Proposta Radicale 2/3 2022
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Obituaries

Donato Di Veroli

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Raffaele La Capria

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Eugenio Scalfari

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Tre note di Leonardo Sciascia

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Addio caro Marco. Noi, i primi radicali sempre insieme per le battaglie civili

di Eugenio Scalfari

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Don Pietro Sigurani

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Donato Di Veroli

Donato Di Veroli

Buono e mite, quella la sua forza”. Così lo storico Marcello Pezzetti “saluta” Donato Di Veroli, l‘ultimo degli ebrei romani sopravvissuti alla Shoah e ai campi di sterminio nazisti, morto a 98 anni a Roma. La storia di Di Veroli, deportato ad Auschwitz, è poco conosciuta, lui la conservava nella sua nota riservatezza. Pezzetti lo intervista nell’ottobre del 1995. In quell’occasione condivide con lo storico la sua memoria. Dopo la Liberazione, Donato testimonia al processo nei confronti di Friedrich Bosshammer, responsabile della deportazione degli ebrei italiani dopo il 16 ottobre. “La sua famiglia era composta da otto fratelli oltre i genitori”, ricorda Pezzetti. “Abitavano a Piazza Campitelli, proprio vicino al cuore della Roma ebraica. Già nel ’42, quando aveva 18 anni, era stato arrestato e costretto a lavorare, come tanti altri, sotto il Tevere. Fu anche portato a Regina Coeli, dove è rimasto 15 giorni”. Con le deportazioni del 16 ottobre 1943, Di Veroli, assieme al fratello, decide di nascondersi. Torna a casa dopo qualche giorno, per sopravvivere prende un cavallo che usa per piccoli lavori di trasporto. Due fascisti in borghese lo arrestano. Portato a via Tasso dove subisce di tutto, poi a Regina Coeli, infine deportato a Fossoli; di lì ad Auschwitz. I prigionieri sono costretti a lavorare tutto il giorno nudi, esposti a temperature insostenibili, in condizioni spaventose. Racconta: “Ogni giorno morivano 3 o 4 persone. Ma il ricordo più forte è quello delle selezioni interne: alla sera i prigionieri arrivano sfiniti, e i nazisti li selezionano per scegliere chi mandare a morire nelle camere a gas. La prova più dura per lui era mostrarsi ancora in grado di lavorare”. Dopo Auschwitz il trasferimento in un altro campo, nell’aprile del ’45 è liberato a Dachau. Negli anni ’70 testimonia al processo Bosshammer: cercavano testimoni diretti delle violenze. Rintracciano Donato e gli chiesero di andare a Berlino per testimoniare. Vince la sua innata riservatezza, va a Berlino, racconta in modo dettagliato, meticoloso. Lui per primo si stupisce della sua resistenza: ‘Non so come ho fatto a ritornare. Continuavo a prendere botte e non sono mai morto”.

Raffaele La Capria

Raffaele La Capria

Una fotografia: ritrae Raffaele La Capria e Alberto Moravia su una barca. Sono fermi in mare. Ricorda La Capria: “Nonostante la giornata stupenda, Alberto mi guarda preoccupato: ‘Secondo te, pioverà?’, mi chiede assurdamente. Questo era Moravia, pessimista fino all’ inverosimile”.

E La Capria? Anche lui. Poi spiega: “La verità è che in letteratura si deve trovare un equilibrio tra pessimismo e ottimismo, tra felicità e dolore. Pensi al mio romanzo ‘Ferito a morte’: all’inizio tutto splende, poi accadono piccoli eventi che fanno capire che la bella giornata tanto bella non è. C’ è in ognuno di noi un’attesa di felicità, poi la vita trascorre e la felicità certe volte diventa dolore”.

Ricordi La Capria, morto a giugno quasi centenario, e si cita immancabilmente “Ferito a morte”, premio Strega 1961. Straordinario romanzo, ma La Capria ha scritto una ventina libri, e almeno quattro dello stesso livello di “Ferito a morte”.

Da Napoli, forse è un luogo comune, alla fine si fugge. L’hanno lasciata in tanti. Anche La Capria si trasferisce a Roma. Una questione molto pratica: “Avevo bisogno di un lavoro, a Napoli non lo trovavo”.

Molto semplice; e tuttavia aver scelto Roma viene addebitato come una sorta di tradimento. La Capria arriva a Roma nel 1952. Bussa alla RAI. “Non ho nessuna attitudine al lavoro. L’unica cosa che so fare è, bene o male, usare le parole”. La Capria comincia a visionare i copioni degli sceneggiati; poi diventa anche lui sceneggiatore: per Francesco Rosi (“Mani sulla città”, “Cristo si è fermato a Eboli”), e altri importanti registi.

Di sé, diceva: “Sono drammatico più che melodrammatico”. Un “essere” che contrasta con l’immagine bonaria che si ha di La Capria. Però avverte: “I miei libri parlano continuamente della morte. La verità è che nessuno li ha letti in modo da comprendere il cammino che ho fatto. Chi, come me, ama molto la vita e si immedesima con la natura sa che la morte è solo l’altra faccia. Mi struggo perché so che tutto sfugge e la pienezza non dura. E che ogni prova del morire si lega alla rinascita”.

La Roma di La Capria è quella degli anni ’60, città fantastica, all’epoca culturalmente entusiasmante: “C’erano Ennio Flaiano, Mario Soldati, Moravia, Elsa Morante…”.

Flaiano: “Altro che battutista, aveva il cuore nero di disperazione. A lui si può applicare la bellissima frase di Proust: la psicologia è nata in provincia”.

Moravia: “Pessimismo a parte, era di un’ingenuità disarmante. Ma sapeva dire cose illuminanti in modo semplice”.

Morante: “Donna straordinaria, capace di imporsi con un sol gesto. Mi voleva bene e ogni volta che mi presentava a qualcuno diceva: ecco il poeta La Capria. Era del tutto inutile che io ricordassi che non ero un poeta, semmai uno scrittore. L’ho detto io, e questo basta, replicava Elsa”.

Pasolini: “Non credo che mi amasse molto. Pensava che i borghesi erano dei fetenti e siccome a me piaceva vestire con eleganza, mi guardava con un certo disappunto. Del resto, non facevo nulla per ingraziarmelo. Sono troppo orgoglioso. Però ammiravo non tanto l’opera, quanto il ruolo che ha saputo svolgere. Secondo me non ha scritto niente di importante sul piano del romanzo, ma i suoi interventi civili furono in largo anticipo sui tempi”.

Goffredo Parise: “Seppe opporre il sentimento all’ideologia. Credeva al momento illuminante della scrittura senza sbandare nel sentimentalismo. In tal senso i ‘Sillabari’ furono una grande prova letteraria”.

Rosi: “È stato il mio amico più caro, con lui in ottant›anni non ho mai perso i contatti. Ci sentivamo quasi tutti i giorni. Ma con un amico si scambiano i sentimenti, Franco e io abbiamo lavorato insieme, dunque all›affetto abbiamo aggiunto la consuetudine delle idee”. Lo stesso mare, lo stesso liceo, l’Umberto, gli stessi amici: Peppino Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Francesco Compagna...”.

Tanti devono tanto, a Raffaele “Dudù” La Capria. Ci restano i loro libri, la dolce melanconia nel risfogliarli, per cogliere la profonda “leggerezza” che li rende vivi.

Tante volte La Capria e la moglie, Ilaria Occhini, sono stati vicini al Partito Radicale, hanno sostenuto le battaglie politiche di Marco Pannella.

Su questo e su altro, il lettore sappia che c’è una straordinaria conversazione di La Capria e Maria Antonietta Farina Coscioni, per la sua rubrica “La nuda verità”, andata in onda su “Radio Radicale”.

Eugenio Scalfari

Eugenio Scalfari

Del “padre-padrone” di “Repubblica”, morto il 14 luglio a 97 anni, s’è detto e scritto tanto. Inevitabile. Senza condividere il “santino” che molti gli hanno ritagliato, il personaggio indubbiamente si è conquistato un posto importante nella storia recente di questo paese, e non solo per essere stato l’artefice, il fondatore e a lungo il direttore di quel fenomeno editoriale che si chiama “Repubblica”. Cosa aggiungere senza ripetersi? Burrascosi i rapporti con Leonardo Sciascia e con Marco Pannella. Ecco di seguito alcune “schegge” che lo scrittore di Racalmuto ha dedicato a Scalfari; e l’articolo-commiato che Scalfari scrive in occasione della morte di Marco. Crediamo sia una utile ri/lettura.   

Tre note di Leonardo Sciascia

Tre note di Leonardo Sciascia

Su “La Repubblica” di domenica, 17 settembre (1978, ndr), Eugenio Scalfari dedica al mio libro sull’Affaire Moro quello che una volta si chiamava articolo di fondo. Libro che non ha ancora letto, poiché uscirà tra un mese: ma ritiene di poterlo già giudicare sulla base di due mie interviste all’“Espresso” e a “Panorama”, non ancora integralmente pubblicate. Il meno che io possa dire è che è stato un po’ impaziente, un po’ frettoloso. Se fosse stato più paziente, se avesse avuto meno fretta, nel libro avrebbe trovato di meglio e cioè, dal suo punto di vista, di peggio. Sulla base di quel tanto delle interviste che è stato diffuso dalle agenzie di stampa, Scalfari ha riassunto in quattro punti quelle che chiama le mie conclusioni. I primi due sono abbastanza approssimativi: ma il terzo e il quarto non credo si possano fondatamente estrarre da quello che ho scritto nel pamphlet e da quello che ho dichiarato nelle interviste. Del resto, proprio nello stesso numero di “Repubblica”, seconda pagina, c’è un corretto resoconto delle interviste: e vien fuori chiaramente che non ho detto, come invece Scalfari afferma nell’articolo di fondo, che i partiti e gli uomini che non vollero le trattative con le Brigate Rosse sono “i veri responsabili della morte fisica” di Moro. Debbo dedurne che Scalfari non legge “La Repubblica”?

(Nero su nero, Torino, Einaudi 1979 – Pag. 223)

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Scalfari è un personaggio maupassantiano (Savinio direbbe malpassantiano): piuttosto greve, nonostante l’apparenza. E a quale dei personaggi di Maupassant più rassomiglia, lo lascio da indovinare ai lettori. La leggerezza, la sottigliezza, l’ironia non sono dunque tra le sue doti. La chiarezza sì, innegabilmente: e specialmente quando spiega le cose che non capisce. Credo poi abbia il piccolo difetto di arrabbiarsi, di prender fuoco subito: il che nuoce alla riflessione e impedisce quel distacco che genera l’ironia. Da quando ho scritto “L’Affaire Moro” Scalfari è molto preoccupato nei miei riguardi. Da prima che lo pubblicassi, anzi. Non so proprio cosa fare per rassicurarlo. Posso raccomandargli una rilettura de “L’Affaire Moro”? Credo che si offenderebbe: lui l’ha giudicato prima di leggerlo, e i giudizi più assoluti e inamovibili sono appunto i pregiudizi. Mi proverò a scrivere altri libri: ma temo non gli piaceranno. Niente ormai di quello che io scrivo o faccio può piacergli. 

P.S. Scalfari sostiene che uno della trimurti (Andreotti-Pajetta-Scalfari) è stato sempre contrario al compromesso storico. Io non riesco a individuarlo. Forse ce n’è un quarto. Del resto, anche i tre moschettieri erano quattro.

(Corriere della Sera, luglio 1980)

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In quanto a quelle che Scalfari chiama “sortite” capisco benissimo che non gli passi per la testa il sospetto che si possa scrivere che per null’altro che per amore della verità. È vero che sono troppe le mie “sortite” che sono andate incontro a polemiche, risentimenti, riprovazioni e perfino diffamazioni e calunnie. Calunnie alla don Basilio (pertinente richiamo, a pensarci bene). Ma che posso farci? Come Shaw diceva che i negri prima li si costringe a fare i lustrascarpe e poi si dice che sanno solo fare i lustrascarpe, prima mi si attacca e poi mi si fa il rimprovero di essere attaccato. Io ho dovuto fare i conti da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità. Ho sessantasette anni, ho da rimproverarmi e da rimpiangere parecchie cose; ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari. Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza. Ma si è come si è. 

(“La Stampa”, 6 agosto 1988)

Addio caro Marco. Noi, i primi radicali sempre insieme per le battaglie civili

Addio caro Marco. Noi, i primi radicali sempre insieme per le battaglie civili

di Eugenio Scalfari

Ci siamo conosciuti per un’intera vita ma siamo andati d’accordo poche volte, quando si lottava per la conquista di nuovi diritti: soprattutto il divorzio e l’aborto. Io accanto ai diritti vedevo anche i doveri; Marco i doveri li vedeva poco o niente, anzi per essere esatti vedeva i doveri dello Stato (anch’io ovviamente) ma assai meno o per niente quelli inerenti ai cittadini. Ora che la sua morte mi dia dolore è dir poco: come capita spesso è un pezzo della vita che se ne va. Ne resta la memoria, ma ciascuno ha la propria, che cambia di giorno in giorno e non coincide mai con quella degli altri.

Il fatto saliente che ci ha accomunato è stato il Partito radicale. In Italia, come in Francia e in Spagna, i radicali ci sono sempre stati. Erano un partito di sinistra con matrice liberale. Negli altri Paesi di ceppo inglese e tedesco la parola “radical” equivaleva e tuttora equivale al comunismo. In Italia tuttavia la radice liberale ha molti significati e molte parole che li definiscono: liberale, libertario, libertino.

Noi di matrice crociana ed anche gobettiana eravamo liberali di sinistra; di fatto discendevamo dal Partito d’azione e dallo slogan partigiano di Giustizia e Libertà. Marco era soprattutto libertario, cioè la libertà come valore unico da praticare in tutti i modi. Per fornire un esempio una donna come Ilona noi non l’avremmo mai collocata al vertice del partito e non ne avremmo appoggiato il suo ingresso alla Camera dei deputati.

I nostri antenati erano storicamente Cavallotti e i garibaldini della “legione lombarda”: i Cairoli, i Dandolo, i Manara. Marco, forse anche a lui piacevano ma non in modo particolare. Lui piaceva soprattutto a se stesso, convinto com’era che il vero radicalismo cominciasse da lui e dai suoi compagni.

Liberali lo eravamo tutti, Marco soprattutto nel suo modo di vita, noi in parte allo stesso modo ma in maggior parte col pensiero. Per noi il libertinaggio intellettuale era quello di Voltaire, di Diderot, di Mirabeau, di Condorcet e poi di Roosevelt e di Churchill. Dunque la nostra pasta umana era molto diversa dalla sua.

Accadde poi che nel 1956 noi, “Amici del Mondo” fondammo il Partito radicale: Pannella e un gruppo di suoi amici che militavano nell’associazione goliardica di sentimenti laici chiamati Ugi (Unione goliardica italiana) entrarono nel nostro partito nel ‘58 ma furono sempre un gruppo in qualche modo estraneo. Nelle riunioni di partito alle quali partecipavano presentavano fin dall’inizio mozioni di procedura preliminare ostacolando a dir poco per un’ora l’inizio della discussione politica alla quale partecipavano poco e poi abbandonavano la riunione manifestando esplicitamente un’assoluta indifferenza verso i temi da noi esaminati. Salvo – come ho già detto prima – quando si trattava di nuovi diritti da conquistare: allora eravamo tutti uniti e combattevamo con passione il difficile tema cercando di diffonderlo il più possibile nella pubblica opinione e poi con altri mezzi costituzionali: progetti di legge di iniziativa popolare, dimostrazioni di piazza in tutta Italia, iniziative referendarie. 

Eravamo pochi di numero ma ci moltiplicavamo lavorando in tutte le ore del giorno e della notte. Avvenne poi che nel 1962 il nostro Partito radicale si spaccò sul tema dell’apertura a sinistra. Alcuni di noi volevano i socialisti al governo con la Dc e i repubblicani; altri accettavano solo un appoggio esterno dei socialisti. La soluzione fu che tutti i radicali decisero di dimettersi dal partito e così cessò di esistere. Ma Pannella e i suoi quattro amici no, restarono e rifondarono il partito. Mantenendogli il nome ma cambiandone radicalmente il contenuto fino ad oggi, guidati da Marco, da Emma Bonino e da qualche altro di cui purtroppo non ricordo il nome.

  Da allora non ci incontrammo più, salvo nelle occasioni del divorzio e dell’aborto anche perché Marco voleva essere in Parlamento con qualcuno dei suoi e per ottenere questo risultato ne fece di tutti i colori: scioperi della fame, poi della sete, alleanze politiche ed elettorali con personaggi centristi e cattolici, un paio di volte addirittura con Berlusconi. Naturalmente non ne condivideva le idee e proprio per questo una alleanza elettorale faceva ancor più chiasso perché ciascuno sosteneva tesi diverse dall’altro ma tuttavia si presentavano insieme davanti ai cittadini.

Qualcuno oggi lo paragona a Grillo. Qualche somiglianza c’è ma le distanze sono molte. Sono due attori, Grillo professionista, Pannella dilettante. Grillo ha politicamente lo scopo di abbattere tutte le istituzioni esistenti, quello che verrà dopo si vedrà. Pannella voleva invece cambiarle, ma non distruggerle e spingere ed allargare il più possibile il tema dei diritti per ottenere i quali avrebbe preso qualunque iniziativa. Diritti soprattutto sociali. Per questo è andato a trovare perfino il Papa. Chi lo conosce sa che Marco non si è mai posto il problema dell’aldilà. Lui credeva soltanto nella vita. Amava i viventi e desiderava che tutti l’amassero. Non ha mai avuto il problema del potere ma quello della notorietà, quello sì.

Quando faceva lo sciopero della fame che dopo qualche giorno diventava anche quello della sete, l’ha fatto quasi sempre sul serio. Gli costruivano una tenda all’interno della quale riposava con un medico sempre accanto e gli amici che si avvicendavano per venirlo a trovare. L’obiettivo che lui aveva per fermarsi dallo sciopero era di ottenere il successo sulla tesi che in quel modo stava sostenendo.

Ricordo molto bene la prima volta del suo sciopero della sete. Era buona stagione e c’era il sole. Marco aveva chiesto di essere ricevuto dal Presidente della Repubblica che era allora Giovanni Leone nella sua qualità di segretario del Partito radicale, ma non c’era in quella legislatura alcun radicale in Parlamento.

Leone rifiutò. Era disponibile a riceverlo come persona, ma non in quella pubblica veste altrimenti avrebbe creato un precedente per un qualunque cittadino con la voglia di essere ricevuto al Quirinale inventandosi un partito inesistente e con quella motivazione incontrare il Presidente. Naturalmente Pannella proprio quello voleva e tanto più in quanto i radicali in Parlamento in quel momento non c’erano, ma la carica sì ed era questo che doveva contare.

A quel punto il Presidente Leone mi convocò, sapeva che conoscevo Pannella molto bene e voleva conoscere la mia opinione in merito. Era il 1971 ed io ero deputato socialista.

Andai. La scusa era una mia opinione sull’andamento della lira perché io mi interessavo molto di temi economici, ma in realtà arrivammo subito al problema Pannella. Leone mi domandò se fosse possibile che spingesse la situazione fino al punto di essere in grave pericolo di morte. “Il rischio c’è, l’ha detto anche il medico, ma che Pannella lo voglia credo di poterlo escludere. Però bisogna stare molto attenti ad una vita spinta fino al limite dell’esistenza”. “Lei sa qual è l’ostacolo, l’ho detto pubblicamente” “Sì lo so, ma una via d’uscita si può trovare. Pannella è anche presidente di molte associazioni importanti. Lei può riceverlo per quelle sue cariche aggiungendo che è anche segretario del Partito radicale”.

Così andarono le cose e Marco ottenne quel successo per il quale aveva sfiorato il peggio. Del resto altri scioperi della sete ne ha fatti e sono sempre terminati come lui sperava. Che sia stato un grande attore l’ha ancora una volta dimostrato perché alla vigilia della morte, stavolta inevitabile, ha trasformato la sua casa in una sorta di locale di festa tra amici, con lui protagonista.

Non ci sono morti, l’ho già detto, ma momenti in cui il grande attore regala a se stesso e ai suoi amici il divertimento nei limiti in cui ancora può. Ha vissuto col gusto di vivere ed ha voluto che anche gli altri facessero lo stesso da questo punto di vista non ha mai considerato che cosa sarebbe accaduto o non accaduto dopo. Alla fine arriva sorella Morte e tutto è finito.

 

Don Pietro Sigurani

Don Pietro Sigurani

Sacerdote di strada, per lui contava il Vangelo; soprattutto andava praticato, e “non si può interpretare come si vuole”. Don Pietro Sigurani, 86 anni, per anni è stato rettore della basilica di Sant’Eustachio, nel cuore del centro storico romano, fra il Pantheon e Palazzo Madama. “Anch’io facevo il benefattore cercando riconoscenza”, ha detto una volta. Poi mi hanno convertito i poveri. O si serve con cuore gratuito o non serve”. Nei sotterranei della basilica realizza la “Casa della Misericordia”. È un centro di ascolto, di assistenza legale e medica, di accoglienza con docce e lavanderia e l’“Università degli scartati”: “Perché ai poveri non bisogna dare solo pane, ma anche sollevare lo spirito. Se un piatto di pasta riempie la pancia, il caffè scalda il cuore, il sapere la mente”. Nessuna tessera d’ingresso: “La mensa l’abbiamo costruita sotto la chiesa, perché tutto deve partire dalla mensa eucaristica”. Nella “Domus caritatis” anche un dormitorio per venti persone, uno studio medico con macchinari per le malattie cardiovascolari, servizi doccia e vestiari, un avvocato e un centro di ascolto. “Nella basilica”, ricorda il nipote Stefano, “toglieva i banchi e allestiva le tavolate per i poveri”. Un giorno qualcuno lascia un cartello sul cancello della basilica: “Caro reverendo la chiesa è la casa del Signore, non dei poveri! Risponderai davanti a Dio dei sacrilegi/profanazioni compiuti in questa chiesa”. Lui non se la prende: “Gesù ci invita a non giudicare per non essere giudicati”. Povero fra i poveri, racconta Gian Paolo Pertici, il più vecchio diacono di Roma, sempre rimastogli al fianco: “Ha costruito una comunità di persone che grazie a lui hanno scoperto come solo l’amore possa realizzare l’uomo, credente o meno”.

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