Resistenza: crollano infine le apologie rituali
di Ugoberto Alfassio Grimaldi
Mi limito a fissare alcuni punti.
I – Il “Mein Kampf di Pannella” è sanamente provocatorio e non è affatto fascista, stana anzi il discorso sul fascismo e sulla resistenza dal nido pigro e comodo del convenzionale e del falso. Il discorso sul fascismo sta uscendo dalla sfera del “demoniaco” con Renzo De Felice ed altri, quello sulla resistenza invece non sta ancora uscendo dalla sfera del celebrativo e del retorico. Dobbiamo affrettarci a riconoscere la necessità di trattare nelle scuole anche le questioni che scottano. È vero che il fascismo presenta una sua “tremenda dignità”, che non è stato solo riti e parate (staracismo), che più che in Giorgio Almirante lo si ritrova in certe leggi rimaste in vigore, in una certa nostra mentalità, in un certo comportamento del potere. Guardando ai termini concreti della nostra lotta politica, sono d’accordo con Salvatore Sechi quando scrive che oggi “tra fascismo e antifascismo la separazione deve avvenire su un progetto politico e non su verdetti di assoluzione o di condanna di episodi del passato”. È un segno di debolezza del pensiero fingere di credere alla grossa balla di Almirante fucilatore (e il fascismo per essere condannato nel suo ieri e rifiutato nell’oggi non ha bisogno di queste baggianate) ed è segno di viltà il fare tanto baccano attorno a Reder, o ieri a Kappler, senza mai chiedere che questi italiani i quali sono pochi mesi prima facevano di peggio in Jugoslavia (di peggio, perché ordinare di giustiziare tre ostaggi per ogni palo della corrente elettrica abbattuto dai partigiani è far operare alla prassi della rappresaglia un salto qualitativo, non più vita per vita – anche se moltiplicando per dieci – ma la vita umana in cambio di un pezzo di legno) vengano, se vivi, processati; se morti, disonorati alla memoria; e se amnistiati, posti sullo stesso piano dello sciagurato camerata Richard . Smontare il mito del “bono Taliano” e ricordare i nostri Reder e Kappler ogni volta che legittimamente rinfreschiamo la memoria degli orrori altrui è dovere di un antifascismo severamente serio e non superficiale.
Pavese: anche vinto, il nemico è “qualcuno”
II – Per le ragioni dette sopra, io – caro Guiducci – i fiori sulle tombe dei sudtirolesi caduti nell’imboscata di via Rasella li porterei, perché sono anch’essi figli di mamma, coinvolti in un evento più grande di loro, innocenti o no quanto lo erano i soldati italiani che fucilavano tre ostaggi per ogni palo abbattuto. Di fronte alla tomba di un nazista o di un fascista (o presunto tale, perché ci sono anche questi) ripenso alla pagina laicamente religiosa con cui Cesare Pavese concludeva un suo racconto: “Ho visto i morti sconosciuti, morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura di scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso”. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccende altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra questi corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce, si tocca con gli occhi, che al posto del morto potremmo essere noi. Non ci sarebbe differenza e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile; ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. Tutti dovrebbero chiedersi: “E dei caduti che ne facciamo? Perché sono morti?”.
Via Rasella: didatticamente utile…
Devo piuttosto aggiungere una cosa che dispiace di dover riconoscere: che didatticamente l’uccisione dei tedeschi di via Rasella ha insegnato una grande cosa al Grande Reich, ai Signori della Guerra. Ha insegnato loro che la pretesa di avere il diritto di comandare in casa d’altri era contestata e comunque scomoda. È dunque un negativo (l’uccidere) che ha avuto una funzione positiva. Mi spiego. Mi dicono che a Berlino, sul monumento al soldato russo ignoto, una mano clandestina abbia aggiunto la scritta “allo stupratore ignoto”: a me pare che ci sia stata una provvidenzialità in quegli ignobili stupri, e consiste nell’aver insegnato alle famiglie della Germania – abituata nel primo conflitto mondiale a combattere solo in territorio altrui – che cosa significa nella sua cruda realtà avere il nemico in casa, il dominio della forza, il diritto di sopruso. Penso che l’avvio alla rieducazione democratica dei nipoti della Prussia di ferro sia passato anche attraverso le tante meditazioni che quegli stupri non possono non avere sollecitato.
III – L’episodio di via Rasella è stato un atto di guerra, come l’uccisione di Giovanni Gentile e mille altri. In guerra “pietà l’è morta”. Io non so – perché non ero là allora – se si poteva fare un’altra scelta, individuare per esempio un altro attentato possibile e uccidere un numero minore di tedeschi. C’era questa occasione alternativa? Si trattava di aspetti tecnici – senz’altro molto importanti, per le conseguenze che avrebbero avuto – che potevano essere valutati e decisi solo nella contingenza. L’ipotesi può essere ripetuta in relazione a tanti altri episodi bellici: quel determinato bombardamento aereo non poteva essere sostituito da uno meno cruento, o addirittura non essere effettuato?
Il discorso storico-politico è un altro. Allorquando i responsabili della lotta partigiana decisero di colpire le forze armate tedesche, misero certamente in conto la probabilità della rappresaglia. Ritengo che abbiano anche pensato che questo atto avrebbe scosso l’apatia romana, l’attendismo largamente predominante (a Roma e nel resto d’Italia: ma a Roma certo di più, anche per la precisa volontà vaticana di tenere la città fuori dalla mischia), la nessuna voglia di farsi coinvolgere. Non sono d’accordo con Pannella quando domanda: fu necessità di guerra o fu necessità di partito? Se è vero che quella decisione è stata voluta prevalentemente dai comunisti diremo che fu una necessità di guerra così come la vedevano i comunisti con la loro mentalità e col bagaglio ideologico del loro partito. Non c’è nulla di strano e di male.
Attendisti e interventisti. Chi aveva ragione?
C’erano, nella Resistenza, gli attendisti e gli interventisti. Attendisti erano quelli che ritenevano di dover combattere il nazifascismo più moralmente che militarmente, più con le informazioni agli Alleati che con l’opposizione materiale all’occupante, più facendo propaganda che organizzando fatti d’arme, preoccupanti prevalentemente di non far subire rappresaglie alle popolazioni. In pratica, ritenevano che non ci fosse cosa migliore che attendere l’arrivo degli Alleati col minore danno. Interventisti erano quelli che organizzavano colpi di mano, punzecchiavano l’esercito tedesco e l’alleato repubblichino, punivano i collaborazionisti, vendicavano il compagno ucciso: applicavano la lezione appresa da Mazzini e da Carlo Rosselli, non mollare, rischiare, scuotere le coscienze con l’esempio, credere che i martiri non muoiono mai invano. Nessuna delle due puti aveva ragione in assoluto, anche se io penso che qualora tutti, in montagna come in città, fossero stati ad attendere gli eventi a braccia conserte – ed era, appunto, ciò che ci chiedevano i tedeschi – il paese avrebbe pagato un minore pedaggio di sangue, ma il miracolo della Resistenza non ci sarebbe stato. Con le conseguenze che possiamo bene immaginare.
È anche vero, tuttavia, che in qualche circostanza, quando il rischio era grosso e non proporzionato, valeva la pena di soprassedere: ma non credo che sia il caso di via Rasella. Data l’impossibilità di stabilire una regola precisa a comportamenti che solo il calcolo ponderato poteva ogni volta suggerire, la linea tra interventisti e attendisti passava in mezzo alle formazioni e ai CLN. Azionisti, socialisti e comunisti erano generalmente interventisti: ma non dimentichiamo che proprio a Roma il gruppo dei comunisti estremisti di “Stella Rossa” accusava i comunisti ortodossi di esserlo troppo poco.
La sola obiezione all’iniziativa di via Rasella che potrebbe in teoria restare in piedi è il fatto di Roma città aperta. E sarebbe valida, se non fosse dimostrato che le forze tedesche e fasciste avevano fatto di Roma una retrovia non passiva del fronte. Va nettamente respinta, infine, la tesi che gli attentatori avessero il dovere di costituirsi per evitare la rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Va respinta per due motivi. In primo luogo ho molti dubbi che quel gesto (che i tedeschi peraltro non richiesero) avrebbe ottenuto quel risultato: io penso che i partigiani che si fossero costituiti avrebbero al più ridotto di altrettante unità il numero degli uccisi alle Fosse. Si cita il caso del carabiniere Salvo: ma i precedenti in queste circostanze non fanno legge. In secondo luogo, chi avrebbe dovuto costituirsi? Coloro che decisero l’azione? Coloro che la ordinarono ai gappisti? Colui che si incaricò di organizzarla? Coloro che la eseguirono? Generalizzando siffatto criterio, e poiché le vie Rasella nel corso della lotta partigiana furono innumerevoli, in breve tempo la resistenza sarebbe stata decapitata dei suoi preziosi stati maggiori capillari.
IV – È necessario un discorso più realistico sulla resistenza: occorre tirar fuori dall’armadio non solo i contrasti interni, tra i partiti e tra le formazioni, i contrasti con gli Alleati, talora i duri contrasti con le popolazioni eccetera, ma anche le sue brutte pagine e poi anche le sue code illegittime (la Volante Rossa ecc.) che sono quelle che ebbero come conseguenza l’isolamento morale in cui, per qualche tempo, la scaltrezza democristiana è riuscita a porla. Proprio perché la Resistenza è una delle non molte pagine positive della storia d’Italia (l’immensa positività sta nell’essere riuscita a ritagliare una larga fetta di coscienza antifascista di massa nel popolo del lungo “consenso”), bisogna non avere paura di guardarci dentro e ribellarsi alle stanche apologie rituali. Qualcosa si è fatto in questi anni, ma ancora poco e non a livello divulgativo.
È lecito uccidere il tiranno?
V – Resta il tema della violenza di ieri e di oggi. A me pare indubbio che una stessa linea – quella appunto della violenza politica – unisca i carbonari, i mazziniani, Giovanni Passanante e Gaetano Bresci, i gappisti e gli odierni brigatisti rossi. È la stessa forma di lotta, è inutile cavillarci attorno. Ma se “è lecito uccidere il tiranno”, condanno le BR perché: 1) il tiranno non c’è: ritengo che gli spazi democratici di lotta che il sistema attuale ci consente siano, malgrado tutto, piuttosto ampi per chi se li voglia e se li sappia prendere; 2) è semplicistico pensare che la vastità dei problemi della nostra società possa essere risolta da una serie di atti di violenza: la violenza come scorciatoia è un errore; 3) nei progetti che le BR lasciano intravedere, relativi al dopo (cioè a Stato abbattuto), non vedo altro che la rozzezza di una spietata dittatura.
Per queste ragioni non considero affatto l’odierna violenza politica come la ripresa di una Resistenza interrotta. La Resistenza aveva obiettivi ben diversi ed operava in uno stato di necessità che non consentiva altra alternativa che la rinuncia alla lotta. Ma il discorso sul terrorismo politico che c’è in Italia è assai complesso e ci porterebbe lontani dal tema del dibattito.