La sinistra di fronte a se stessa
di Ugo Ronfani
Io penso che sia opportuno anzitutto dare una risposta diretta ad un’accusa che è stata molto franca e diretta. Si è detto che il “Mein Kampf di Pannella”, ossia il discorso pronunciato al 21° Congresso del Partito Radicale, fosse un discorso fascista. A questa accusa rispondo, dopo averlo letto con attenzione, che non lo considero assolutamente un discorso fascista. Così come non considero inopportuno avere posto sul tappeto il caso di via Rasella che a me personalmente in questa sede non interessa tanto come episodio circoscritto ma come un pretesto, direi un luogo di discussione per affrontare da un certo punto di vista il tema di una ridefinizione dell’antifascismo e dall’altro lato per discutere in termini più generali il problema della violenza. Ora, intanto, vorrei dire questo: che proprio per il coraggio che Pannella ha dimostrato per chiedere che sbarazzino dall’armadio dell’antifascismo certi cadaveri, proprio per questo coraggio mi pare che Pannella abbia fatto bene a sollevare questi problemi.
Uno scheletro nell’armadio dell’antifascismo
In senso più generale vorrei dire che, e lo dico perché so come facilmente Pannella è attaccato, è accusato e qualche volta anche è vilipeso perché non gli si risparmia l’ironia, non gli si risparmia la caricatura, vorrei dire che una volta di più con questo intervento Pannella ha detto ai politici che l’immaginazione deve andare al potere e c’è un problema che non è soltanto estetico ma è di sostanza, e che consiste nel tentativo di rinnovare i concetti e il linguaggio con cui si fa la politica. Ora, non foss’altro che per questa carica dirompente che ogni intervento di Pannella contiene, a prescindere un momento anche dai contenuti sui quali si può essere d’accordo o no, mi pare che il tono, il timbro dei suoi interventi sia utile, se non provvidenziale, alla democrazia italiana. Pannella ogni volta spalanca una finestra sull’immaginazione politica. Indica, qualche volta con chiarezza e qualche volta confusamente, delle prospettive nuove, spezza certi circuiti di una dialettica conformista che sta avvelenando la prima Repubblica; dunque il suo contributo mi pare estremamente utile e interessante; questo in termini preliminari.
Nel merito mi pare che abbia fatto bene a dire che è un procedimento fascista non quello di sollevare i dibattiti scomodi come quello di via Rasella, ma tentare di cancellare il ventennio fascista, rifiutarsi oggi di incorporare il momento del fascismo italiano nella storia nazionale. Questo non soltanto mi sembra intellettualmente e culturalmente inammissibile, ma mi pare che debba essere considerato anche inammissibile da un punto di vista marxista o gramsciano. Non si può e non si deve rifiutare nessun momento della storia di un popolo, di una nazione. Il marxista vero, e questo è un discorso che io rivolgo ovviamente alla sinistra, o il gramsciano, deve farsi carico di tutti i momenti della storia del suo paese e deve imporsi il dovere dell’analisi e della verifica. Che cosa voglio dire con questo? Che mi pare che uno dei doveri dell’antifascismo oggi consista proprio nel guardare, con un regard à soi, lucidamente, anche il periodo del fascismo, cercando di analizzarlo in tutte le sue implicazioni dialettiche, senza buttarlo come un fenomeno negli scantinati con un manicheismo di comodo e retorico, perché soltanto così mi pare che si consegna ai giovani la vera nozione dell’antifascismo, come atteggiamento critico. Voglio dire con questo che il manicheismo antifascista di cui vivono di rendita molti antifascisti non persuade più; non è più un discorso che possa rispondere agli interrogativi dei giovani che non hanno vissuto quel periodo, e al limite provocando della curiosità insoddisfatta, finisce per provocare anche dei fenomeni di rigetto. Quando a un certo punto si constata che certe manifestazioni, non so, del 25 Aprile, diventano delle malinconiche adunate di ex-combattenti, e che i giovani non ci sono o se ci sono, questo è il punto, interpretano a modo loro, in termini “eretici”, la lezione dell’antifascismo per poi arrivare a stabilire per esempio l’equazione 25 Aprile = P 38; ecco, in quel momento significa che l’antifascismo non ha saputo fare di più che presentare in termini manichei il problema della scelta che si è posta allora, senza andare oltre, senza fare un discorso più articolato, un’analisi più approfondita. Ora, Pannella invita a sbarazzarci di certi cadaveri che sono nell’armadio e io rendo omaggio per il coraggio che ha avuto. Semmai, quando poi si è stabilito che bisogna discutere degli aspetti più scomodi di questa dialettica che è una dialettica di sangue, di guerra tra fascismo e antifascismo, allora bisogna cominciare a tenere conto di certe obiezioni, insomma. Ho visto come Norberto Bobbio ha risposto a Pannella: ci sono due obiezioni, una di carattere generale sul problema della violenza. Bobbio dice: benissimo il discorso di Pannella secondo cui bisogna ripercorrere per altre vie la storia della violenza, però il Partito Radicale e Pannella hanno condotto una campagna per l’aborto che a mio modo di vedere è una forma di violenza. Il problema in sede morale si pone certamente.
Aborto e fame nel mondo: Pannella risponde a Pannella?
Mi pare che Pannella abbia dato la risposta quando ha detto che a un certo punto porre il problema dell’aborto significava e significa garantire che un certo numero di milioni di bambini non muoiano di fame. Ed è certo che l’impegno con cui Pannella ha condotto e conduce la battaglia contro la fame nel mondo e contro la fame dei bambini soprattutto è, in sostanza, una risposta all’obiezione di questo tipo che ha fatto Bobbio. Può darsi che immagini che sia addirittura una risposta di Pannella a Pannella, a livello di subconscio, ma questo è un altro discorso, anche privato. Bobbio poi, per tornare al tema della violenza durante la Resistenza, fa una distinzione fra giudizio politico e giudizio storico che certamente va fatta. È più facile storicizzare un discorso sulla violenza e quindi condannare la violenza; è meno facile in sede politica, quando ci sono le passioni politiche che urgono, esprimere un giudizio morale. È tutta la problematica, assolutamente non nuova, che fu affrontata per esempio nella Francia del dopoguerra, anche sulle scene; è la polemica di Camus e di Sartre, delle mains sales, dei “Giusti” di Camus, è la conflittualità tra l’amaro dovere da compiere perché si è fatta una scelta di campo e certi imperativi morali. Niente di nuovo sotto il sole. Semmai la novità consiste, e in questo ritorno a sottolineare l’opportunità del discorso di Pannella, nell’avere riproposto in un momento particolarmente idoneo, perché di confusione di riassestamento di valori, un problema che è già stato dibattuto, nel contesto italiano oggi, nel momento in cui due generazioni si confrontano e l’una, la vecchia, consegna all’altra, quella giovane, dei valori che non devono essere delle convenzioni o addirittura un mucchietto di luoghi retorici, ma valori che resistano al tempo. Quindi quel vecchio dibattito delle “mani sporche” di Sartre, il vecchio dibattito dei giusti di Camus è da discutere oggi in Italia, nei luoghi di una polemica nazionale che sono quelli della Resistenza italiana, e non in termini metafisici. Ora non a caso mi pare che, proprio perché i tempi sono maturi per questo dibattito, un uomo della sensibilità di Roberto Guiducci è intervenuto dicendo, con un certo coraggio anche lui, che la Resistenza è stata per molti un amaro dovere. Qui siamo ben oltre l‘immagine di Epinal, della Resistenza che a un certo punto riprende tutti i temi del Risorgimento, per arrivare a indicare così, senza falsi pudori, che la scelta di campo della Resistenza è stata in certi momenti un amaro dovere, qualcosa che ha impegnato le coscienze.
Il costo della Resistenza in termini di orrore…
Ora a me pare che il modo per glorificare la Resistenza consista proprio nel cominciare a parlare del costo, in termini di scelta morale, di sacrificio, di orrore, di paura. Guiducci introduce una valutazione sua particolare del fatto di via Rasella quando dice che non bisogna portare fiori sulle tombe di questi 40 ragazzi sud-tirolesi che erano al servizio del nazismo perché, e qui è ovviamente in aperta polemica con Pannella il quale i fiori voleva portarli, si deve sapere, i giovani devono sapere, che chi accetta acriticamente ordini dall’alto non merita fiori, e non può passare alla storia come vittima innocente. È un discorso che io chiamerei, con il permesso di Guiducci che è un laico, personalista, che mi rinvia alla polemica degli anni ‘30 iniziata da Emmanuel Mounier, su Esprit; e che consisteva nel tentativo, allora, di conciliare il pubblico e il privato, la milizia collettiva, (allora in Francia avevamo il fronte popolare l’éngagement generoso anche degli intellettuali sul fronte delle battaglie) con le scelte individuali. Questo personalismo, a cui ci richiama Guiducci quando dice: “Niente fiori!”, per ammonire qualunque giovane che, se non considera criticamente il suo impegno, rischia la vergogna o il silenzio; ecco, questo tipo di discorso mi pare opportuno, però non lo considero, tutto sommato, in contraddizione con l’impostazione generale del discorso di Pannella. Perché Pannella proprio oggi ponendosi controcorrente rispetto alla via ufficiale dell’antifascismo, assume anche lui questa posizione critica, che è poi quella che Guiducci… Per cui la polemica, se polemica c’è fra Guiducci e Pannella, è soltanto per un fiore retorico da portare sulla tomba del giovane nazista sacrificato al Moloch della guerra.
Detto questo, a me pare che uno dei meriti di questo intervento di Pannella consista nel fatto avere stabilito un rapporto dialettico stretto fra questa violenza (tra virgolette) già storicizzata, collocata nel periodo della Resistenza e la violenza attuale (parlo della violenza politica quella esplicita delle BR). Qui mi pare che la risposta (che è una risposta di condanna ma in un quadro di comprensione di certe motivazioni), che Pannella dà a questo tipo di violenza, ci sia là dove, facendo giustizia di molti ipotetici discorsi morali che sono poi dei luoghi comuni, e di una falsa morale, dice che non può esserci una via etica al sacrificio; che cioè nessun uomo può arrogarsi oggi, in termini di scelta civile, il ruolo del San Michele giustiziere. C’è a un certo punto, mi pare, il rifiuto di una equazione di questo tipo: Renato Curcio uguale San Michele. No, non siamo più alle crociate; quella piccola sedimentazione di civiltà che si è accumulata a fatica attraverso i secoli ci deve portare al rifiuto integrale allo spirito di crociata; quindi c’è una posizione di principio che consiste nel rifiuto del fanatismo, di un impegno che arriva fino accettare la violenza come scorciatoia per risolvere i problemi.
Ecco, c’è questa definizione molto chiara, che io collegherei non soltanto alle testimonianze di illustri nonviolenti come Gandhi, come Ignazio Silone, Pier Paolo Pasolini e, aggiungerei anche – con la sua testardaggine toscana – il Carlo Cassola che fa la sua battaglia antimilitarista, e agli atteggiamenti più limpidi, più ispirati, di un certo socialismo delle origini. Noi abbiamo avuto troppa fretta nell’archiviare come improponibili, grottesche, impolitiche, le posizioni anti-militariste della prima internazionale quando, all’origine, non c’erano ancora delle motivazioni di potenze socialiste, egemoni, e dunque il discorso poteva essere fatto liberamente, alle radici, del rifiuto della guerra, delle armi ecc. È simpatico, e anche confortevole che, per esempio, un uomo come Sandro Pertini, nell’Italia di oggi, riprenda questa posizione di fondo antimilitarista, quando, nel suo discorso presidenziale, inserisce l’invito: si svuotino gli arsenali, si riempiano i granai. Questa musica pacifista, questo mottetto pacifista va risuonato su registri politici naturalmente più seri, più articolati, più impegnati. Ma non deve essere considerato come qualche cosa di improponibile, superato o ingenuo, utopico.
La violenza come scorciatoia della storia
Ho detto prima che mi interessava questo rifiuto della violenza come espressione di una via etica del sacrificio. Questo travestimento della violenza non è più proponibile ed è un discorso che va fatto. Aggiungerei, ma mi pare che tutto questo figuri in filigrana nell’intervento di Pannella, che personalmente mi pare che il dramma dei giovani brigatisti, (ci sono beninteso delle altre motivazioni), consiste nell’illusione di mimare così la Resistenza, di impadronirsi di una Resistenza di cui sono stati defraudati e in un certo senso, e qui c’è anche una carica polemica nel loro atteggiamento, di ritenere che comportandosi così, facendo il terrorismo, compiendo l’attentato politico, continuino il discorso di una resistenza interrotta. Noi sappiamo che la Resistenza, e questo è un discorso che si fa, che si deve continuare a fare nelle sinistre (sennò c’è il compromesso storico, il pateracchio), che la Resistenza è stata interrotta. C’è stato un discorso politico per spiegarlo (che gli antifascisti secondo me non hanno saputo fare abbastanza chiaramente), ed erano motivazioni politiche, soprattutto di ordine internazionale, che oggettivamente impedivano di concludere la Resistenza. Noi sappiamo che dopo il 25 Aprile l’Italia è caduta sotto un’egemonia di superpotenze che ha impedito di portare avanti i valori politici e sociali della Resistenza. Questo andava spiegato, non per dare nuovi alibi agli antifascisti ma per creare delle “congiunzioni” fra chi era nel Paese e i fuorusciti al momento di creare una politica nazionale. Invece una certa astrazione nell’impostazione dei grandi temi del primo dopoguerra è venuta dal fatto che il discorso politico era fatto soprattutto da una classe, e gli antifascisti a un certo punto hanno perso i contatti con certe realtà italiane.
Non si risolve la violenza con la denuncia del terrorista
A parte tutto questo, mi pare che effettivamente i giovani oggi ritengano di portare avanti una resistenza interrotta, contro una certa società, in un certo contesto che oltretutto (e siamo alla spirale violenza contro violenza) può non giustificare questa spirale, ma spiegarla, e spiegare certe motivazioni date. Ora, qui il discorso sulla violenza evidentemente comincia appena, ma mi pare che cominci bene se si dice, almeno all’interno della sinistra, che la violenza non la si risolve (qui Pannella è molto esplicito) con l’invito alla delazione di massa. Dice Pannella, in una maniera che io trovo azzeccata nella sua intonazione ironica, che il problema della violenza non lo si risolve ricostituendo il capo fabbricato di stampo fascista, cioè qualcuno che nel caseggiato, nella fabbrica, nel reparto, denuncia il terrorista. Guai! Tutto questo porta alla delazione, al sospetto, al processo sommario; porta proprio a un rapporto fratricida fra gli italiani, avvelena l’atmosfera. Così io vorrei mettere in guardia la sinistra dalla tentazione, anche qui pensando di prendere delle scorciatoie, di risolvere tutti i problemi della violenza in termini di cosiddetto ordine pubblico.
È giusto che le posizioni della sinistra evolvano nel tempo; ma se penso ai momenti di rottura di classe, del nascente socialismo, del primo comunismo italiano, quando si faceva il discorso che le forze di polizia sono, sì a livello di poliziotti, di carabinieri, figli del popolo, ma che a un certo punto rappresentano degli strumenti per la difesa di un sistema di una società; e constatato adesso che i nostri politici, certamente a malincuore, con riserve mentali, sono però tutti costretti a fare l’elogio non del carabiniere o dell’agente ucciso dal terrorista (e qui siamo alla famosa metafora dei fiori che devono essere portati a tutti come segno di civiltà e di umanità) ma al »corpo costituito, come solo o preminente strumento per garantire la pace sociale; ecco, qui io dico che c’è un’abdicazione pericolosa da parte della sinistra del dovere che ha di ricercare motivazioni ben altrimenti complesse delle cause della violenza. Per cui si può creare in Italia, e in Europa, questo paradosso, che a un certo punto dei sociologi, magari pagati dal pan-capitalismo, che fanno delle ricerche per le multinazionali, smontino loro i meccanismi della violenza; o che magari sia il Ministero della giustizia francese Alain Peyrefitte a preparare un catalogo di misure contro la violenza evidentemente a carattere conservativo; un catalogo in cui si parla di tutto: alcoolismo, effetti alienanti del vivere nelle banlieues operaie, delle alphavilles, o dell’impatto che i mass-media hanno sulla violenza, e di altri problemi reali ma estremamente parziali e settoriali di questo tipo. E che invece le sinistre siano loro solo, prevalentemente, a difendere le strutture di polizia.
Ecco, questa è una posizione che va rapidamente corretta. Occorre in questo momento difficile, e le indicazioni io le ritrovo una volta di più nel discorso di Pannella, che le sinistre abbiano un linguaggio articolato sui problemi della violenza, e che a un certo punto nell’emergenza si affidino alle forze dell’ordine, ma che contemporaneamente, sincronicamente, affrontino il problema delle cause, delle motivazioni. E qui bisognerà che i politici, e soprattutto quelli di sinistra, si mettano a lavorare con i sociologi e non lascino solo a loro il discorso e che affrontino il problema dell’andare alle radici della violenza. Bisognerà allora fare il discorso delle violenze, perché ormai scientificamente il discorso sulla violenza è progredito.
Violenza nella società tecnologica, violenza da “non opposizione”
Konrad Lorenz ci dice che c’è una violenza biologica come autodifesa dell’uomo e dell’animale, per cui l’istinto ci conduce a difendere degli spazi vitali; allora in termini di animale pensante, di uomo, e di uomo politico, il problema e quello di dare a tutti questi spazi vitali; quindi è un problema di giustizia distributiva, del territorio, della distribuzione delle ricchezze ecc. Questo è un’ABC del socialismo, che però è una risposta rispetto ai fautori della violenza biologica ed e una risposta positiva al catastrofismo che dice: la violenza biologica è ineliminabile. Può essere a livello di ragione, evidentemente, condizionata nel riconoscimento che l’animale o l’uomo soddisfatti, che hanno un livello di realizzazione, sono meno portati alla violenza.
C’è poi la violenza come risposta irrazionale all’eccessiva razionalità della società tecnologica che proprio per la sua razionalità diventa alienante: e allora è un problema di equilibri biologici, e di equilibrio tra sentimento e ragione, fra istinto e riflessione. Equilibri che si traducono poi in formule politiche, o addirittura urbanistiche. Anche qui si arriva alla necessità di un programma delle sinistre contro le violenze. Occorre che ci si renda conto che è il momento di mettere nel computer della programmazione anche la variabile della violenza, perché sia tenuta presente come una priorità pericolosa che deve modificare i programmi.
C’è anche, e qui siamo al discorso soprattutto politico, una violenza da non opposizione ed è un tema che anche qui ho visto sfiorato da Pannella. In un Paese dove non c’è un’opposizione cosciente del suo ruolo evidentemente si creano (è una cosa fin troppo ovvia per ricordarlo, ma diciamola) delle sacche di emarginazione non rappresentate nel discorso democratico, che poi alla lunga arrivano all’esplosione della violenza. Il discorso, in termini politici attuali, è il discorso dell’aver creduto di risolvere tutto con il compromesso storico cioè con l’unione, diceva Bobbio, di due parrocchie, o di due conformismi, che hanno dato spazio ad emarginazioni e a risposte irrazionali di emarginati. C’è anche il discorso che va tenuto presente, mi pare lo ricordasse Guiducci, che aveva fatto Theodor Adorno, secondo cui la violenza si manifesta e si concreta soprattutto nel momento della lotta politica, ma è preceduto da altri momenti di incubazione nella famiglia, nella comunità, nel luogo di lavoro; per cui è in quella sede che occorre intervenire. Tutto questo, dato in maniera molto schematica, quasi sinottica, è semplicemente per sottolineare l’urgenza che le sinistre non si limitino a fare il discorso appunto che è stato fatto a Torino, dell’impegno verso la denuncia del terrorismo a livello individuale, con tutti i rischi (ripeto) che comporta, e che non si limitino a fare un elogio di necessità delle forze dell’ordine, inserendosi in questo modo in una spirale infernale per cui più poliziotti ci sono (lo sappiamo) più terroristi ci sarebbero, ci saranno. E invece facciano un discorso delle cause, che poi è il discorso a cui sono abilitati, direi, storicamente. Non perdano di vista questo obiettivo, se no evidentemente la battaglia contro la violenza è perduta.
Ho acquistato la convinzione, leggendo questo “Mein Kampf” di Pannella, e nonostante il linguaggio deliberatamente anticonformista e in certi aspetti provocatorio del discorso, che siamo arrivati al punto che una certa ortodossia nel discorso marxista è più viva nelle tesi di Pannella che non delle tesi ufficiali comuniste.
Sulla violenza rileggiamo Georges Sorel
Per esempio, non c’è dubbio che questo ricondurre a certe scelte di fondo, a certi valori essenziali il discorso della violenza, ricollega meglio Pannella a un certo socialismo delle origini, alle tesi delle prime internazionali, al discorso di Sorel per esempio sulla violenza, che come è noto dovrebbe insegnare qualche cosa a chi fa l’elogio della forza pubblica (Sorel diceva che tutto sommato la violenza era la migliore risposta che si potesse dare ai terroristi e che chi profitta della violenza, in realtà è il sistema che controlla la società, perché della violenza degli altri si fa un alibi per la repressione). È esattamente quello che sta avvenendo ora. La sinistra deve essere avvertita per rendersi conto di questo pericolo, non foss’altro perché ha il dovere di aver letto Sorel. Ora, Sorel è citato da Pannella oggi; è citato meno, che so, da Enrico Berlinguer e la cosa mi inquieta un po’; bisognerebbe ricominciare a leggere certi testi di riferimento e soprattutto bisognerebbe rimettere in circolo delle idee come mi pare stia facendo Pannella, perché soltanto così mi pare si può arrivare a quelle conclusioni che auspica Gianni Baget Bozzo, quando dice che bisogna operare per una morale diversa, una politica diversa, una società diversa, perché soltanto in questo modo si può arrivare a strappare alle radici la violenza.