Proposta Radicale 9 2023
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Con l’Ucraina, per una comunità delle democrazie

di Joe Biden

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Iran, minaccia  che incombe

di Cecilia Sala

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Vi scongiuro, non cedete alla di-speranza

di Marco Pannella

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Viaggio nel mondo sconosciuto delle Rems

di Maria Antonietta Farina Coscioni

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Carceri minorili il nostro fallimento

di Francesca Fagnani

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Il radicale Vasco Rossi questa è la storia

di Sergio Rovasio 

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Con l’Ucraina, per una comunità delle democrazie

Con l’Ucraina, per una comunità delle democrazie

di Joe Biden

Buona sera Polonia, uno dei nostri grandi alleati! Il presidente Duda, primo ministro, signor sindaco, tutti i presenti, i leader polacchi che sono venuti da tutto il paese, grazie per avermi accolto qui in Polonia. È passato quasi un anno da quando ho parlato qui al Castello Reale a Varsavia appena dopo che Vladimir Putin ha lanciato il terribile attacco in Ucraina, il più grande attacco in Europa in 75 anni. In un’Europa che ha costruito la pace e la stabilità per 75 anni, tutto questo è a rischio. Un anno fa il mondo si preparava alla caduta di Kyiv: beh, io sono appena stato a Kyiv e posso dirvi che Kyiv è ancora in piedi, e forte, è ancora orgogliosamente in piedi, e soprattutto, è ancora libera.

Quando la Russia ha deciso di invadere l’Ucraina l’intero mondo ha dovuto affrontare un enorme test: la Nato, l’America, il mondo intero, tutte le democrazie si trovano ad affrontare una grandissima prova. Come abbiamo risposto? Saremmo stati forti, saremmo stati deboli, cosa avrebbero fatto gli alleati, sarebbero stati uniti, sarebbero stati divisi? Un anno dopo conosciamo le risposte: siamo stati uniti, siamo stati forti, non abbiamo voltato lo sguardo altrove. Questo ha fatto il mondo. Avevamo anche delle questioni importanti da affrontare, ci saremmo impegnati a favore della sovranità della nazione, avremmo fronteggiato l’aggressione russa, avremmo sostenuto la democrazia, beh un anno dopo, ancora una volta, conosciamo le risposte. Avremmo fatto la cosa giusta, avremmo sostenuto la sovranità e avremmo difeso l’Ucraina dall’invasione? Abbiamo sostenuto la democrazia. Ho parlato con il presidente Zelensky a Kyiv e ho dichiarato ancora una volta che continueremo a sostenere tutti questi valori, indipendentemente da tutto.

Quando il presidente Putin ha ordinato ai propri carri armati di invadere l’Ucraina, credeva che ci saremmo arresi subito, ma si sbagliava. Gli ucraini, gli europei, gli americani, i popoli di tutto il mondo dall’Atlantico al Pacifico, sono stati forti, molto più forti di quanto aveva previsto. Ci sono le macerie dei russi ancora sul terreno. Voleva meno presenza della Nato e invece Finlandia e Svezia sono entrate a far parte della Nato. Credeva che la Nato si sarebbe divisa, che sarebbe crollata, e invece la Nato è più unita che mai. Credeva di poter usare l’energia come arma, e invece l’Europa è stata determinata ed è meno dipendente dei combustibili fossili russi. Pensava di essere forte mentre i leader democratici deboli, ma siamo paesi che rifiutano l’uso della forza e la paura. E ha incontrato un uomo che è stato forgiato dal ferro, dall’acciaio, dal fuoco: il presidente Zelensky. E si trova a fronteggiare uno scenario molto diverso da quello che aveva immaginato un anno fa: il mondo libero e democratico oggi è più forte che mai, e gli autocrati sono ancora più deboli. Perché è in questi momenti che si capisce per cosa si combatte, è in questi momenti che si diventa forti e questo fa la differenza, la gente della Polonia lo sa, voi lo sapete meglio di tutti, lo sapete bene, perché questa è la solidarietà

Combattere contro l’oppressione, parliamo del pugno di ferro del comunismo, la Polonia, Varsavia, hanno continuato a combattere e lo stesso vale per le persone che sono in Bielorussia, lo stesso vale per le persone in Moldavia. La determinazione di questa gente che vuole essere libera, indipendente, vuole far parte dell’Unione europea: io sono orgoglioso di essere al vostro fianco in questa lotta per la libertà. Dopo un anno, Putin non ha più dubbi sulla forza della nostra coalizione, ma ha ancora dubbi sulla nostra convinzione e volontà di sostenere l’Ucraina e sul fatto che la Nato rimarrà unita, ma deve capire che questo sostegno è incrollabile: la Nato non si stancherà mai.

Il presidente Putin vuole a tutti i costi questo territorio, ma fallirà e prevarrà l’amore degli ucraini per la propria terra. Noi, il mondo libero, il mondo democratico, difenderemo questi valori, ora e sempre. È proprio questo che è in gioco ora: la libertà. È questo il messaggio che ho rivolto ieri al popolo ucraino, quando il presidente Zelensky che era venuto a dicembre negli Stati Uniti, aveva detto, lo cito: “Questa lotta definirà il mondo, de finirà il modo di vivere dei nostri figli, dei nostri nipoti e dei loro figli e dei loro nipoti”. Stava parlando dei figlie dei nipoti dell’Ucraina? Non solo. Anche dei nostri figli, dei nostri nipoti, e lo vediamo ancora oggi qui, i polacchi, gli europei, lo sanno: l’appetito degli autocrati non può essere soddisfatto. Bisogna opporsi, quindi possiamo solo rispondere: no. No, non prenderete il nostro paese, non prenderete la nostra libertà, il nostro futuro, ribadirò quello che ho detto l’anno scorso: un dittatore che ha ambizioni imperiali non potrà mai scalfire la voglia di libertà di un popolo. La brutalità non potrà mai prevalere sulla volontà di libertà e l’Ucraina non sarà mai una vittoria della Russia. La gente libera si rifiuta di vivere nel mondo dell’oscurità.

Questo è stato davvero un anno straordinario in tutti i sensi, abbiamo visto una brutalità fuori dal comune dei mercenari russi. Hanno commesso crimini atroci, senza vergogna, hanno colpito i civili, hanno usato violenza con le donne e i bambini, cercando di minare il futuro dell’Ucraina, bombardando le scuole, gli orfanotrofi, gli ospedali, nessuno può dimenticare le atrocità commesse da parte della Russia nei confronti del popolo ucraino. E straordinaria è stata la risposta da parte degli ucraini e del mondo, un anno dopo i primi bombardamenti, l’arrivo dei primi carri armati russi in Ucraina, l’Ucraina oggi è ancora indipendente, è ancora libera. Da Kherson a Kharkiv, i combattenti ucraini hanno ripreso la loro terra, oltre il 50 per cento del territorio occupato dei russi che ora sventola orgogliosamente la bandiera ucraina. Il presidente Zelensky è ancora capo di un governo che rappresenta la volontà di un popolo libero, questo è stato ribadito più volte anche da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che ha condannato l’attacco russo. Il voto delle Nazioni Unite è stato quasi sempre unanime. Solo quattro membri delle Nazioni Unite hanno votato a favore della Russia. Mi rivolgo ancora una volta al popolo russo: l’Europa, l’America non vogliono controllare o distruggere la Russia, l’occidente non vuole attaccare la Russia come ha detto oggi Putin. Milio ni di cittadini russi vogliono semplicemente vivere in pace con i loro vicini e loro non sono i nostri nemici: questa guerra non è necessaria, è semplicemente una tragedia, una guerra scelta dal presidente Putin. Ogni giorno di questa tragica guerra è una scelta di Putin, che potrebbe mettere fine alla guerra semplicemente ponendo fine all’invasione dell’Ucraina. Se l’Ucraina smettesse di difendersi invece questa sarebbe la fine soltanto dell’Ucraina. Per questo insieme vogliamo garantire all’Ucraina la sua difesa: l’Ucraina è a capo di una coalizione mondiale, di tantissimi paesi, che le forniscono sostegno con sistemi di difesa aerei, artiglieria, blindati, carri armati. L’Ue ha preso una posizione molto forte, con un impegno senza precedenti, fornendo mezzi militari ma anche assistenza economica. E c’è dell’altro, mi rivolgo a voi che siete qui stasera: guardatevi, guardatevi l’un l’altro, guardate cosa siete riusciti a fare. La Polonia ha accolto oltre un milione e mezzo di rifugiati che fuggivano da questa guerra, che Dio vi benedica. La generosità della Polonia, guardatela: avete aperto le vostre case e i vostri cuori, è stata una cosa straordinaria. Così come straordinaria è la determinazione degli Stati Uniti: nel mio paese, nelle grandi e nelle piccole città si vedono sventolare le bandiere ucraine sulle case; nell’ultimo anno i democratici e i repubblicani al Congresso si sono uniti a favore della libertà. Questi sono gli americani e questo è ciò che fanno gli americani.

Tutto il mondo deve affrontare le conseguenze dell’attacco di Putin. Putin ha messo a rischio il mondo intero bloccando i porti, fermando l’esportazione di cereali, aggravando la crisi alimentare che già c’era in Africa e in altre zone povere. Invece gli Stati Uniti e il G7 hanno risposto all’appello di questi paesi, hanno mostrato grandissimo impegno nell’affrontare questa crisi e aumentare le forniture alimentari. Mia moglie Jill in questo preciso momento sta viaggiando in Africa per garantire tale assistenza.

Il nostro impegno è per l’Ucraina, per garantire il futuro del popolo ucraino, per un’Ucraina libera, sovrana, democratica, che era il sogno di chi ha dichiarato l’indipendenza dell’Ucraina, trent’anni fa. Era il sogno di chi ha fatto poi la rivoluzione, la rivoluzione della di gnità, che hanno protestato coraggiosi nel Maidan, e a centinaia sono stati uccisi, ma hanno continuato a riorganizzarsi per combattere i leader corrotti. E questo era il sogno anche dei patrioti ucraini che da anni combattono nel Donbas contro l’aggressione russa: hanno dato tutto, hanno dato la loro vita per difendere l’Ucraina. Ieri a Kyiv assieme al presidente Zelensky abbiamo visitato il memoriale per rendere omaggio al sacrificio di chi ha difeso il proprio paese. Insieme: gli Stati Uniti sono a fianco degli ucraini, degli operai, degli insegnanti, di chi lavora negli ospedali, di tutti coloro che sfidano le bombe russe. I rifugiati che devono scappare dalla loro terra hanno trovato rifugio in Europa, soprattutto in Polonia. Gli europei stanno facendo di tutto per aiutarli, tutti, i leader politici e culturali, anche la first lady della Polonia qui stasera con noi: ognuno ha mostrato tutto quel che c’è di buono nello spirito umano – per questo vi amiamo, grazie.

Non dimenticherò mai quando l’anno scorso qui a Varsavia sono andato a incontrare dei rifugiati ucraini: avevano delle facce, erano esausti, abbracciavano i loro figli e questi bambini non sapevano se avrebbero rivisto i loro padri, fratelli, le loro sorelle. Ma in quei momenti così bui, voi polacchi avete offerto un barlume di speranza, li avete accolti, li avete guardati in faccia – non c’è libertà senza solidarietà.

Insieme continuiamo a lavorare perché la Russia paghi il prezzo di quel che sta facendo. Lavoriamo insieme per le sanzioni più dure, mai viste nella storia e riterremo responsabili tutti coloro che hanno portato avanti questa guerra e che continuano a commettere crimini contro l’umanità, parliamo dei russi.

C›è molto di cui essere orgogliosi, per ciò che abbiamo raggiunto insieme in questo anno. Ma dobbiamo essere onesti e lucidi quando guardiamo l›anno che ci aspetta. La difesa e la libertà non sono il lavoro di un giorno o di un anno, è sempre importante andare avanti su questa strada per far sì che l›Ucraina si possa difendere dalla Russia.

Continueremo a vedere giorni difficili, ci saranno altre tragedie, ma l’Ucraina è pronta per questa lotta. Gli Stati Uniti e gli alleati continueranno a sostenere l’Ucraina nella sua difesa. L’anno prossimo ospiterò i membri Nato per il vertice del 2024 negli Stati Uniti e celebreremo il 75esimo anniversario dell’Alleanza militare più potente nella storia: la Nato. E non c’è dubbio che l’impegno degli Stati Uniti a favore della Nato, secondo quanto stabilito dall’Articolo 5, continua a essere solido, solidissimo, ogni stato membro lo sa, questo lo sa anche la Russia.

Un attacco contro un solo stato membro è un attacco contro tutta la Nato

Questo è un giuramento sacro: difendere ogni centimetro del territorio Nato.

L’anno scorso gli Stati Uniti, con tutti gli alleati della Nato, hanno formato una coalizione formidabile per contrastare l’aggressione russa. Però non si tratta solo di contrastare: si tratta di ciò che vogliamo, ciò di cui siamo a favore, di che tipo di mondo vogliamo. Dobbiamo essere forti, dobbiamo migliorare il tenore di vita della gente ovunque, dobbiamo garantire ricchezza e prosperità, pace e sicurezza, trattare tutti con rispetto e dignità: questa è la nostra responsabilità. Le democrazie del mondo devono lavorare in questo senso. Stasera, qui riuniti, sappiamo che siamo a un bivio: i prossimi cinque anni condizioneranno il futuro delle nostre vite per i prossimi decenni.

Questo vale per gli americani e per i popoli di tutto il mondo. Le decisioni che prenderemo ora saranno fondamentali: la scelta tra caos e stabilità, tra costruzione e distruzione, tra speranza e ingiustizia, tra democrazia e brutalità dei dittatori. Dobbiamo guardare alle possibilità di cui possono godere le persone vivono in libertà: non c’è cosa più bella, aspirazione più grande della libertà. Gli americani lo sanno e anche voi lo sapete. E tutto ciò che facciamo ora va fatto affinché anche i nostri figli e i nostri nipoti conoscano la libertà.

Il nemico, il tiranno, sarà sconfitto dal coraggio. La libertà è fondamentale: noi stiamo con voi. Andiamo avanti con fiducia, con convinzione in questo legame di alleanza, per portare luce e libertà.

Dio vi benedica tutti, protegga le nostre truppe, i nostri eroi ucraini e tutti coloro che si impegnano a favore della libertà nel mondo. Grazie Polonia, grazie per tutto quello che state facendo. Dio vi benedica tutti.

(È il discorso pronunciato dal presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden a Varsavia il 21 febbraio scorso)

Iran, minaccia che incombe

Iran, minaccia che incombe

di Cecilia Sala
 

“Oqab 44” è una nuova base militare iraniana costruita in profondità sotto il livello del mare che è stata presentata come la prima per dimensione e garanzie di sicurezza capace di ospitare molti aerei. “Oqab” in farsi significa “aquila”. Il 7 febbraio l’aviazione iraniana ha diffuso un video: la colonna sonora è da videogioco e la telecamera è posizionata perfettamente al centro di un tunnel sotterraneo, la regia è una citazione esplicita delle prospettive di Stanley Kubrick. Le luci sono quelle azzurrine dei neon e i muri sono di cemento, in fondo c’è un cancello elettrico con dipinta sopra la bandiera della Repubblica islamica e, in mezzo, lo stemma dell’aeronautica militare. Le inferriate di metallo si aprono lentamente e si vede una sorpresa: c’è un aereo da combattimento, un monoposto di fabbricazione sovietica lungo venticinque metri con due motori, poi la telecamera si muove al ritmo della musica e compare un murales che raffigura una squadra di velivoli militari iraniani tra i quali spicca un modello che – a quanto ne sappiamo – l’Iran non dovrebbe possedere. È un Sukhoi 35 ed è più potente e moderno dei caccia che sono ufficialmente in dotazione alla Repubblica islamica. In teoria il Su-35 ce l’hanno solo la Federazione russa e la Repubblica popolare cinese, 110 la prima e 24 la seconda. Un Su-35 vale più di quaranta milioni di dollari mentre i modelli sovietici o autoctoni che l’Iran ha nel suo inventario militare al massimo la metà.

La televisione degli ayatollah presenta la Oqab 44 come una base segreta, ma è vero solo in parte. I satelliti europei e americani hanno visto il cantiere in tempo reale, appena gli escavatori iraniani hanno cominciato a spostare la sabbia e i sassi. La base è a centoventi chilometri da Bandar Abbas, in una zona disabitata della provincia di Hormozgan. È nel sud del paese e pericolosamente vicina allo stretto di Hormuz, dove passano la gran parte delle esportazioni di petrolio nel mondo e dove c’è la Quinta flotta della Marina americana. Secondo l’analista Farzin Nadimi, un esperto di Difesa iraniana che lavora per il think tank sul vicino oriente del Washington Institute: “Quella struttura sembra pensata per delle missioni che abbiano l’obiettivo di interdire a sorpresa i movimenti della Quinta flotta statunitense, e non solo, nei mari della regione del Golfo Persico”.

Il cantiere a un certo punto finisce dentro la roccia e noi conosciamo solo l’inizio di quel tunnel, non sappiamo quanto è profondo, se la strada coperta poi curva, a che altezza e in quale direzione. Di conseguenza non sappiamo con precisione dove siano le armi. Nella porzione visibile, quella del cantiere in superficie, parcheggiato accanto a un Su-24 c’è la sagoma di un altro aereo che corrisponde perfettamente alla nuova generazione dei Su-35. Chris Biggers ha lavorato per anni come esperto in analisi delle immagini satellitari per il governo degli Stati Uniti, da tempo si è messo in proprio e ora la sua società – la Hawk Eye 360 – ha realizzato un’indagine per il “New York Times”. Biggers ha concluso che sì, quella è sicuramente la sagoma di un Su-35, ma non significa necessariamente che quello sia proprio un Su-35. Da settembre si parla insistentemente dell’ipotesi che Mosca ricambi il supporto militare che sta ricevendo dall’Iran per condurre la sua guerra di aggressione all’Ucraina (i droni Shahed, quelli Mohajer, gli istruttori iraniani in Crimea, i preparativi per costruire una linea di produzione di droni direttamente in Russia) con una spedizione di ventiquattro caccia Su-35 a Teheran. Per il momento non c’è nessuna prova che la consegna sia avvenuta: il Cremlino non ha mai riconosciuto ufficialmente lo scambio e, soprattutto, difficilmente lo spostamento di una simile quantità di questa tipologia di aerei sarebbe sfuggito al monitoraggio della comunità internazionale. Le ipotesi sono due: la prima è che agli ingegneri militari iraniani sia stato ordinato di progettare un fantoccio di Su-35, cioè che l’aereo visto dai satelliti sia finto e pensato solo per ingannare e spaventare occidentali e israeliani. La seconda – e più quotata – ipotesi è che la nuova base Oqab 44 sia desti nata a proteggere i nuovi Su-35 che arriveranno entro la fine dell’anno, ma che – per ottenere una base davvero cucita su misura del nuovo aereo – servisse da subito un simil Su-35 da manovrare all’interno del tunnel per progredire nella costruzione.

Gli iraniani hanno un’antichissima ossessione per le città sotterranee. L’isola-città iraniana di Kish, nel Golfo Persico, ha due facce: una sopra e una sotto la superficie. La parte sotterranea si sviluppa per 10 mila metri quadrati ed è confortevole perché quella di Kish è una zona molto arida, ma in profondità c’è sia l’acqua sia il fresco. Nella provincia di Isfahan, al centro dell’Iran, c’è la città sotterranea di Nushabad. È un labirinto composto da tre piani di tunnel costruiti tra i tre e i diciotto metri di profondità. Nushabad ha millecinquecento anni ma le condotte d’aria sono perfettamente funzionanti così si può ancora girare all’interno, i persiani della zona l’hanno sempre usata per proteggersi dalla guerra e dal sole. Le costruzioni sotterranee di oggi non vengono riempite di magazzini e di pozzi ma di armi, però gli ayatollah fanno continuamente riferimento a questa tradizione antica con cui tutti gli iraniani hanno consuetudine e infatti le chiamano “città” anche se sono basi militari. A marzo 2021 i Guardiani della rivoluzione islamica – la forza paramilitare parallela, ma più potente, dell’esercito regolare – avevano appena finito di costruire la propria “città dei missili” sotto terra. Nel gennaio del 2022, alcuni ufficiali iraniani sono andati a bussare a casa di un giornalista della televisione di stato, gli hanno offerto uno scoop, gli hanno detto di prendere la telecamera e poi lo hanno fatto salire su un minivan dove gli hanno messo un cappuccio nero in testa. Così noi abbiamo visto per la prima volta le immagini di un’altra base militare semi segreta che in questo caso, invece di aerei o missili, ospita i droni. Secondo le indiscrezioni che circolano a Teheran, sarebbe nascosta da qualche parte dentro la catena montuosa Zagros che corre lungo la costa del Golfo Persico. Il giornalista è stato trasportato bendato in elicottero dalla città di Kermanshah, nel nord ovest del paese vicino al confine con l’Iraq, il viaggio è durato quarantacinque minuti e quando gli sono state tolte le bende dagli occhi era dentro un tunnel della “Base strategica 313”. Le città militari sotto la superficie servono a ripararsi dagli occhi dei satelliti e dagli attacchi esplosivi come quello di un mese fa a una fabbrica dell’industria militare di Isfahan da parte del Mossad. E, in prospettiva, dall’ipotesi di bombardamenti meno esemplari e più massicci dell’aviazione israeliana. Nel sottosuolo, la Repubblica islamica nasconde le armi convenzionali come il suo programma nucleare. L’intelligence americana e israeliana dall’estate scorsa monitorano giorno per giorno i progressi nella costruzione di una rete di tunnel a sud del sito nucleare di Natanz e a esso collegata. È sufficientemente in profondità da poter resistere sia agli attacchi hacker sia alle bombe anti bunker.

La settimana scorsa gli esperti dell’Agenzia atomica internazionale dell’Onu hanno detto che sono state trovate tracce di uranio arricchito all’84 per cento nelle centrali atomiche iraniane: per il nucleare per scopi clinici e per tutti gli altri scopi civili è sufficiente una purezza dell’uranio sotto il 5 per cento, per la bomba atomica serve il 90 per cento. Prima del ritrovamento di particelle pure all’84 per cento, la Repubblica islamica arricchiva ufficialmente l’uranio al 60 per cento. Questa settimana potrebbe esserci una visita a Teheran del capo dell’Agenzia atomica Raphael Grossi, ma – secondo gli esperti – se la visita ci sarà, la sua funzione sarà prettamente diplomatica (farsi vedere lì per calmare le acque), e non tecnica (indagare meglio cosa succede nelle centrali atomiche). Bisogna considerare sia le “città” sotterranee delle armi convenzionali sia quelle del programma atomico all’interno di uno stesso quadro. Il capo della Cia William Burns, nell’intervista che ha dato al pro gramma “Face the Nation” della “Cbs” il 25 febbraio, ha parlato di: “enrichment, weaponization, and delivery” – arricchimento (dell’uranio), capacità di trasformazione dell’uranio arricchito in un’arma (la bomba atomica), capacità di lanciare la bomba atomica. Rispetto al primo punto la Repubblica islamica è sostanzialmente già pronta. Sull’ultimo punto, il “delivery”, cioè le tipologie di armi su cui sarebbe eventualmente possibile montare l’atomica per trasportarla a destinazione: fa ricerca, progredisce e organizza dimostrazioni di forza. Mentre Burns parlava alla “Cbs”, in Iran andava in onda un’intervista al capo dell’aeronautica dei pasdaran, Amir Ali Hajizadeh, che presentava il nuovo missile iraniano “Paveh” in grado di colpire a 1.650 chilometri, commentando questa caratteristica con le parole: “Una distanza che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni”. Intendeva dire: il missile Paveh ha Israele nel suo raggio di azione. L’Iran dispone già di molti missili balistici in grado di colpire Tel Aviv, ma ogni scusa è buona per rinnovare la minaccia. Burns però è stato chiaro su una cosa: Teheran non sta lavorando al punto due, a rendere tutto quell’uranio arricchito quasi in purezza un’arma. Ha detto: “Sono ancora lontani”. E poi che, secondo le informazioni di cui dispone la Cia, l’Iran non ha preso la decisione di “riprendere il programma di armamento” (del suo uranio arricchito) che aveva interrotto nel 2003. Non è una novità, i funzionari americani non hanno mai sostenuto che Teheran lo avesse fatto, ma non avevano neanche mai sottolineato il contrario in modo così esplicito. Le rassicurazioni di Burns sul punto arrivano con l’avvicinarsi di una scadenza.

Un passo indietro: a dicembre del 2021 l’allora ministro della Difesa israeliano Benny Gantz aveva ordinato di preparare un piano per bombardare i siti nucleari iraniani e i vertici dell’Aeronautica avevano spiegato che i nuovi fondi pubblici sarebbero stati destinati a questo. Negli stessi giorni, a metà dicembre 2021, Israele chiedeva con insistenza agli Stati Uniti di consegnargli otto aerei KC-46 – per un valore di due miliardi e mezzo di dollari – che Israele aveva preordinato. I KC-46 sono aerei che servono ai jet da combattimento per poter fare benzina in volo e sono considerati cruciali per qualsiasi ipotetica operazione militare dell’aviazione israeliana in Iran. Washington aveva risposto che non ne avrebbero visto neanche uno prima del 2024, che oggi è molto più vicino.

Oltre alla possibilità del rifornimento in volo, per colpire i siti nucleari Israele dovrebbe accecare le difese aeree della Repubblica islamica e difendersi dai jet da combattimento di Teheran, Su-35 compresi. È in discussione anche se gli aerei di cui dispone oggi Israele siano sufficientemente massicci da trasportare bombe anti bunker abbastanza grandi e pesanti da distruggere molti strati di roccia fino a raggiungere le città sotterranee d’Iran: secondo molti analisti, al momento, no. Le armi più massicce sono l’altra richiesta a Washington dopo i KC-46. Uno dei modi in cui è stata letta l’intervista di Burns è che l’intenzione di fornirle, almeno al momento, almeno dal suo punto di vista, non ci sia. 

(da “Il Foglio” del 1 marzo 2023) 

Vi scongiuro, non cedete alla di-speranza

Vi scongiuro, non cedete alla di-speranza

di Marco Pannella

Spes contra spem, essere speranza, non limitarsi ad averla. Questo mi auguravo; e ho sperato che papa Francesco avesse questo punto di riferimento. L’invito a essere misericordiosi: per carità, a livello teologico e via dicendo, sicuramente può essere anche di affascinante interesse; ma a livello lessicale, a livello di vita, credo si debba dire quello che cerco di dire quando vado in visita nelle carceri. Guardate, che la disperazione di tutti voi che vivete nelle carceri (e dunque non solo i detenuti, ma anche le loro famiglie, la polizia penitenziaria, i volontari e tutti coloro che lavorano lì), a tutta quella comunità dico e ripeto sempre una sola cosa: non cedete alla disperazione, non siate rassegnati, voi siete speranza, per coloro che vi amano e che amate. Se non comprendete questo, e vi lasciate andare alla di-speranza, alla di-sperazione, colpite proprio coloro che vi amano: coloro per i quali voi siete speranza. È questo che dico ai detenuti, ogni volta che li incontro; ed è questo che mi auguravo dicesse papa Francesco durante l’anno santo. Così avrebbe parlato al mondo intero, anche ai credenti in altro che nel magistero della chiesa; e credo sarebbe stato enormemente efficace. Questo invito a essere misericordiosi, c’è sempre nell’insegnamento e nella vita della chiesa e dunque non comprendo lo specifico di questo momento. Si dice che questo sia un momento particolarmente infelice e cattivo, e proprio in questo momento c’è bisogno di misericordia. Io sono convinto che proprio in questo momento ci sia bisogno di essere speranza, di diventarlo; di rendersi conto che se non lo si fa, facciamo disperare coloro che sperano in noi, coloro che ci amano, coloro che amiamo; con questa scelta di indicare la misericordia, in termini di lessico, di linguaggio credo non si riesca a parlare efficacemente proprio di quello di cui papa Francesco sicuramente vuole parlare, in Italia, a Cuba, in America latina, ovunque…

(…)

Temo che l’indifferenza dello Stato accentui la disperazione delle donne e degli uomini ammassati nelle prigioni. Corpi a cui viene tolta la dignità vengono annullati i diritti fondamentali e per i quali il principio della Costituzione secondo cui la pena deve tendere al reinserimento sociale si rivela una beffarda irrisione. La tracotanza di chi ha la responsabilità di questo stato di cose si continuerà a subire in silenzio, a morire, a suicidarsi, e che non ci saranno rivolte violente e che il sangue che scorrerà sarà solo quello delle vittime senza voce. Hanno rinchiuso nelle gabbie migliaia e migliaia di soggetti deboli, poveri, stranieri, tossicodipendenti, emarginati, border line, trasformando il carcere in una discarica sociale e malignamente si accaniscono secondo la massima vigliacca: forti con i deboli, deboli con i forti. I garanti dei diritti dei detenuti in tante città hanno presentato una piattaforma delle ‘cose da fare subito’, riprendendo una felice espressione di Ernesto Rossi del 1949. Io non mi rassegno al fatto che tante buone volontà vengano bistrattate. Immagino perciò un digiuno ad oltranza, fino all’ultimo giorno della legislatura. Una catena nonviolenta e di massa, una mobilitazione collettiva per un obiettivo puntuale: un decreto legge contro gli effetti delle leggi emergenziali e classiste. Io facevo parte della delegazione dei firmatari cui si chiedeva al presidente della Repubblica di inviare un messaggio alle Camere per una assunzione di responsabilità sulla questione del carcere, e in quella occasione feci presente che il sovraffollamento non era un accidente, ma aveva una causa nelle leggi criminogene e in particolare nella legge sulle droghe. Per rispondere alla ‘prepotente urgenza’ il governo aveva una sola strada, quella del decreto legge per cancellare le norme più nefaste della legge Giovanardi che causano l’ingresso in carcere di oltre ventimila consumatori (o piccoli spacciatori) di sostanze stupefacenti e di ventiquattromila tossicodipendenti, vittime della legge Cirielli sulla recidiva. Nel 2006, con un colpo di mano istituzionale e contro la prescrizione costituzionale del carattere di necessità e urgenza, la riforma proibizionista e punitiva della legge sulla droga fu inserita nel decreto legge delle Olimpiadi invernali. Oggi di fronte allo spaventoso sovraffollamento delle carceri (metà dei detenuti per fatti relativi a quella legge) vi sono tutte le ragioni politiche e costituzionali per un decreto che incida sui fatti di lieve entità relativi alla detenzione di sostanze stupefacenti e modifichi gli articoli che impediscono la concessione di misure alternative ai tossicodipendenti…

(intervento pubblicato nel volume “Visitare i carcerati”, a cura di Imma Elenoire Laudieri Di Biase, Marcianum Press edizioni)

Viaggio nel mondo sconosciuto delle Rems

Viaggio nel mondo sconosciuto delle Rems

di Maria Antonietta Farina Coscioni

Malattia mentale e “folli rei”, le Residenze per le Esecuzione delle Misure di Sicurezza, più conosciute come Rems. Il mio “viaggio” all’interno di queste strutture comincia. Ma innanzitutto: cosa sono le Rems? Sono le strutture di cura che hanno preso il posto degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari; sono nate per accogliere e curare chi ha commesso reati, condannato ma anche giudicato infermo o seminfermo di mente. Sono più di trenta, disseminate in diciassette regioni a non ricordar male. Tanti anni fa c’erano i manicomi criminali, poi gli Opg; oggi le Rems… Cambiano i nomi; migliorano le strutture. Il disagio mentale, quello, c’è sempre; e con quello bisogna far i conti, ed è sempre questione seria assicurare cura, umanità, sicurezza anche per lo stesso malato. 

Lunedì 6 febbraio “visito” le Rems “Minerva” e “Merope”, entrambe nel comune di Palombara Sabina, vicino Roma. Giovedì 9 febbraio è la volta delle Rems “Castore” e “Polluce” di Subiaco. Infine lunedì 27 febbraio “volo” in Calabria: a Santa Sofia d’Epiro (Cosenza), la “Giuseppe Granieri”. Un viaggio lungo, niente affatto semplice, non tanto per le distanze: è che si entra nei labirinti della malattia mentale, del disagio psichico, la comunità dei “folli rei”, con le legislazioni “speciali” che ancora resistono, il percorso della tutela del diritto alla salute mentale non affatto garantito.

Il “viaggio” all’interno delle Rems chiede attenzione, cautela, pazienza. Più di tre ore di visita nelle prime due, la “Minerva” e la “Merope”; entra anche la telecamera di “Radio Radicale”. Ascoltiamo e registriamo le testimonianze della comunità dei “folli rei”; lo psichiatra Giuseppe Nicolò (direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologie ASL Roma 5); lo psichiatra Corrado Villella (responsabile della “Minerva”) e la sua collega Alessia D’Andrea (responsabile della “Merope”), lunghe, dettagliate, fruttuose conversazioni sui problemi e le difficoltà che affrontano tutti i giorni; e con loro un’altra psichiatra, la dottoressa Viviana Censi; percorriamo i corridoi e stanze che costituiscono le due Rems, da ben sette anni (!) “provvisoriamente” ubicate nella Casa della Salute di Palombara Sabina.

La “comunità” è numerosa, una sorta di ordine che quasi stupisce, anche un po’ stordisce. Ai piani, diversi gli agenti di vigilanza interna privata. Gli “ospiti” timidamente si avvicinano, poi prendono confidenza. Il loro primo lamento è quello del cibo, non gradito, perché tipicamente “da ospedale”, fornito dall’esterno. Si “toccano” con mano le legislazioni “speciali” che ancora perdurano nel nostro ordinamento, quando ascolto la richiesta urgente e necessaria degli operatori sanitari di un confronto tra la cultura psichiatrica e quella giuridica. Mancando questo rapporto e confronto già dalle prime visite, gli invii “impropri” da parte della magistratura inevitabilmente continueranno. Questo significa che l’invio in Rems non è la corretta applicazione della legge 81/2014; la normativa infatti prevede la misura detentiva come “extrema ratio”; come la si realizza invece compromette il percorso di riabilitazione dei “folli rei”.

Giovedì 9 febbraio: sono alle Rems “Castore” e “Polluce” di Subiaco. Sotto la supervisione dello psichiatra Giuseppe Nicolò e con la responsabile di struttura Giovanna Paoletti, mi accompagnano in quello che voglio chiamare “percorso”. Ho deciso di chiamarlo così perché attraverso il loro vissuto, il loro vivere all’interno delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza si comprende quanto le istituzioni siano adempienti o no; delle carenze e delle urgenze. Solo “dentro”, toccando con mano ci si rende conto delle priorità disattese, dei temi urgenti ignorati; delle criticità a cui si presta poca o nessuna attenzione, da “fuori”. Perché la dignità umana anche all’interno di queste istituzioni deve essere un’urgenza e trovare le necessarie soluzioni. Le mie “guide” confermano le mie impressioni: serve una politica più attenta e più coraggiosa. Ne fa fede la testimonianza di Lukas: evidenzia come la pericolosità sociale va valutata al tempo di applicazione della misura di sicurezza, come del resto hanno stabilito le sentenze della Corte costituzionale. Invece – e lo vive sulla propria pelle – accade che il tempo medio di attesa tra l’ordinanza di applicazione della misura di sicurezza in Rems e la sua effettiva esecuzione sia di circa dieci mesi; in un ordinamento secondo il quale la magistratura deve inviare per il ricovero in Rems solo per estrema ratio.  

Dovrebbe essere scontato, ma è bene ribadirlo: la comunità dei “folli rei” è costituita da persone: direttori, medici, psichiatri, infermieri, operatori sanitari, assistenti sociali, guardie giurate. Non sono numeri. Nel mio “percorso” ascolto Marco Lombardi, tecnico della riabilitazione psichiatrica; Arianna Eusepi, infermiera coordinatore; Maria Chiara Scenti, assistente sociale. Tante voci essenziali per far comprendere e far conoscere i contenuti, il “vissuto” delle Rems, e non soffermarsi solo sul “contenitore”.

In Calabria, a Santa Sofia d’Epiro, c’è la Rems “Giuseppe Granieri” ospitata dalla cooperativa sociale “Il Delfino”, di proprietà della Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza. Con me, per la prima volta in una Rems, ci sono Carmelo Olivella (presidente della associazione “Tirrenide”) e l’attore Alfredo Sammarco de “La Compagnia della Rosa”; ci fa da “guida” la psichiatra Stefania Ruberto, direttrice della REMS e con lei il dottor Gianfranco Tosti, referente per l’Ente Gestore.  Il pensiero qui va subito alla lettera che un anno fa Daniele Atanasio Sisca, sindaco di Santa Sofia d’Epiro, invia al prefetto di Cosenza, segnalando come sia facile allontanarsi dalla Rems. “Allontanamenti” che provocano allarme e timori tra la popolazione residente; tra l’altro non distante c’è una scuola. Timori e allarmi che però vanno ridimensionati: alla fine si apprende che un solo “ospite” si è allontanato, senza peraltro avere alcuna intenzione di “fuggire”. Quanto basta, tuttavia, perché venisse adottata la decisione di prevedere all’interno della Rems di una stanza di “de-escalation”; e si può ben immaginare una stanza con letto e suppellettili ancorati al pavimento, porta riservata e di metallo, una finestrella d’ispezione, la telecamera protetta da una gabbietta di metallo. Un falso allarme da una parte, una stanza per gestire l’aggressività dell’ospite dall’altra…

  Emergono le posizioni giuridiche dei ricoverati, sia “provvisori” che “definitivi”. I primi riguardano coloro ancora sottoposti a procedimento penale; i “definitivi” invece sono già stati prosciolti in quanto non imputabili, e comunque sottoposti a misura di sicurezza, ritenuti realmente pericolosi. Esco con un pensiero fisso: il ragazzo robusto, dall’andatura lenta, lo sguardo fisso per tutto il tempo rivolto in basso. È disabile intellettivo, dalla nascita. Chissà se avremmo potuto impedire il suo ingresso in Rems. Se avessimo orientato la sua forza in un altro tempo e spazio…

Alla prossima puntata di questo “viaggio” all’interno della comunità dei “folli-rei”.

Carceri minorili il nostro fallimento

Carceri minorili il nostro fallimento

di Francesca Fagnani

“Proposta Radicale” n.7 ha pubblicato il testo di un intervento di Eduardo De Filippo nella sua veste di senatore a vita. Riguardava il carcere minorile di Nisida, i suoi giovani detenuti: a Eduardo erano molto cari. La seduta era quella del 23 marzo 1982. Quarant’anni dopo potrebbe risuonare nell’aula del Senato, purtroppo senza che si debba mutarne una sola virgola. L’8 febbraio scorso, la co-conduttrice della seconda serata del Festival della canzone di Sanremo Francesca Fagnani ha incentrato il suo partecipato intervento sul ruolo che lo Stato dovrebbe avere nei confronti dei detenuti, gli adulti ma soprattutto i minorenni. Come Eduardo ha visitato e parlato con gli “ospiti” di Nisida. Sarebbe bello, se nell’edizione 2024 del Festival di Sanremo Fagnani o chi per lei potesse dire che qualcosa nel frattempo è cambiato, che il suo intervento ha perso di attualità. Qui si ripropone il suo intervento, a futura memoria. 

“Non tutte le parole sono uguali, e non tutte arrivano a noi con facilità. Ci sono parole che per arrivare sul palco di Sanremo devono abbattere muri, pareti, grate e cancelli chiusi a doppia mandata; parole come queste raccolte nel carcere minorile di Nisida, parole scritte insieme ai ragazzi che stanno scontando la loro pena lì e altrove, ma senza cercare la nostra pena, perché della nostra pena non se ne fanno niente.

“Cosa vorresti dire, cosa vorresti chiedere a una platea così importante?”.

Dottore’, allora scrivi intanto due o tre biliardini da Sanremo, poi devi dire ad Amadeus che si facesse meno lampade”.

Ma no quello è Carlo Conti…

Poi digli che rubare non è il mestiere mio, l’ho fatto una volta sola e guarda dove sono finito”.

E a cosa ti servivano quei soldi?

Per fare il brillante dottore’”.

E tu invece, quando scendevi per una rissa con il coltello in tasca, che cercavi?

“Era come a dire guardatemi, voglio esistere anch’io”.

Non avevi paura mentre facevi una rapina?

Sono cresciuto nervoso, arrabbiato, chi fa le cose per rabbia non ha paura”.

Non avevi paura di morire?

E tanto, prima o poi…Vogliamo che la gente sappia che non siamo animali, non siamo bestie, non siamo killer per sempre, vogliamo che ci conoscano”.

Quand’è l’ultima volta che hai pianto?

Mai, nemmeno alle elementari piangevo io!”.

E da quanto non vedi tuo padre, che è in carcere come te?

L’ho rivisto adesso, dopo tre anni”.

Che effetto ti ha fatto?

Eh, mi sono messo a piangere”.

E allora lo vedi che piangi?

Hanno picchiato, hanno rapinato, hanno ucciso. Alla domanda “perché l’hai fatto?”, però non trovano la una risposta, una risposta che vorrebbero avere ma che non esce: perché bisogna andare al giorno prima, alla settimana prima, al mese prima, alla vita prima. Hanno 15 anni e gli occhi pieni di rabbia, pieni di vuoto. Hanno 18 anni e lo sguardo è perso, oppure sfidante. Hanno occhi che chiedono aiuto senza sapere quale aiuto, senza sapere a chi, chiedere aiuto.

La scuola l’hanno abbandonata ma nessuno li ha mai cercati. Non la preside, ma neppure gli assistenti sociali, che o non ci sono, o sono troppo pochi per certe periferie. E le madri padri, quelli che c’erano non ce l’hanno fatta.

Quando ho intervistato adulti in carcere per reati gravissimi ho chiesto loro: cosa cambieresti della tua vita? Quasi tutti mi hanno dato la stessa risposta: “Sarei andato a scuola”. Perché se nasci in quel quartiere, in quel palazzo, o da quella famiglia, è solo tra i banchi di scuola che puoi intravedere un’alternativa alla vita già scritta per te da altri. Lo Stato non può esistere presente solo attraverso la polizia; lo Stato dovrebbe combattere la dispersione scolastica e la povertà educativa, dovrebbe garantire pari opportunità almeno ai più giovani. È una questione di democrazia, di uguaglianza, su cui si fonda la nostra Repubblica. Lo Stato dovrebbe essere più attraente, più sexy dell’illegalità.

Avete dei sogni?

Mi piacerebbe andare a Uomini e donne”.

Perché?

Perché li dottore’, fanno acchiappanza!”.

Altri sogni?

Io mi pensavo che la felicità si comprava”.

Ora che sei qui, nel carcere minorile, è tardi. Hai fallito tu e abbiamo fallito tutti. Ma il tuo destino non è irreversibile, se quando esci da qui trovi un lavoro, se rispetti la legge, se superi i pregiudizi. Ma se invece non ce la fai e torni in carcere, quello vero, quello degli adulti, allora sì: è davvero finita. Perché in Italia, salvo qualche bella eccezione, la prigione serve solo a punire il colpevole, non serve a rieducare, tantomeno a reinserire nella società chi entra. Il giorno passa su un materasso sporco senza far nulla, in una cella dove dovreste essere in tre e invece siete in cinque, dove si cucina nello stesso lavandino dove poi ci si lava i denti proprio sopra il water, lo dico perché l’ho visto.

Un autorevole magistrato al quale dobbiamo essere grati per le inchieste importantissime che coordina, quest’estate in un’occasione pubblica ha detto: “Sono contrario a uno schiaffo in carcere o uno schiaffo in caserma. Il detenuto non deve essere toccato nemmeno con un dito. Sapete perché? Per tanti motivi, ma soprattutto perché non deve passare per vittima”.

No. Un detenuto non va picchiato per la ragione che dice lei, cioè per non consentirgli di fare la vittima. Non può essere picchiato perché lo Stato non può applicare le leggi della sopraffazione e della violenza che appartengono alle persone che lei, giustamente, arresta. Se non faremo in modo che chi entra nel carcere esca migliore di quando è entrato sarà un fallimento per tutti. E se non ci arriviamo per civiltà, per umanità, per rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, arriviamoci per egoismo. Conviene a tutti che quel rapinatore, che quello spacciatore, una volta fuori cambi mestiere.

Il radicale Vasco Rossi questa è la storia

Il radicale Vasco Rossi questa è la storia

di Sergio Rovasio 

Era un sabato mattina dei primi giorni di luglio del 1988, stavamo con Marco Pannella negli uffici del Gruppo Parlamentare Radicale in Via Uffici del Vicario, 21 a Roma. Nel deserto totale del Palazzo (dovevamo entrare da un ingresso secondario perché gli uffici erano rigorosamente chiusi nonostante i Radicali ci fossero spesso anche la domenica) sfogliavamo i quotidiani. A un certo punto leggiamo una piccola notizia: arrestato Vasco Rossi per droga. Da poco Marco Pannella aveva rilanciato la campagna antiproibizionista sulla droga con il Cora (Coordinamento Radicale Antiproibizionista), che avevamo appena fondato con Giancarlo Arnao, Luigi del Gatto, Marco Taradash e Maurizio Turco. Marco, come sempre preso da mille altre iniziative, tuttavia trovò il tempo di dettarmi un telegramma indirizzato a Vasco – Carcere di Rimini: “Ti siamo sinceramente vicini per questa assurda detenzione, la legge proibizionista è una vergogna, siamo con te, non sentirti solo!”. Firmato Marco Pannella e i parlamentari Radicali.

Dopo l’uscita dal carcere Vasco venne intervistato da “la Stampa”. Alla domanda “ti sei sentito solo in carcere?” rispose: “No, avevo i Radicali con me. Marco Pannella e Fabrizio De Andrè sono stati gli unici a scrivermi che stavano con me, mi sono sentito importante, non lo potrò mai dimenticare”.

Per molti anni – e in particolare in una lunga intervista al “Tg1” – Vasco ha ricordato questo episodio; alla rivista “Rolling Stones” nel maggio 2016, disse riferito a Marco: “L’ho conosciuto durante le mie prigioni. Lui e Fabrizio De Andrè mi mandarono un telegramma di solidarietà, cosa che per me contò moltissimo. Era il gesto di due amici veri quelli che ti stanno vicino anche quando sei in difficoltà. Qualche tempo dopo ci siamo incontrati e da quel momento Marco mi ha inseguito per anni chiedendomi di candidarmi”.

Nel 1988 il Cora era appena nato e decidemmo con Maurizio Turco di spedire (all’unico indirizzo che riuscimmo ad avere di Vasco a Zocca, l’indirizzo della madre) il giornaletto “Notizie Radicali” e il bollettino del Cora. Senza alcun altro sollecito, di lì a poco arrivò a Torre Argentina un conto corrente di iscrizione al Cora e al Partito Radicale a nome suo: questa azione divenne un rito annuale, che non si è mai interrotta fino ai giorni nostri. In quasi tutte le interviste in cui si fa qualche accenno alla politica, Vasco ha sempre ricordato che lui è Radicale: al “Tg1” dichiarò persino: “Marco Pannella è il mio alter ego politico!”.

Gli incontri tra Marco e Vasco a Bologna, all’Hotel Oasi di Kufra di Sabaudia dove Vasco fece un ritiro di preparazione del tour estivo 2007 o nella sede storica dei Radicali in Via di Torre Argentina a Roma, non si contano. L’ultimo incontro poco prima della morte di Marco nella sua abitazione romana in via della Panetteria grazie all’amico comune Clemente Mimun: erano Matteo Angioli e Laura Harth, i due angioletti che accudirono Marco fino alla fine. Fu un incontro molto divertente, pieno di battute dove si davano del matto tra di loro! Effetti-vamente… Quando Marco morì Vasco lo ricordò così su “Rolling Stones”: “Era decisamente rock. Marco Pannella serve a ricordarci che non si smette mai di combattere per la difesa dei diritti civili. Le sue idee erano simili alle mie già quando ero molto giovane: occorre abbattere il pregiudizio, ci vuole tolleranza, anti- clericalismo e antiproibizionismo. Avevo il mio alter ego politico, un provocatore di coscienze decisamente rock”.

Nella sua pagina Facebook scrisse: “Quando io incominciavo la mia avventura rock e scrivevo e cantavo le mie prime canzoni: ‘Sensazioni forti’, ‘Colpa d’Alfredo’ o ‘Albachiara’, Marco Pannella e i Radicali conquistavano le prime roccaforti di una civiltà libera: il divorzio e l’aborto. Già. Oggi diamo tutto per scontato. Talmente assuefatti che quasi non ci accorgiamo che ogni tanto (e per motivi non proprio nobili) ci vengono messi in dubbio quei diritti civili che abbiamo acquisito e conquistato con molta fatica nel secolo scorso o, se preferite, soltanto 40 anni fa! L’aborto, per esempio, viene continuamente e puntualmente messo in discussione, non parliamo poi di alcuni temi di etica sociale che ci collocano in fondo alla classifica dei paesi più avanzati: discriminazione di sesso, colore della pelle, religione. Ecco perché. C’è chi dice Pannella. Marco Pannella, sinonimo di Radicali che esistono e servono proprio a questo: a ricordarci che non si smette mai di combattere per la difesa dei diritti civili. Quando Pannella fondava il partito Radicale nel 1955, io avevo 3 anni… non voglio dire che simpatizzavo già allora ma… un po’ di anni più tardi sì. Erano gli anni ‘70, i favolosi anni della presa di coscienza politica, della ‘fantasia al potere’, delle grandi battaglie e delle grandi conquiste. C’era un gran bel movimento culturale a Bologna, dove mi ero trasferito per studiare…, diciamo pure la verità, più per l’avventura, per scappare da Zocca, che per fare piacere a mio padre, che mi voleva laureato. Non avevo ancora ben chiaro quale sarebbe stato il mio futuro, di certo non mi vedevo seduto dietro a una scrivania o in banca. Vivevo nell’immediato, frequentavo gli ambienti anarchici, facevo teatro sperimentale, suonavo la chitarra, scrivevo canzoni e correvo dietro alle ragazze. Le idee radicali di Pannella, per combinazione, erano molto simili alle mie, ai temi delle mie canzoni: abbattere il pregiudizio, sospendere il giudizio, tolleranza, anticlericalismo e (cosa non da poco) antiproibizionismo. Finalmente un approccio moderno alla vita sociale, con l’uomo e i suoi diritti al centro di tutto, davanti anche alle logiche di partito, di sinistra destra o centro… Avevo praticamente il mio alter ego politico: anticonformista, contro l’ipocrisia. Un provocatore di coscienze. Decisamente rock. Un idealista nel tentativo di “s-bigottismo” e di cambiamento della società italiana, un uomo politico onesto che, al posto dei salotti, sceglie sempre la provocazione e la piazza e che inoltre, ha sacrificato il suo patrimonio personale. Quanti altri lo fanno? Non ricordo bene in quale occasione ma so per certo che da quel momento mi ha inseguito per anni chiedendomi di candidarmi… Io non ho mai ceduto alle sue lusinghe e ci ho sempre riso su ripetendogli: sei già tu il mio alter ego politico! Io sono una rockstar, ad ognuno il suo mestiere!”.

Varrebbe anche la pena di ricordare alcuni testi dei brani più famosi che Vasco ha cantato al Modena Park sabato scorso, brani che sono testi speciali di canzoni d’autore e che fanno parte del quotidiano suo essere così speciale, da “Gli spari sopra” ad “Alibi” fino a “Stupendo” e “Un mondo migliore”, si leggono frasi e si cantano emozioni davvero straordinarie. Le sue canzoni urlano qualcosa di forte contro il potere precostituito, contro l’arroganza e l’ipocrisia e parlano spesso di amore, di felicità e dell’essere “Liberi, Liberi, Liberi”.

“Non dobbiamo avere paura” ha urlato Vasco dal palco di Modena, ecco cerchiamo di essere liberi, felici e, soprattutto, di non avere paura.

Era quello che Marco Pannella insegnava a tutti noi!

iMagz