No, niente fiori per l’obbedienza che è complice
di Roberto Guiducci
Ho sempre risposto ai miei studenti contestatori, che dicevano di invidiare la mia partecipazione alla Resistenza armata, che nessuna cosa “più ingiusta”, può capitare nella vita di un uomo che la necessità di dover prendere parte ad una guerra, anche dalla parte giusta. Sappiamo bene che ogni guerra non ha le sue ragioni, ma è “fuori dalla ragione”. Si nutre di processi psichici distorti e malati che fanno scambiare, quasi sempre, la “propria” incapacità di risolvere problemi e contraddizioni interne per aggressioni che vengono dall‘“esterno” secondo il meccanismo della proiezione paranoica dei propri lutti su un immaginario nemico che li avrebbe provocati, secondo la spiegazione della psicoanalisi. Tale è stato vistosamente il caso sia della Germania nazista che dell’Italia fascista. Se la Germania, che riteneva di essere strangolata dalle altre potenze capitalistiche, non avesse scatenato la seconda Guerra Mondiale, oggi sarebbe più vasta e enormemente più ricca anche se (e questa è una ulteriore prova della insensatezza della guerra) è attualmente più ricca di tutte le nazioni che hanno cooperato a sconfiggerla. In quanto all’Italia, la guerra è stata una perdita secca. Se non si è hegeliani e non si crede, di conseguenza, né alla forza “purificatrice” della guerra, né alle obbligazioni mostruose della “Storia dello Spirito”, si può fare la “storia del se”.
Se il nazismo non avesse provocato la seconda Guerra Mondiale, non solo la Germania avrebbe facilmente superato qualche anno di crisi e sarebbe entrata in un nuovo ciclo economico espansionistico, risparmiando i colossali investimenti per la sua ricostruzione, ma anche tutta l’Europa e moltissimi paesi avrebbero evitato sprechi immensi mettendosi in grado di affrontare problemi più civili e, prioritariamente, quelli della fame e delle condizioni primarie d’esistenza per il Terzo e Quarto Mondo, ecc.
Ma la guerra ha conseguenze ancora peggiori: come accennavo all’inizio, rende ingiusto anche il giusto che vi partecipa per negarla. Chi ha partecipato ad una guerra, pur dalla parte giusta antinazista ed antifascista, può testimoniare come un uomo, anche con altissimi ideali, si riduca ben presto ad un essere che vede concentrate quasi tutte le sue energie a livello di sopravvivenza semibestiale e ad usare ogni astuzia e violenza per attaccare ed uccidere l’avversario. Se viene mantenuta una “morale” giusta diversa da quella del nemico ingiusto, è perché questa morale preesisteva alla pratica della guerra stessa. La guerra tende, dunque, a fare assomigliare carnefice e vittima che si dividono fra loro più per il passato ed il futuro che per il presente.
La guerra è scoppio d’una malattia profonda
Come abbiamo visto, la psicoanalisi ha identificato l’elemento scatenante delle guerre nella proiezione paranoica dei propri lutti o perdite o difficoltà su un immaginario nemico esterno. Ma la psicoanalisi non sembra spiegare perché alcuni popoli effettuano frequentemente queste proiezioni, altri meno frequentemente ed altri, infine quasi mai o mai. L’antropologia e la sociologia chiariscono il problema dimostrando, come ha fatto ad esempio Adorno, che la guerra matura “prima” della guerra nella struttura della famiglia, nell’educazione, nelle forme del potere effettivo.
La guerra non è che lo scoppio di una malattia profonda e capillare incubata a lungo nella società che pratica o subisce un certo tipo di potere autoritario. Dove le istituzioni fondamentali di una società sono autocratiche e verticistiche, la tensione alla guerra è sempre presente, così come la guerra è sempre latente dove esistono istituzioni autocratiche e verticistiche.
Ma c’è di più. I centri di potere autocratici e autoritari hanno interesse che esistano sempre guerre principali o secondarie o tensioni di confine, o scontri o questioni irrisolte, anche contro gli interessi del proprio paese, e praticano investimenti aberranti in armamenti sia per far proiettare all‘“esterno” i lutti per le perdite causate dalle loro stesse politiche “interne” disastrose e parassitarie, sia per creare una continua usura negli oppositori, intrinsecamente pacifisti, costretti ad usare le »stesse armi. Così il nazismo ha reso, ad esempio, peggiori i francesi portandoli alle efferatezze in Algeria e gli americani conducendoli alla guerra in Vietnam. E così via di seguito, in un contagio e in una reazione a catena che attraversa il mondo contemporaneo. Questo mondo capovolto crede intanto, illusoriamente, di vivere la Pace dei Trent’anni e sta, invece, conducendo la Terza Guerra Mondiale con 50 milioni di morti di fame e di stenti all’anno di fronte ai quali i 6 milioni di ebrei sterminati nei forni a gas diventano, paradossalmente, un episodio limitato e marginale. Di fronte a questo proliferare della “violenza della violenza”, il mondo si appiattisce e trema secondo il disegno dei Grandi Poteri, la coscienza si ottunde, la proposta alternativa suona debole utopia, la ragione (non-violenta per definizione) appare impotenza e rinuncia. Credo siano simili a questi anche i ragionamenti nonviolenti di Marco Pannella. Ma perché, allora, non esprimerli razionalmente?
Il caso di Via Rasella può (deve) essere esaminato nel contesto di un quadro complesso di analisi della violenza e della guerra. Altrimenti ogni cosa rischia di confondersi.
Si può condividere quello che dice Pannella quando sostiene che: “nella ricerca tragica e drammatica di affermare i grandi valori socialisti, pensammo di affermarli anche a Via Rasella. Allora era quello il modo giusto, ma non è un oltraggio dire che per domani le cose devono essere diverse”. Ma io non desidero “portar fiori” sulle tombe di quei 40 ragazzi (i sudtirolesi dell’esercito nazista, uccisi nell’attentato di via Rasella), “uomini che avevano delle madri, delle mogli, dei figli, che erano capaci di pensare, di sentire, di baciare”. E non desidero portar fiori a quei giovani perché i giovani, venuti dopo di loro, sappiano bene come i loro predecessori erano stati allenati dal nazismo e sacralizzare le “loro” mogli, le “loro” madri, i “loro” figli, ma a violentare o massacrare, senza la minima titubanza, le madri, le mogli, i figli degli altri, esattamente come il Capitano Dorf del film Olocausto. Essi non sapevano più né pensare, né sentire, né amare come uomini, ed erano alienati fino all’insensibilità totale verso le più elementari forme di pietà umana.
E chi ripetesse queste cose, accettando i comandi dall’alto, dovrebbe sapere subito, a mio parere, che non avrà mai fiori assolutamente da nessuno. Preferirei che la polemica su via Rasella si chiudesse dietro il sipario delle passate elezioni, e che il discorso essenziale sulla non-violenza si approfondisse e si radicasse con respiro più ampio. Il nazismo è di soli trent’anni fa, e si può ripetere, come infatti è accaduto e sta puntualmente accadendo in infinite varianti di stragi, violenze, persecuzioni, torture, condanne a morte fino al genocidio, che dilacerano, in ogni sua parte, il mondo attuale.