di Michele Minorita
Una vita tormentata e avventurosa come poche e come ne accadevano negli anni del Risorgimento italiano, quella di Giuseppe Mazzini; si conclude il 10 marzo del 1872, centocinquanta anni fa, a Pisa: è tornato clandestinamente in Italia, sotto il falso nome di Giorgio Brown; stanco, malato, vive nascosto nella casa di Pellegrino Rosselli, antenato dei fratelli Carlo e Nello, e zio della moglie di Ernesto Nathan, mitico sindaco di Roma. La notizia della morte commuove l’Italia. Agostino Bertani incarica lo scienziato Paolo Gorini della delicata operazione di imbalsamare il corpo, che viene esposto all’omaggio di una folla immensa. Poi il feretro prende la via della città natale, Genova. Mazzini ora riposa al cimitero monumentale di Staglieno. “E un popol morto, dietro di lui si mise”, scrive Giosuè Carducci, che detta l’epigrafe sulla tomba e lo definisce “l’ultimo dei grandi italiani antichi, e il primo dei moderni”.
Mazzini, al pari di tanti eroi risorgimentali, è noto; ma nonostante sia uno dei grandi protagonisti del Risorgimento italiano con Cavour e Garibaldi, è tuttavia pochissimo conosciuto. Anche i centocinquant’anni della morte: poteva e doveva essere l’occasione per ricordarlo, almeno nelle scuole. Presi da altre certo gravose incombenze il 10 marzo è “scivolato” tra l’indifferenza dei più.
Lo storico Pier Franco Quaglieni in parte colma la lacuna curando la pubblicazione di della sua opera fondamentale, i “Doveri dell’uomo”, opera, la definisce Massimo D’Azeglio, che assieme al “Cuore” Edmondo De Amicis (altro autore da recuperare), durante e dopo il Risorgimento ha grandemente contribuito a “fare gli italiani”. Un’elegante edizione, impreziosita da una copertina disegnata da Ugo Nespolo e arricchita da un inedito di Renzo De Felice sui rapporti tra Mazzini, Marx e il socialismo.
La pubblicazione è accompagnata da un prezioso saggio di Renzo De Felice, “Mazzini e il socialismo”. Qui soccorre Dino Cofrancesco professore emerito di Storia delle dottrine politiche: “Ha scritto De Felice che «gli echi, la presenza di Mazzini, nel suo pensiero e più in genere, del suo insegnamento morale, più che nelle file del socialismo ufficiale e maggioritario, vanno ricercati nelle “frange” del nostro socialismo, tra i critici, gli eterodossi, coloro che passarono per l’esperienza socialista e la superarono o la vissero su posizioni marginali». In realtà, non si è trattato di ‘frange’ ma di una ‘scuola di pensiero’ e di una corrente politica e ideale di cui si è persa la memoria storica. Il discredito dell’idea di patria dovuto all’ultimo fascismo-razzista e ‘alleato’-ha provocato una profonda (forse insanabile) frattura tra il socialismo democratico pre-1914 e le varie figurazioni del socialismo post-1945, influenzato dall’idealismo e da un marxismo antipositivista, sempre più lontano dall’idea di nazione e meno disposto a riconoscerne le varie ‘familles spirituelles’…”. (Il brano appena citato è uno stralcio di un più ampio articolo del professor Cofrancesco pubblicato su “Huffington Post” del 1 giugno scorso).
I “doveri”, premessa indispensabile e imprescindibile per l’affermazione dei necessari “diritti”. Richiamo più che opportuno e necessario: forse più oggi di quando, nel 1860, vengono pubblicati per la prima volta:
“Colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli; ma non fondare forte e durevole l’armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione. Colla teoria della felicità, del benessere dato per oggetto primo alla vita, noi formeremo uomini egoisti, adoratori della materia, che porteranno le vecchie passioni nell’ordine nuovo e lo corromperanno pochi mesi dopo. Si tratta dunque di trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti. E questo principio è il DOVERE. Bisogna convincere gli uomini ch’essi, figli tutti d’un solo Dio, hanno ad essere qui in terra esecutori d’una sola Legge – che ognuno d’essi, deve vivere, non per sé, ma per gli altri – che lo scopo della loro vita non è quello di essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori – che il combattere l’ingiustizia e l’errore a beneficio dei loro fratelli, e dovunque si trova, è non solamente diritto, ma dovere: dovere da non negligersi senza colpa – dovere di tutta la vita”.
Grazie al professor Quaglieni un’occasione per riflettere sul pensiero mazziniano e la sua attualità. Non la si sprechi.
Pier Franco Quaglieni (a cura),
Giuseppe Mazzini, i doveri dell’uomo, Pedrini edizioni.
di Gu.Do.
Perché, una volta letto “Ma tutti gli altri giorni no”, viene in mente la commedia “Trovarsi” di Luigi Pirandello? Bizzarro, extravagante, associazione; ma…chissà. Al di là dei personaggi immaginati da Pirandello (Donata Genzi, Elj Nielsen, il conte Gianfranco Mola…), il problema, la questione posta è che ciascuno di noi ha una sua identità che molto spesso non collima, anzi stride con l’immagine che gli altri, l’“esterno”, percepiscono, colgono, intendono. Qual è la vera “identità”? Quella che appartiene alla persona per come sente di averla e cerca di manifestarla, o quella che viene percepita e vista?
Torniamo al libro. Due gli autori. Il primo, Giancarlo Governi è tante cose: scrittore, giornalista, autore di fortunati e storici programmi televisivi (uno per tutti: “SuperGulp!”), straordinario affabulatore e narratore di storie. Alla sua penna e alla sua parola si devono biografie di Alberto Sordi, Totò, Anna Magnani, Oliver Hardy e Stan Laurel, Fausto Coppi; ma anche “Hai visto passare un gatto nero”, storia di giovani uomini e donne che lasciano affetti, lavoro, scuola, sicurezze per difendere con le armi, a costo della vita, la dignità e la libertà; la loro, la nostra.
Massimiliano Governi è il figlio di Giancarlo. Ma già qui si corre il rischio di far cadere in errore. Perché si può dire: Massimiliano è il figlio di Giancarlo. Ma anche: Giancarlo è il padre di Massimiliano. Lui pure scrittore: più raccolto, più “intimo”; del resto, per lui parla la sua produzione letteraria: “Il calciatore”, “L’uomo che brucia”, “Parassiti”, per citare alcuni titoli.
“Trovarsi”: sono i giorni, anzi i mesi della pandemia, del lockdown; c’è una sorta di muro che divide padre e figlio che si vogliono comunque bene e non chiedono altro che di scambiarsi la parola che in un suo famoso scritto Marco Pannella dice essere quella “che si ascolta e che si dice, i racconti che ci si fa in cucina e a letto…quando si vuol essere onesti ed essere davvero capiti…”. Proprio la “divisione” e l’isolamento pandemico provoca lo sgretolare del muro che divide i due Governi: il “trovarsi” di un padre e di un figlio, che si scioglie in un dialogo liberatorio.
Dialogo che diverte, strappa sorrisi, ma anche commuove, non mancano le pagine di dolce malinconia. Tanti nomi, personaggi, fatti, situazioni che filtrati con la bonomia e il disincanto di chi tante ne ha viste e vissute; e sa cogliere il bello e il buono anche da quello che appare brutto e cattivo, da una parte (il padre). Dall’altra, l’iniziale confessione di Massimiliano: “Ma il motivo per cui una scintillante mattinata di fine ottobre del 2020 ti ho chiesto di iniziare una conversazione intima, un viaggio nella memoria, con me, non lo so nemmeno io…” (pag.9). Però – forse è arbitrario, una suggestione – si faccia un salto di un centinaio di pagine. Massimiliano racconta di aver avuto un tempo una fidanzata, una storia che poi finisce, e lui ne soffre. Accade poi che la ragazza vada a pranzo con Giancarlo; pensa (e “confessa”) Massimiliano: “…le avevi parlato, forse per convincerla a richiamarmi o chissà per quale motivo. Questa è una di quelle cose che non ti ho mai detto. Ora posso chiedertelo: come ti è venuto in mente? Perché diavolo l’hai fatto?”.
Immaginatelo Giancarlo, la sua espressione, gli occhi sgranati per lo stupore, trasecola dispiaciuto: “È preoccupante questa cosa che mi dici, dopo 35 anni. Vuole dire che hai covato del rancore verso di me, inutilmente. Forse la signorina di cui parli tu l’avrò incontrata nello stesso ristorante dove mangiavo tutti i giorni perché era vicino alla RAI. Magari lei mi avrà riconosciuto e si sarà seduta al mio tavolo per fare due chiacchiere, tutto qui…”.
Ecco: il pirandelliano “trovarsi” che dunque, forse non è richiamo del tutto arbitrario. Quanto al libro: è uno straordinario “gioco”: la curiosità di Massimiliano che vuole capire Giancarlo; e Giancarlo che vuole a sua volta capire, non solo farsi comprendere. Sullo sfondo il paese che siamo, che eravamo, che non vorremmo sia, che ci auguriamo possa essere. Ricordi, sogni, aspirazioni, delusioni, desideri. E infine la si butta lì: quella bobina con il brigadiere che aveva in custodia il carcerato Antonio Gramsci, sarà sparita? È conservata in qualche oscuro ripostiglio dell’Istituto/Fondazione Gramsci? Dà ancora fastidio quell’aver voluto specificare: “Fede politica: socialista”?
Giancarlo e Massimiliano Governi,
“Ma tutti gli altri giorni no”, Nutrimenti edizioni.
di Va.Ve.
Una delle chiavi di lettura di questa raccolta di saggi (ce ne sono tante e di sorprendenti), è a pagina 50. Una nota del 12 settembre 2011, “La poesia è un ticchettio necessario”. Si parte da Eugenio Montale, a una questione apparentemente oziosa, l’utilità della poesia: “Non è e non sarà mai utile, perché è e sarà sempre necessaria…”. Utilità: spesso superflua; necessità: imprescindibile, qualcosa di cui non si può fare a meno.
Luigi Tassoni è critico e semiologo. Fino a qualche mese fa docente di letteratura italiana all’Università di Pécs, membro dell’Accademia ungherese delle Scienze. Un curriculum denso di pubblicazioni che spaziano da Dante a Jacques Derrida; da Leonardo Sinisgalli a Mino De Angelis; una passionaccia per Mattia Preti, pittore calabrese errabondo, tra i principali esponenti del barocco italiano.
In questo suo “Diario di lettura e di letteratura” (da intendere anche in senso letterale), Tassoni ci rende partecipi di una sua abitudine di sempre: annotare e “recensire” in “un quaderno con la copertina nera alcuni pensieri” che si affastellano nel corso delle molteplici e varie letture. Abitudine che dall’adolescenza si è protratta fino alla piena maturità; cosicché Tassoni ha finito col trovarsi tra le mani “centinaia di quaderni di diversi colori”.
Operazione “manuale/intellettuale” grazie alla quale Tassoni comprende che “una cosa è pensare e basta, e un’altra cosa è ragionare scrivendo, là dove il discorso si organizza seguendo sue proprie traiettorie, che con impegno occorre imparare a riportare sul piano di un’enunciazione concreta, senza affollamenti, cercando di sviluppare un punto alla volta”.
Eccoli sfilare sotto i nostri occhi, sapientemente chiosati, Leonardo Sciascia e la sua “ossessione”, la memoria (“È ciò di cui hanno maggiormente bisogno le nuove generazioni…”); Mario La Cava (“pazientemente convinto che occorrano gesti non eclatanti, ma coerenti, costanti e assolutamente non teatrali e non nati per amore degli effetti”); Andrea Zanzotto (“Per la mia generazione ha rappresentato il legame segreto, come sono segreti i meandri del discorso, fra l’ironia e l’impegno, il paradosso e la necessità, la gioia e la tragedia”); e ancora, Sàndor Màrai, Lorenzo Calogero, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Georges Simenon e le pipe del “suo” Maigret; Peter Esterhàzy, De Angelis, Giacomo Leopardi (il suo “Infinito” non è poesia dolce, “è un testo sconvolgente che fa tremare i polsi”); Imre Kertész, Italo Calvino…
A proposito dell’amato De Angelis, la nota del 6 giugno 2015, comincia con una riflessione che ne scatena decine di successive, a catena: “Nell’epoca della tecnologia invasiva, dell’economia dell’apparenza, degli assolutismi fratricidi, proprio il paradosso del suo essere avamposto della coscienza, la poesia è l’unico spazio in cui si sperimenti ad oltranza il senso del tempo presente, la poesia è l’unica possibilità di parlare senza le uniformanti limitazioni del quotidiano” (pag.91). Qui, come in una sorta di gioco dell’oca, si torna al Montale di pag.50; e a quelle subito dopo, dove si teorizza che “l’unica salvezza è mantenere il ritmo”… per poi un “salto” alle pagine dove si ricorda come sia preziosa la “presenza della memoria” (ma non è solo l’Europa ad aver bisogno “di ritessere la propria identità basata sulla memoria”). Una sessantina di piccoli densi saggi esigenti: nel senso che chiedono al lettore attenzione e partecipazione; gioco e insieme sfida. Si realizza quella chimica che Tassoni coglie in poeti come Calogero: “la scrittura inventa una relazione comunicativa, e anche autoreferenziale, rispetto alla realtà” (pag.26).
Luigi Tassoni,
“Diario di lettura e di letteratura”, Rubbettino.
di Gualtiero Donati
Felicemente tagliato il traguardo dei 92 anni (ed è già un notevole risultato), continua imperterrito a sfornare progetti e a lavorare. Per capire di che pasta è fatto un tipo come Clint Eastwood, un episodio di qualche anno fa: un devastante incendio, come di quelli che accadono in California, giunge a lambire Los Angeles; anche gli studi della Warner Bros. sono minacciati; scatta l’ordine di evacuazione. Le fiamme, sulle colline, sono vicine. “Dad, let’s go away”. Dad scuote la testa: “There’s work to be done”.
“Dad” è Eastwood, impegnato in sala di missaggio, lavora a uno dei suoi film più intensi, “The Ballad of Richard Jewell”. Clint è un mito: una sessantina di film interpretati alle spalle, una cinquantina diretti; potrebbe prendersela comoda. Niente da fare: non ha alcuna intenzione di interrompere, impegnato com’è nello “scrivere”, film dopo film il “grande romanzo americano”. Il racconto prosegue nelle parole del figlio Scott: “Siamo entrati in sala missaggio. Come direbbe lui, bisogna tornare al lavoro e stare zitti. È una storia vera”.
Il linea con il personaggio. Come il suo ultimo film, “Cry Macho”. Nel film Clint è una vecchia gloria del rodeo in disarmo, Mike Milo. Disarmo ma non domo, visto che un ricco farmer gli chiede di andare in Messico, e riportare a casa il figlio Rafo, che si è messo su una brutta strada.
Il film è ricavato da un romanzo di Nathan R. Nash, che immagina un uomo maturo ma aitante ed energico; non esattamente il Clint di oggi: in invidiabile forma, ma sempre ultra novantenne. Non per un caso, la frase cult: “Questa cosa del macho è sopravvalutata”.
C’è la mano di un abile, astuto, artigiano della telecamera che sa mettere comunque a frutto un “mestiere” ben accumulato e sedimentato, anche se forse “Cry Macho” non figurerà tra i migliori di Eastwood. Nel film comunque si coglie qualcosa dello spirito acre di Don Siegel e Sergio Leone. I due registi sono due riconosciuti maestri di Eastwood. Una prova lampante della consapevolezza di questo debito la si trova in una fotografia pubblicata per “High Plains Drifter”. Nell’immagine Eastwood e Verna Bloom sono davanti a una tomba in un cimitero che ha una grande importanza nel film. Eastwood si appoggia a una pietra tombale con la sinistra, il cappello sul cuore con la destra. Il nome sulla lapide è: Donald Siegel. Dietro alla tomba un’altra, si legge: S.Leone. Tipico esempio di umorismo alla Eastwood. Nel film le si vedono entrambe, le tombe; ma non abbastanza a lungo per poter leggere le iscrizioni…
Tra i tanti film che si possono citare (una battuta dei produttori di Hollywood a corto di idee, è: “Se tutto va male, possiamo sempre fare un film con Clint”), due meritano di essere citati: “Two Mules for Sister Sara”, con una straordinaria Shirley McLaine; e “Paint Your Wagon”, con Jean Seberg e Lee Marvin: western “decadenti”, si sfocia nell’auto-parodia; tuttavia forse meglio che in altri film Eastwood rivela le sue qualità, dimostra di essere l’ultimo vero divo dell’orizzonte western.
Non solo il West. Si prenda “In the Line of Fire”, thriller diretto da Wolfgang Peterson. “Io faccio uno di questi agenti del servizio segreto che mettono la propria vita in prima linea per salvare il Presidente in caso di attentato. È un film molto ben fatto, di cui vado fiero, non è solo un action-movie; mostra quello che sentono questi uomini straordinari, alcuni dei quali ho conosciuto, fa vedere come vivono. Il mio personaggio ancora porta le cicatrici dell’assassinio di Kennedy, della cui scorta faceva parte, senza successo, evidentemente. Per un agente del servizio segreto non esiste sconfitta o fallimento più doloroso. Ci siamo ispirati a Clint Hill, l’agente che tutti ricordiamo a Dallas, nelle celebri immagini televisive, correre e saltare sull’auto di Kennedy, ferito mortalmente. Hill concesse un’intervista a 60 minutes, in cui scoppiò in lacrime: un uomo distrutto. Piangeva istericamente, rimproverandosi che se avesse reagito con un secondo di anticipo si sarebbe preso la seconda pallottola, quella mortale, e avrebbe salvato Kennedy. È una cosa incredibile. Non tutti sanno che molti degli agenti addetti alla sicurezza di Kennedy non si sono più ripresi dal colpo subito. Avrebbero preferito dare la propria vita per salvare il Presidente, piuttosto che vivere una vita di cui hanno smarrito il senso…”.
L’ennesimo personaggio segnato dalla vita: disincantato, una punta di cinismo, un suo codice taciturno.
Dunque? Uno spirito troppo indipendente, né repubblicano né democratico, che in molti suoi film affronta tematiche “dure” come il razzismo e il fine vita con un taglio decisamente radicale: “Mi definisco un libertario che ama l’indipendenza al quale piace che ciascuno venga lasciato in pace. Non approvo che il Governo si immischi troppo negli affari della gente. Sono cresciuto negli anni della Depressione, e per me solo col lavoro, con l’iniziativa individuale, sempre che venga permessa, ci si può guadagnare un posto al sole…”.
Fin dai tempi di Mark Twain non c’è scrittore americano che non aspiri a scrivere il “Grande Romanzo Americano”. Molti hanno scritto qualcosa che si avvicina, ma siamo ancora in attesa. Eastwood dirige e interpreta film: prendeteli tutti (sono ormai tanti), metteteli in fila, guardateli con attenzione. Il Grande Romanzo Americano lo ha scritto lui. Continua a scriverlo. So long, Clint.
Cry Macho – Ritorno a casa,
diretto e interpretato da Clint Eastwood.