Proposta Radicale 6 2022
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Recensioni

Una “ninna nanna” di Cosa Nostra

di Valter Vecellio

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Una conversazione a Palermo

di Gualtiero Donati

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Una “ninna nanna” di Cosa Nostra

Una “ninna nanna” di Cosa Nostra

di Valter Vecellio

Questo “Ninna nanna” di Rita Mattei è un libro pericoloso, da maneggiare con prudenza. Lo cominciate a leggere la sera? La vostra sarà una notte insonne. Di giorno? Auguratevi di non aver preso appuntamenti, se sì, prima di cominciare abbiate cura di disdirli. Molto meglio affrontare questo libro una domenica, un giorno di festa, comunque di vostra libertà. Per la buona ragione che dopo averlo aperto, non ve ne staccherete più: dovrete per forza leggere tutte le sue quasi 400 pagine. Con un “supplemento” di cui è bene tener conto: inevitabilmente su alcuni capitoli ci tornerete, per meglio capire, per meglio fare vostra la storia raccontata.

Ninna nanna” ha poi un altro “difetto”: è scritto in un buon italiano. La sua autrice per anni è stata una spericolata, caparbia, sagace inviata speciale del “Tg2” e del “Tg3”. Gentile, simpatica, disponibile; al tempo stesso determinata, meticolosa, ottime fonti, leale: la notizia “sacra”, ma non al punto di vendere l’anima per averla. Ne sanno qualcosa i tanti colleghi, molti come si dice “d’esperienza”, che da lei non hanno mai avuto sgambetti, ma “buchi” professionali in quantità. 

Ora che si può concedere giorni di più meditata riflessione su quello che accade ed è accaduto, ci regala libro: non è un romanzo, neppure un saggio. Come definirlo? Lo si può rubricare in quel particolare tipo di narrativa/verità di cui Leonardo Sciascia è stato un po’ il padre: gli “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel”, “La strega e il capitano”, “I pugnalatori”, “La scomparsa di Majorana”.

È comunque una vera storia di mafia e mafiosi; storia dura, spietata, disperante. Una saga che racconta dei corleonesi: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella; presentati come protagonisti di un “romanzo” che ha insanguinato per anni Palermo, la Sicilia, il Paese; anche se molti di questi protagonisti sono morti, non per questo può dirsi conclusa, finita. Una storia e un “romanzo” visti e descritti con lo sguardo di una donna.

Non è una donna qualunque: è Vincenzina Marchese, che parla. È la figlia, la moglie, di mafiosi; pienamente immersa nel mondo mafioso, cosciente, consapevole; magari non sa, ma molto capisce e intuisce; sa collegare i fatti, ragiona sulle “coincidenze”, sa ricavarne le giuste conclusioni. Non si rende colpevole di nessun crimine, ma li condivide tutti, vive nella “bolla” mafiosa sapendo di farlo. Una storia tremenda, quella di questa ragazza, lungo e complesso sarebbe scendere qui nel dettaglio. Basti dire che Vincenzina si innamora perdutamente, ricambiata, di Leoluca Bagarella, fratello di Antonietta, la fedelissima moglie di Riina; Vincenzina lo sa di essere la compagna di quel “don Luchino” responsabile di centinaia di omicidi dagli anni ’70 ai ’90, compreso il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un collaboratore di giustizia. Il ragazzino per mesi viene tenuto segregato in una buca, poi strangolato, infine il corpo sciolto nell’acido. Vincenzina viene dalla cosca di Corso dei Mille a Palermo: killer e trafficanti tra le più antiche e spietate. Il capofamiglia, Filippo Marchese detto Milinciana, è suo zio. Uccide con le sue mani nella camera della morte di Sant’Erasmo, sul lungomare palermitano. Per Vincenzina, la madre, le altre donne del clan, la mafia è una pelle, una mostruosa cosa “normale”. La vivono e respirano con sconcertante naturalezza. A fronte di tanto orrore, sconcerta la tenerezza, il riguardo, il rispetto, l’amore di cui Vincenzina e il marito sono capaci; fino all’estremo, definitivo sacrificio. La conferma che nell’animo umano c’è posto per tutto e il suo opposto.

Non siamo, con “Ninna nanna” ai livelli de “Il padrino” di Mario Puzo. In quel romanzo il boss mafioso quasi ti ispira simpatia, complice la straordinaria interpretazione di Marlon Brando, alla fine di Vito Corleone avresti perfino la tentazione di essere amico, tanto emana fascino e intriga il suo sapiente dosaggio tra spietatezza, “offerte che non si possono rifiutare” e “fa la cosa giusta”. Qui, per fortuna no. Rita Mattei è abile nello schivare questo possibile rischio. La Cosa Nostra che descrive è quel mondo di infami farabutti che sappiamo (lo sappiamo, vero?); la tentazione semmai è opposta: punirli assai più duramente di quanto la legge consenta.

Per le mani vi troverete un “condensato” di molte vicende che l’autrice ha vissuto in prima persona: dalla strage a Capaci a quella di via D’Amelio a quella ai Georgofili a Firenze; c’è la conoscenza e le mille conversazioni con magistrati e investigatori, per fortuna non tutti finiti morti ammazzati; c’è il paziente spulciare migliaia di pagine di verbali e deposizioni di imputati; gli incontri e i colloqui con collaboratori di giustizia che con lei si “aprono”, le udienze dei processi seguite, comprese le apparentemente inutili. Questo libro è “figlio” di vicende seguite e vissute con scrupolo e vera passione civile e umana.

Prima di chiudere, nella tragedia un richiamo a un’analoga tragedia, quella di Rita Atria, anche lei figlia di mafiosi. Si affida, nella sua dissociazione dalla “famiglia”, a Paolo Borsellino, per lei diventa come un padre. Quando apprende che il magistrato è stato ucciso, a sua volta si uccide. La madre di Rita, per spregio, ne devasta la tomba. C’è un particolare, otto parole appena, che ignoravo, a pag. 109: “il prete aveva negato il funerale alla suicida”. Per un’associazione stramba il pensiero è andato al cardinale vicario di Roma Camillo Ruini, che nega i funerali religiosi a Piergiorgio Welby. Spero che Ruini e quel sacerdote (non ci giurerei), provino infinito rimorso per quel loro divieto. Questo solo per dire delle tante suggestioni che provoca “Ninna nanna”. 

“Ninna nanna”

Di Rita Mattei, All Around edizioni

Una conversazione a Palermo

Una conversazione a Palermo

di Gualtiero Donati

La nota editoriale annuncia quella che ha l’aria di una vera e propria golosità: “Una piccola biblioteca che si propone di presentare libri legati a Leonardo Sciascia. Non solo saggi e studi sull’opera dello scrittore, sui suoi carteggi, su quel che è stato scritto su di lui in tanti decenni; anche testi su argomenti che lo interessarono o di cui si occupò o che partono da una sua pagina o da una sua intuizione. E nelle copertine immagini di artisti apprezzati da Sciascia. Insomma, una collana sciasciana nel senso più ampio che nasce come iniziativa della Fondazione Sciascia di Racalmuto”.

Sotto l’occhio vigile e partecipe di Vito Catalano, uno dei nipoti prediletti di Sciascia, ecco dunque una iniziativa, i “Quaderni di Regalpetra”, che parte con una prelibatezza: la conversazione tra Sciascia e il giornalista britannico Ian Thomson, apparsa sul “London Magazine”, inedita per l’Italia (la copertina mostra una mano che stringe un libro tra le dita, forse lo prende per leggerlo, forse lo ripone nello scaffale: un’incisione di Gaetano Tranchino, “Il gesto”).

L’intervista risale al dicembre 1985. Da Roma per raggiungere Palermo Thomson sceglie il treno, lo stesso mezzo di trasporto privilegiato da Sciascia: “La porta di casa Sciascia è già aperta quando esco dall’ascensore. È in piedi, curioso incrocio tra Albert Camus e Humphrey Bogart, accanto a un portaombrelli che contiene una nutrita collezione di bastoni dal pomo d’argento…”; il “rito” del caffè, l’eterna Benson & Hedges accesa, il lento, preciso, attento colloquiare: letteratura e scrittori, Sicilia e “sicilianitudine”, il potere, le sue innumerevoli declinazioni, la mafia ovviamente anche se “con riluttanza, perché Sciascia è comprensibilmente stufo di chiunque lo definisca ‘mafiologo’”. Un’osservazione che inevitabilmente, a catena, ne provoca altre: “Vorrei far notare che noi siciliani abbiamo scritto sporadicamente libri storici e sociologici sulla mafia. Ma per quanto riguarda il racconto non c’è quasi nulla sull’argomento. E la ragione di ciò è duplice. La prima ragione è che la maggior parte degli scrittori siciliani proviene dalla zona orientale dell’isola, dove la mafia non esisteva. La seconda ragione è ‘l’omertà…”.

Tre ore e passa di conversazione: sotto i nostri occhi scorrono, presenze con cui si ha dimestichezza, Goethe e Voltaire; Graham Greene e Verga, Pirandello e Manzoni; e poi Hugo, Borges, Simenon, Lawrence, Tomasi di Lampedusa, De Roberto, la grande passione per le illustrazioni di Arthur Rackham…

Thomson è molto abile nel cogliere l’atmosfera e sa come dipanare la lunga conversazione che trasforma in racconto: sembra di essere a fianco a lui, in quella calda stanza tappezzata di libri allineati in fila doppia e quadri di amici pittori, la fotografia di Pirandello sulla scrivania di lavoro.

Preziosa la nota finale della traduttrice Adele Maria Troisi, anche lei di Racalmuto, amica della famiglia Sciascia (in grado per questo di cogliere sfumature ed “essenza” del testo che ad altri forse sarebbero sfuggiti). Tra le varie notazioni, il suo “metodo” di lavoro: nella traduzione, prima legge l’intero testo o procede passo passo? L’approccio, rivela “è quello di gustare pezzettini del testo man mano che vado leggendo, riservandomi nuove scoperte a ogni pagina…”. Il lettore invece facilmente cadrà nella tentazione di leggere tutto d’un fiato. Poi, però, abbia l’avvertenza di deporre il “Quaderno” per un paio di giorni, solo dopo riprenderlo in mano, leggere con minor frenesia le pagine di questa conservazione. Si accorgerà che la seconda, più meditata lettura è come certe pietanze quando ne resta qualche porzione per il giorno dopo: “sapori” che nell’immediato non ha colto, e grazie alla sedimentazione può meglio apprezzare e gustare.

Ian Thomson “Una conversazione

“Una conversazione a Palermo con Leonardo Sciascia”, Rubbettino

iMagz