Proposta Radicale 7 2022
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Editoriale

Non sappiamo più scrivere, osserva dolente lo scrittore Matteo Collura su “Il Messaggero”. Ormai la comunicazione si sviluppa su canali telematici, in luogo delle parole si utilizzano moderni geroglifici, un vocabolario ibrido che mescola espressioni mutuate da altre lingue snaturando l’originario significato. D’accordo la lingua è tutto meno che staticità; ma il non saper più scrivere in corsivo è più di un campanello d’allarme. Già in qualche paese lo si è bandito. Quando va bene, osserva Collura, ci si applica allo stampatello. È la fine delle lettere (di conseguenza dei carteggi), dei diari, del pensiero scritto che si manifesta anche nei biglietti augurali. Cosa resterà fra cinquanta, cento anni ai nostri pronipoti? Bell’interrogativo. 

Sul “Corriere della Sera” Aldo Cazzullo pur consapevole che “oggi” è meglio di “ieri” si chiede cosa manca in quest’“oggi” che tante volte ci lascia l’amaro in bocca. “Forse”, risponde, “manca quell’energia, quell’orgoglio, quel gusto del lavoro ben fatto grazie a cui un Paese agricolo devastato dalla guerra divenne una grande e ricca potenza industriale”.

Il primo numero “Proposta Radicale” ha pubblicato una densa conversazione con il filosofo Aldo Masullo. Si rifletteva sui tempi duri che si patiscono; Aldo replica: “Sì, ma dopo la guerra era molto peggio di oggi: un paese di vedove e di orfani; e quelle vedove e orfani hanno fatto il miracolo economico. Ma allora si era più seri”. Affermazione, semplice, al tempo stesso profonda, netta come il taglio di un bisturi: “Allora si era più seri”.

Il lettore provi a unire questi “indizi”: cultura sempre più rarefatta (al punto che si perde il gusto della scrittura), smarrito il piacere della cosa “ben fatta”, la minore “serietà”; è il Paese, le sue istituzioni, chi lo (s)governa e non c’è differenza tra maggioranza e opposizione; un “fantasma” che si aggira per l’intera Europa e negli altri continenti. Accanto a consistenti isole di grande civiltà e progresso culturale, tecnico, umano, l’affermarsi di piccole/grandi barbarie che rischiano di sommergerci. Una situazione che rende ci rende simili al ragazzino che si dedica all’impresa di svuotare il mare con il secchiello.

Il recupero e la valorizzazione di una cultura che non sia nozionismo; il piacere del “fare” e del “saper fare” (unite alla perizia del sapere come “far sapere”); la “serietà” della “parola” data e del dare la “parola”, sono cose che anche quel corpo politico che si chiama Partito Radicale non deve smarrire (il rischio c’è).

Marco Pannella ci lascia nel maggio del 2016. Nel settembre dello stesso anno la “missione impossibile”: il 40esimo congresso “da Ventotene a Rebibbia”, per l’appunto in una cornice letteralmente incredibile: un carcere, con e tra i detenuti. Non era mai accaduto, in Italia e nel mondo. Un evento, nell’evento. Da lì, occorre partire con la possibile, necessaria riflessione: la caparbia volontà di pochi di continuare, a dispetto di ogni evidenza e di molte contrarie volontà, a tenere alta la bandiera della civiltà del diritto e del diritto alla civiltà incarnata dal Partito Radicale e da quanti lo hanno letteralmente incarnato, e ora sono “altrove”: di loro possiamo coltivare memoria e storia, ma non possono più garantirci il sostegno della loro solidarietà, il conforto della loro critica. La necessità di una reinvenzione nella continuità. Un progredire, un evolversi senza smarrire memoria e radici. Mentre tutti “chiudono”, recuperare il senso dell’allenginsberghiano “Togliete le serrature dalle porte! Togliete anche le porte dai cardini!”.

Si sono fatti errori? Sicuro. Se ne faranno ancora? Certo. Chi è perfetto è morto. Al contrario, si vuole essere ben vivi, persone e corpo politico di “tenace concetto”.         

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