persone adulte, consapevoli e che non comporta alcun danno al prossimo, viene disattesa. Michela come chiunque dovrebbe avere il diritto di poter disporre di sé e della sua vita come meglio ritiene. Compito della politica dovrebbe essere quello di ampliare il ventaglio delle facoltà e delle possibilità, invece di incrementare divieti e impedimenti”.
Lo ha fatto controvoglia perché in realtà lei crede nella famiglia queer. Che cosa sarebbe necessario per aiutare le persone che credono nella famiglia queer?
“Non entro nel merito di quello che Michela Murgia crede, famiglia intesa in senso tradizionale o queer o altro. Una scelta responsabile la sua. Una libertà arrivata a riconoscere che essa vive pienamente nella responsabilità. Da chi, come lei, è una fill’e anima, i legami affettivi, si vorrebbero basati anche su norme non scritte, non codificate. Fillus de anima infatti sono i figli dell’anima: è così che chiamano i figli generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Il genitore biologico affidava il prendersi cura e le sorti di un bambino a un’altra persona, una forma di solidarietà “familiare” precedente la nascita degli istituti giuridici quali l’affido e l’adozione. Sono questioni personali, è giusto che ognuno valuti e possa agire come meglio crede. Michela si è sposata con Lorenzo Terenzi con rito civile “in articulo mortis”: significa in “punto di morte”, vale a dire un’azione compiuta da persona quando è in pericolo di vita, detta da persona poco prima di morire. Si spiega così la scelta “controvoglia”, cioè l’unico modo per garantirsi diritti a vicenda. Mi pare evidente che sia ipocrita e mortificante dover ricorrere a questo tipo di scappatoie. È avvilente che nel 2023 in un Paese che vuole essere civile non si riconosca il diritto alle persone di poter disporre di come “organizzare” la propria esistenza”.
La legge sul fine vita è impantanata al Senato (così mi pare Maria Antonietta correggimi se sbaglio please), in che modo la legge potrebbe aiutare chi non vuole stipulare un contratto matrimoniale?
“Si tratta semplicemente di concedere alla persona il diritto di vedersi riconosciuta la propria volontà, che naturalmente deve essere espressa in “scienza e coscienza” e, aggiungo, conoscenza. Una battaglia antica. Con Luca Coscioni, mio marito, affetto da sclerosi laterale amiotrofica abbiamo reso politica la sua condizione di malato; si batté fino allo stremo per la libertà di ricerca scientifica, per l’autodeterminazione della persona, per la possibilità di determinare il proprio destino, la dignità della vita e della morire. Pensate: Luca nasceva proprio il 16 luglio del 1967, avrebbe compiuto 57 anni… Fosse tra noi sicuramente sarebbe in prima fila, come è sempre stato con il Partito Radicale perché situazioni come quella denunciata da Michela Murgia siano superate, risolte senza dover ricorrere a marchingegni da Azzeccagarbugli”.
Michela ha detto che si sarebbe anche potuta sposare con una donna, questo avrebbe complicato le cose?
“Certo che avrebbe complicato le cose. L’Italia è un Paese molto poco liberale e molto clericale. Un Paese, diceva Gaetano Salvemini dove tanti vogliono punire quello che ritengono essere peccato come se fosse un reato, e perdonano il reato come se fosse un peccato. Voglio dire che la strada per la conquista piena dei diritti di tutti e di ciascuno è ancora lunga e faticosa”.
(a cura di Grazia Longo, pubblicato su “La Stampa)
di Paolo Armaroli
Lo Statuto albertino prevedeva senatori di diritto ea vita e senatori a vita. Così recitava l’art.34: ‘I Principi della Famiglia Reale fanno di pieno diritto parte del Senato. Essi seggono immediatamente dopo il Presidente. Entrano in Senato a 21 anno, ed hanno voto a 25’. Mentre il precedente art.33 stabiliva che ‘Il Senato è composto di membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l’età di 40 anni compiuti e scelti nelle categorie seguenti…’. Ventuno, per la precisione. La nostra Costituzione repubblicana, mutandis mutandis, contempla le stesse cose. Difatti prevede all’art. 59 anch’essa senatori di diritto e a vita e senatori a vita.
Il costituzionalista Paolo Armaroli è autore di “I senatori a vita visti da vicino” (La Vela editore). È un libro dedicato a Giuliano Amato, Sabino Cassese ed Enzo Cheli, definiti i tre moschettieri del diritto costituzionale: unico nel suo genere, spazia dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana, dalle otto nomine di Luigi Einaudi all’unica nomina di Sergio Mattarella, passando per le anomalie di Sandro Pertini e Francesco Cossiga. Armaroli distingue i senatori a vita in quattro categorie: i senatori in fin di vita, vale a dire i ‘senatori a morte’ di Trilussa; questi fantasmi, cioè gli assenteisti più o meno cronici; i benemeriti del Senato; quegli abusivi dei professionisti della politica, già deputati o senatori al momento della nomina, perché i senatori a vita dovrebbero essere espressione per lo più della società civile. Di ognuno dei 38 nominati Armaroli traccia un illuminante ritratto e dà conto per filo e per segno dell’attività parlamentare. Contestati a manca e a dritta, i senatori a vita hanno più che mai una loro ragione d’essere. Perché le competenze, l’esperienza dei benemeriti della Patria rappresentano per il Senato elettivo un valore aggiunto. A una condizione, però: che esercitino sempre le loro funzioni con disciplina ed onore. Come prescrive la Carta costituzionale. Dal libro del professor Armaroli pubblichiamo la nota conclusiva.
Alla fine del viaggio attraverso le luci e le ombre dei senatori a vita, non si può sfuggire a un dilemma: sì o no ai senatori a vita di nomina presidenziale? Dico subito che la mia risposta è un sì, ma… Un sì condizionato (…)
È vero che nel nostro Belpaese la responsabilità sono immancabilmente orfane. Com’è vero – i diritti d’autore, manco a dirlo, spettano ad Andreotti – che gli italiani in segno di contrizione battono il pugno sul petto altrui. Ma qui le responsabilità hanno nomi e cognomi. Occorre prendere atto che dopo la presidenza di Einaudi si è registrato un certo rilassamento nelle nomine e dei nominati. Troppo spesso i presidenti della Repubblica si sono accontentati di tirar fuori dal loro cilindro nomi più o meno prestigiosi senza curarsi se costoro intendessero prendere sul serio la carica. Parecchi senatori a vita, paghi della nomina, hanno continuato a fare il proprio mestiere dedicando nella migliore delle ipotesi briciole del loro prezioso tempo alla cosa pubblica. E i presidenti del Senato hanno ritenuto opportuno fare i pesci in barile per timore di suscitare uno scandalo. Venendo meno, pure loro, a un preciso dovere.
Ciò nondimeno, confermo il mio sì, ma… A patto che i presidenti della Repubblica prendano esempio da Luigi Einaudi, che sfoderando quei nomi prestigiosi voleva che dessero un serio contributo ai lavori del Senato. A patto che, alla fine del nostro viaggio, si torni al capolinea. Ai lavori preparatori della Costituzione, quando si pensò che la nostra democrazia traesse vantaggio da un numero limitato di senatori a vita che fossero la coscienza critica della Nazione, specialisti, competenti in una determinata disciplina, sicuro. Ma anche umanisti, filosofi, intellettuali, per l’appunto.
Certo, occorre trovarli con il lanternino. Non è facile trovarli. E se li si trova, c’è poi il pro e il contro. L’ideale sarebbero personalità del calibro di un Giovanni Sartori o di un Norberto Bobbio. Sennonché l’uno, imbevuto di spiritaccio fiorentino, a palazzo Madama sarebbe stato un’iradiddio. Alla scuola di Gino Bartali, avrebbe tuonato che è tutto sbagliato e tutto da rifare. Come ebbe a dire spesso e volentieri ai tempi della commissione bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da Massimo D’Alema ogni qual volta i suoi consigli non erano seguiti a puntino. Tant’è che una volta D’Alema, uno che le cose non le manda a dire, esalò: “Professor Sartori, abbia pietà di noi…”.
Le cose non vanno meglio se si passa da Sartori a Bobbio. Se quelle sullo scienziato della politica fiorentino non sono che supposizioni perché non potremo mai sapere come si sarebbe comportato in Senato, ancorché tali supposizioni hanno il timbro della verisimiglianza, di Bobbio invece abbiamo la prova provata. Un filosofo e uno scienziato della politica del suo stampo – lo si vede atti parlamentari alla mano – non ha lasciato traccia.
di Gian Mario Gilio
Nel parco di piazza Taksim di Istanbul nel 2013, esattamente dieci anni fa, era nato un presidio colorato e partecipato con tante e tanti giovani, un appuntamento perenne e affollato; la sera si faticava a camminare tra le migliaia di persone radunatesi spontaneamente. Si condividevano le tende in cui dormire, il cibo, la birra il tè. Chi voleva poteva prendere in prestito un libro dalla biblioteca allestita per l’occasione o fare un giro al Museo della rivoluzione posto all’ingresso del parco. Non mancava il servizio di assistenza sanitaria autogestito.
Cosa aveva spinto migliaia di giovani a scendere in piazza? Innanzitutto, la paura che la laicità potesse cadere sotto i colpi degli integralisti religiosi che avevano espresso l’intento de re-islamizzare il paese introducendo norme restrittive. Molti musulmani praticanti però erano lontani dalla svolta autoritaria del presidente Recep Tayyp Erdogan. Una svolta che poi si è manifestata in modo evidente con gli atti di violenza usati per reprimere quelle proteste. Chiaro era allora il tentativo di accentrare (ulteriormente) il potere nelle proprie mani attuando anche una politica estera aggressiva. Oggi l’equilibrio geopolitico turco è molto diverso, e anche il ruolo di Erdogan (rieletto al suo terzo mandato) ha un peso internazionale.
La scintilla il 28 maggio: la protesta era contro la trasformazione del parco Gezi, adiacente alla piazza, in un centro commerciale con una nuova moschea e la ricostruzione di una caserma risalente ai tempi dell’impero ottomano. Per comprendere come si sia arrivati alla Turchia che oggi conosciamo, ci viene in aiuto il libro del giornalista Murat Cinar Undici storie di resistenza – Undici anni della Turchia (Ebs Press, 2022).
Cinar, nel volume, alterna i ricordi di quand’era bambino, poi ragazzo, intrecciandoli con le storie di undici persone (Serdar, Ömür, Bawer, Hayk, Ercan, Serdar, Ceren, Levent, Rosida, Aram, Baris) che hanno dovuto espatriare per poter continuare a vivere. “Dal 2010 a oggi numerose persone hanno dovuto lasciare la Turchia per motivi politici o perché non si sentivano più al sicuro: professori universitari, studenti, parlamentari, sindaci, avvocati, giudici, alti ufficiali dell’esercito, giornalisti, sindacalisti, attivisti del mondo dell’associazionismo e persino medici… così è nata e cresciuta una nuova diaspora in Europa. Nel libro racconto undici storie umane di grande determinazione, forza e convinzione. Undici storie di persone che dopo il loro approdo in Europa non si sono fermate ma hanno continuato a lavorare per creare un’alternativa al regime e al potere in Turchia. Undici storie di immigrazione, piene di difficoltà, ostacoli, discriminazioni, ma anche fatte di accoglienza, empatia e affetto”.
Un libro che non si chiude e che regala quattro pagine bianche tutte da scrivere, per indicare che tante storie sono ancora da scrivere anche dai lettori. L’ultimo capitolo, infatti, ricorda l’autore è “una non conclusione. Le undici storie, che ho deciso di raccontare, sono in realtà le storie di ognuno di noi: un padre severo, una madre illuminata, un fratello “diverso”, una città troppo piccola, un lavoro che non c’è, una storia d’amore che cambia la vita, l’incontro con degli ideali che possono farci rischiare tutto, una famiglia non biologica che ci accoglie, una nuova terra da esplorare, il desiderio di cambiare alcuni paradigmi e infine il desiderio di lottare sempre per il cambiamento”.
Lo sguardo di Cinar è infatti quello di chi vive la propria vita in modo militante, quello del giornalista che parte dalla verità sostanziale dei fatti per analizzarli, per raccontarne i retroscena e per prefigurarne possibili scenari. “Ho dedicato tre anni di lavoro e di ricerca a questo lavoro”, rileva infine Cinar. “È stata un’esperienza collettiva, vissuta talvolta anche in solitudine, un lavoro che ho intrapreso con grande entusiasmo e determinazione. Ho deciso di non terminare il libro con una conclusione, perché la lotta continua: ogni luogo è Taksim”.
di Cecilia Sala
Oggi una donna iraniana che non si copre la testa mentre passeggia per strada o è seduta al tavolo di un ristorante rischia da dieci giorni a due mesi di reclusione oppure una multa che va da un dollaro e diciotto centesimi a poco meno di dodici dollari. Ma il Majilis, il parlamento che dal 2020 è quasi un monocolore conservatore, sta lavorando a una legge su controlli molto invasivi e punizioni nuove per le ragazze che non rispettano l’obbligo di indossare il velo. Nell’ultima stesura la pena diventa dai cinque ai dieci anni di carcere per essere uscite di casa con i capelli al vento, e la multa alternativa diventa di 8.500 dollari – una cifra che nella Repubblica islamica non si può più permettere praticamente nessuna. Le nuove punizioni contro le donne ipotizzate finora sono inaudite anche per gli standard degli ayatollah e hanno un’opposizione inaspettata: quella dei pasdaran. I Guardiani della rivoluzione non sono diventati improvvisamente sensibili ai diritti delle ragazze, la loro posizione è dettata dalla consapevolezza che certi processi di emancipazione sono ormai molto avanzati e irreversibili, scegliere di non combatterli è pragmatismo, istinto di autoconservazione e opportunismo.
C’è un conflitto d’interesse tra l’apparato militare e il clero al potere, con il secondo che è per ovvi motivi più affezionato all’obbligo del velo e crede che quella regola sociale sia per il proprio regime una specie di muro di Berlino: se casca, casca anche tutto il resto. I pasdaran la vedono diversamente perché la sicurezza interna è uno dei pochi successi rimasti da vantare alla Repubblica islamica, e vogliono conservarla: “Ma finché i religiosi conservatori insistono nel pretendere che venga fatta rispettare una legge che la maggior parte degli iraniani considera insopportabile, l’Iran rimarrà in bilico, sempre a un passo da una crisi interna. È già successo alla fine del 2022 con le proteste cominciate dopo la morte di Mahsa Amini mentre era in custodia, e può ripetersi in qualsiasi momento”, dice al Foglio l’antropologo iraniano Sajjad Safaei, che risponde al telefono da Berlino ma ha vissuto a Teheran e ha ancora lì la sua famiglia. Nel disastro economico che colpisce tutti gli iraniani, anche quelli che fino a pochi anni fa si consideravano molto benestanti, i pasdaran dicono all’opinione pubblica: però guardate la Siria, l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, il Libano o lo Yemen, i nostri vicini sono divisi internamente, infestati dai terroristi, dalle guerre e da milizie armate incontrollabili; qui invece si vive sicuri e il monopolio della forza è saldamente nella mani dello stato, vi stiamo garantendo almeno questo: di tenere il caos lontano dalle vostre case. Questa promessa di stabilità è quella a cui i pasdaran non possono venir meno, ne va del loro potere che è cresciuto moltissimo negli anni – proprio a discapito del clero con cui oggi vanno poco d’accordo –, e della loro scalata interna alle istituzioni della Repubblica islamica.
I Guardiani della rivoluzione erano il sei per cento degli eletti in parlamento nel 1980, un anno dopo la Rivoluzione islamica, e sono il ventisei per cento oggi; il clero protagonista di quella rivoluzione rappresentava il cinquantadue per cento degli eletti nel 1980 e soltanto l’undici per cento, meno della metà dei pasdaran, oggi. La stessa tendenza si vede in molte altre istituzioni, dalla composizione del Consiglio di sicurezza agli organigrammi dei ministeri. “Se guardi gli articoli e le dichiarazioni sui media vicini ai pasdaran, sulla questione del velo i toni sono molto diversi dai toni con cui tratta lo stesso argomento l’establishment religioso. Javan, il quotidiano collegato ai Guardiani, ha pubblicato un editoriale allarmato in cui critica le decisioni prese per reprimere chi non indossa l’hijab e chiede di non ‘mettere i cittadini gli uni contro gli altri, portandoli al conflitto e così mettendo a rischio la pace nel paese’. In un altro caso il direttore di Javan ha scritto che gli ayatollah della preghiera del venerdì – che in teoria sono intoccabili perché nominati personalmente dalla Guida suprema Ali Khamenei – ‘hanno perso il contatto con la realtà e non conoscono più la società iraniana, che è andata avanti’. E ha chiesto a tutti loro di smetterla con i commenti incendiari contro le donne che non indossano il velo”. La nuova legge, l’ultimo passo della guerra alle ragazze, può esacerbare questo scontro interno? “C’è una grande differenza tra annunciare una legge e implementarla, farla rispettare e comminare le pene. Ma se davvero lo faranno, se l’annuncio non è soltanto propaganda per l’elettorato ultraconservatore, allora potremmo assistere a una resa dei conti tra la teocrazia e il suo apparato militare, che non rimane a guardare – non certo per attenzione ai diritti umani ma per interesse – mentre si prepara una nuova crisi di sicurezza in Iran”.
(da Il Foglio)
di Ted Baxter
Luglio 1937: i nazisti costruiscono, sulla collina dell’Ettersberg, otto chilometri da Weimar nella Germania Occidentale il lager di Buchenwald. Nome romantico: significa “Bosco di faggi”.
A Buchenwald i nazisti, nel corso degli anni, internano 239mila persone: ebrei, zingari, omosessuali, dissidenti politici, prigionieri di guerra, disabili, malati mentali di una trentina di diverse nazionalità. Non si sa bene quanti ne uccidono, in quello che diventa uno dei luoghi più inquietanti e spaventosi della follia nazista: 43mila vittime, altre fonti parlano di oltre 56mila; 11mila solo gli ebrei…
L’11 aprile 1945 l’89ª divisione fanteria della terza armata USA comandata dal generale George S. Patton raggiunge il “campo”. Il 7 maggio 1945 il settimanale Life pubblica un servizio di sei pagine intitolato Atrocities – Capture of the German concentration camps pile up evidences of barbarism that reaches the low point of human degradation: sei pagine di fotografie di quattro fotografi nei campi di Belsen, Buchenwald, Gardelegen e Nordhausen.
Margaret Bourke-White è la prima a fotografare l’orrore di Buchenwald. Vede “pile di corpi senza vita, pezzi di pelle tatuata usati per i paralumi, gli scheletri nella fornace; gli scheletri umani nella fornace, gli scheletri viventi che di lì a poco sarebbero morti per aver atteso troppo a lungo la liberazione. Buchenwald era qualcosa di inconcepibile per la mente umana”.
Racconterà che la macchina fotografica si trasforma in uno scudo protettivo, una barriera tra lei e quelle atrocità. “Per lavorare ho dovuto coprire la mia anima con un velo. Quando fotografavo i campi di sterminio, quel velo protettivo era così saldo che a malapena comprendevo cosa avevo fotografato. Tutto si rivelava in camera oscura, al momento di stampare le mie immagini. E allora era come se vedessi quegli orrori per la prima volta”. Lavora in uno stato di “stupore forzato”; l’imperativo è fotografare “per il dovere morale di raccontare… descrivere spaccati di realtà fino ad allora lontani”.
Nata a New York il 14 giugno 1904, ha studiato biologia, presto abbandonata: è ancora studentessa del college, quando frequenta corsi di fotografia. La carriera professionale inizia nel 1927, scatta fotografie industriali. Ha già idee molto chiare. È convinta che “l’industria è il vero luogo dell’arte…i ponti, le navi, le officine hanno una bellezza inconscia e riflettono lo spirito del momento”. Nelle sue immagini evidente l’influenza della pittura cubista: sovrapposizione dei piani, riduzioni bidimensionali, geometrie astratte. Ci sono poi le “lezioni” del cinema espressionista russo e tedesco, le suggestioni degli effetti di luce. Fotografie “industriali” che realizza in un momento favorevole: gli Stati Uniti “devono” credere e sognare nella tecnologia, antidoto per combattere e sconfiggere la drammatica incombente Grande Depressione.
Henry Luce, caporedattore di Time, la invita a collaborare a una nuova rivista illustrata: Fortune. Sono gli anni dell’importante campagna fotografica della Farm Security Administration. Bourke-White e lo scrittore Erskine Caldwell suo futuro marito, intraprendono un viaggio di ricerca e documentazione sociale nel sud; ne ricavano il libro You Have Seen Their Faces. Le fotografie sono già caratterizzate per contenuti e stile. Il primo numero di Life (23 novembre 1936), utilizza una sua foto per la copertina: i lavori finiti della diga di Fort Peck, nel Montana. Fa il giro del mondo, un punto di svolta della professione del fotografo nell’universo femminile.
Un primato dietro l’altro: la prima ad arrampicarsi sulle colate di ferro delle fonderie e affronta il calore delle fornaci; a sperimentare la fotografia aerea; a documentare la Russia del piano quinquennale; prima fotoreporter di guerra accreditata dall’esercito americano. Per lei si disegna appositamente un’uniforme, la sigla W.C. (“War Corrispondent”) sulle mostrine.
La notte del 26 luglio 1941, quando i nazisti invadono la Russia si trova all’ambasciata americana a Mosca, Sale sul tetto, inizia a scattare. La sagoma del Cremlino si staglia contro la luce dei bengala e della contraerea. È l’unica fotografa straniera testimone dell’evento. Attraverso la valigia diplomatica invia immediatamente le sue istantanee negli Stati Uniti d’America. Grazie all’intervento del presidente Roosevelt scatta il primo ritratto non ufficiale di Stalin: per molti anni l’unico con circolazione autorizzata al di fuori dell’URSS. Sviluppa le foto nella vasca da bagno, gli scatti diventano un prolungamento del suo sguardo. Racconta: “Ogni allarme aereo mi coglieva mentre sviluppavo tre o quattro pellicole. In genere, mi nascondevo sotto il letto con il cronometro in mano aspettando che le guardie finissero l’ispezione per tornare alla vasca prima che la pellicola potesse rovinarsi”.
Nel 1943 è la prima donna che “accompagna” i caccia americani che bombardano, fotografa i più violenti attacchi all’esercito tedesco. Immortala gli assedi della linea gotica, nelle zone di Loiano e Livergnano nell’Appennino Emiliano. Nel 1952 capisce per prima i tragici risvolti della guerra di Corea. Realizza quella che considera la sua fotografia migliore: il ritorno a casa di un dissidente sud coreano e la madre che gli corre incontro per abbracciarlo: “Il connubio perfetto di umanità e di tempismo del fotografo, in grado di trovarsi nel luogo giusto al momento giusto”.
Pioniera dell’informazione e dell’immagine esplora ogni aspetto della fotografia: dalle prime, dedicate al mondo dell’industria e ai progetti corporate, fino ai grandi reportage per Fortune e Life; le cronache visive della guerra mondiale, i celebri ritratti di Stalin e Gandhi (poco prima che venisse assassinato); il Sud Africa dell’apartheid, l’America dei conflitti razziali: un percorso esistenziale che rivela capacità visionaria e narrativa, ne ricava “storie” fotografiche dense e coinvolgenti. Teorizza: “La fotografia non dovrebbe essere un campo di contesa fra uomini e donne”; e tuttavia confessa: “In quanto donna è forse più difficile ottenere la confidenza della gente e forse talvolta gioca un ruolo negativo una certa forma di gelosia; ma quando raggiungi un certo livello di professionalità non è più una questione di essere uomo o donna”…
Nel 1953 le viene diagnosticato il morbo di Parkinson. Si sottopone ad un delicato intervento chirurgico, è costretta a ridurre drasticamente l’attività di fotografa, si dedica alla scrittura. L’autobiografia Portrait of Myself (Il mio ritratto), è un bestseller. Dopo una caduta nella sua casa di Darien nel Connecticut, muore il 27 agosto 1971. Ha solo 67 anni.
di Michele Minorita
Mille i festival e le rassegne del cinema che ormai ogni città o associazione organizza, e ancora a nessuno che abbia pensato di dedicarne uno al tema del carcere. E dire che di film ce ne sono, alcuni molto belli e intensi, fanno parte della storia del cinema. Per dirne di qualcuno: Le ali della libertà di FranK Darabont con Tim Robbins e Morgan Freeman; sempre di Darabont Il miglio verde, con Tom Hanks Michael Clarke Duncan. Hunger, prima regia di Steve McQueen, con Michael Fassbender; l’epico Papillon, di Franklin Schaffner, con il McQueen attore e Dustin Hoffman. In questa ipotetica rassegna non possono mancare Fuga di mezzanotte, di Alan Parker; Nel nome del padre, di Jim Sheridan con superbi Daniel Day-Lewis e Emma Thompson; Il profeta di Jaques Audiard; Condannato a morte di Tim Robbins e un’eccellente Susan Sarandon e Sean Penn. Ancora: Cella 211, di Daniel Monzòn; American History X, di Tony Kaye; Leonera, di Pablo Trapero. Non può mancare un classico come L’uomo di Alcatraz, di John Frankenheimer con Burt Lancaster e Karl Malden; l’amaro Brubaker, di Stuart Rosenberg con Robert Redford; l’inquietante The Experiment, di Paul Scheuring; il brutale Scum, di Alan Clarke: denuncia la brutalità dei riformatori britannici durante gli anni ’70; per la violenza rappresentata, viene trasmesso in televisione solo nel 1983, quando già si stanno facendo miglioramenti al sistema carcerario. Di carcere (e non solo) ne Il bacio della donna ragno, di Hector Babenco, con William Hurt. Per gli italiani, ça va sans dire, Detenuto in attesa di giudizio, di Nanni Loi con Alberto Sordi; e più vicini a noi Sulla mia pelle di Alessio Cremonini sul caso di Stefano Cucchi; Aria ferma, di Leonardo Di Costanzo con Silvio Orlando; Grazie ragazzi di Riccardo Milani, con Antonio Albanese.
In questa rassegna ben figura Prigione 77, di Alberto Rodriguez, ispirato alla vera evasione di 45 uomini dal carcere attraverso le fogne, racconta di un momento cruciale della storia recente di Spagna. Sotto i nostri occhi scorrono le immagini delle rivolte dei detenuti del carcere di Barcellona, nei giorni in cui il dittatore Franco è moribondo: le gratuite crudeltà dei poliziotti infiltrati tra le guardie. Tetri corridoi, luride celle, senza letti e servizi igienici: Manuel, un bravo ragazzo prossimo al matrimonio, lo arrestano con l’accusa di aver sottratto una somma di denaro, lui nega, non serve, viene condannato a vent’anni. Lo aiutano a sopravvivere a quell’inferno due compagni di cella: El Negro, e Pino, l’intellettuale che “chiude” la porta a ogni emozione “per non impazzire”. Manuel, nonostante bastonate e umiliazioni, diventa un militante dell’Associazione per i diritti dei detenuti contro i soprusi che vengono consumati tra quelle mura, dove si scontano reati di opinione, politici o legati al proprio orientamento sessuale. Tutti stritolati da un perverso e terrificante sistema giudiziario. Manuel, con complici improvvisati lotta per i diritti di tutti, una dura lotta senza esclusione di colpi, e vittime da entrambe le parti. Una ribellione che comprende anche un tentativo di fuga con scavo nelle fogne.
La Spagna del franchismo morente e della democrazia ancora stentata; ma come si fa a non pensare all’Italia, ai drammatici e vergognosi fatti che si sono consumati all’Istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere?