Via Rasella una “inutile strage”?
di Valter Vecellio
Questo libro nasce per merito di Marco Pannella e di Norberto Bobbio. Occorre fare un salto nel tempo: i giorni che vanno dal 29 marzo al 2 aprile 1979. In quei cinque giorni, a Roma, ha luogo il 21esimo congresso del Partito Radicale. Congresso straordinario, indetto in vista di quella scadenza elettorale del 10 giugno che avrebbe visto l’elettorato italiano votare, per la prima volta, oltre che per il Parlamento nazionale anche per quello europeo. Deliberatamente il congresso radicale è fissato in concomitanza con quello del PCI, il 15esimo. Il congresso radicale ha luogo all’Università. Quello del PCI all’EUR.
Marco Pannella chiarisce subito quale sarebbe stata la strategia elettorale: i radicali avrebbero fatto appello alle “nuove” sinistre e ai settori delle “vecchie” messi in mora ed emarginati dal compromesso storico del PCI e dal “dialogo” allacciato con la DC. L’invito esplicito è di approfittare del “passaggio” offerto da quello che viene definito l’“omnibus” radicale. Nessuna condizione o preclusione: il Partito Radicale avrebbe accolto nelle sue liste chiunque in grado di offrire al Paese e al Parlamento solide garanzie alternativiste e una adeguata rappresentatività dell’universo di quanti erano stati fino a quel momento esclusi. Da “Lotta Continua” vengono Pio Baldelli, Marco Boato e Mimmo Pinto; dal PCI Alessandro Tessari; dal PSI Aldo Ajello e Franco Roccella; con loro Leonardo Sciascia, Maria Antonietta Macciocchi e tanti altri…
Pannella prende la parola il 31 marzo. Un lungo intervento nel quale illustra le ragioni di quelle scelte: quelle dell’immediato ma anche quelle “storiche”; ma c’è anche altro, molto altro. In particolare si riprende uno degli argomenti da tempo messi nel mirino della polemica radicale con la sinistra italiana e in particolare con il PCI: il tema dell’attentato a via Rasella a Roma, la famosa azione partigiana posta in essere da membri dei GAP il 23 marzo 1944, in piena occupazione nazista, e il successivo sanguinoso massacro perpetrato dai tedeschi con l’eccidio alle Fosse Ardeatine. Azione – quella di via Rasella – che provoca reazioni di ogni genere, perfino in seno al Comitato di Liberazione Nazionale romano. A Pannella preme indagare e sollevare le connessioni con il terrorismo contemporaneo. Poco meno di un anno prima sul Paese si era abbattuta la lacerante vicenda Moro: il sequestro, l’uccisione degli uomini della scorta, i 55 terribili giorni del sequestro, poi anche Moro ucciso, il corpo fatto trovare a via Caetani, tra la sede della DC a piazza del Gesù e quella del PCI a via delle Botteghe Oscure. Il PCI in quei 55 giorni e anche dopo, si attesta come puntello del “partito della fermezza” (ma sarebbe più esatto dire: partito dell’immobilismo). I radicali, con i socialisti e pochi altri, mobilitati per cercare di salvare la vita del leader democristiano.
Già allora scoppia la polemica tra le forze politiche e culturali circa le responsabilità (e c’è chi parla esplicitamente di connivenze) nella nascita e il dilagare del fenomeno terroristico. In tanti individuano nella lontana tradizione di certa cultura “rivoluzionaria” (oltreché in quella di certo cattolicesimo) il brodo di coltura, lo “scheletro” nascosto negli armadi della sinistra, il PCI in particolare: Rossana Rossanda scrive di “l’album di famiglia”; si potrebbe anche dire “l’albero” dai cui rami discende anche la violenza dei Renato Curcio, degli Alberto Franceschini, dei Mario Moretti, in generale delle Brigate Rosse: la famosa immagine-allegoria che si trova nel libro di Franceschini Mara, Renato e io. Storia dei fondatori delle BR:
“…Disse: ‘So che parti. Vorrei venire con te ma ormai sono vecchio. Nemmeno i miei consigli, ora, potrebbero servirti. Una cosa però te la voglio dare’…Tornò con un pesante sacchetto di plastica chiuso con un nodo robusto: per aprirlo dovette aiutarsi con le forbici che teneva nel cassetto. Appoggiò sul tavolo una pistola. ‘È la Browning di un ufficiale tedesco che uccidemmo in montagna, è bottino di guerra. Spara bene, almeno una volta l’anno l’ho smontata e pulita. È tua, devi solo procurarti le munizioni’… Non fu solo una consegna darmi: mi stava affidando i suoi ideali, la sua giovinezza e la sua forza che non c’era più…”. (1)
Come non rilevare, in questo contesto di discussione, che proprio all’inizio della recente storia comunista, oltreché partigiana e antifascista, si colloca l’episodio di via Rasella, quando un manipolo di partigiani falcidia una colonna di SS altoatesine facendo saltar una carica di esplosivo nel cuore della vecchia Roma? Da quell’attentato, il successivo massacro alle Cave Ardeatine, voluto espressamente da Adolf Hitler e dal tenente generale Kurt Maltzer: una vendetta che “avrebbe fatto tremare il mondo”, secondo la testimonianza resa da Eitel Friedrich Mollhausen, console e capo sostituto dell’ambasciata tedesca a Roma.
Scrive lo storico Robert Katz:
“La sua rabbia mise in moto a Roma una macchina di morte frettolosamente assemblata…il giorno seguente, 335 uomini e ragazzi adolescenti – una sezione trasversale quasi perfetta della compagine sociale maschile di Roma, nessuno di loro neppure remotamente collegato all’attacco – furono prelevati in arie zone della città, caricati sui camion e condotti in un labirinto di cave abbandonate sulla via Ardeatina, vicino alle catacombe cristiane della Roma antica, e lì trucidati a gruppi di cinque. Fu l’inizio e il prototipo dei peggiori crimini di guerra perpetrati sul territorio italiano”. (2)
L’episodio è o no un atto di terrorismo, di violenza, inevitabilmente “matrice” del terrorismo e della violenza dilagante di nuovo, quarant’anni dopo, nel Paese? Questo l’interrogativo, l’indicibile questione.
Inequivocabile, Pannella. Se il terrorismo va denunciato e colpito, insieme al terrorismo di oggi, si deve denunciare, come corresponsabile politica l’intera storia della violenza di “sinistra”. Se Curcio è colpevole (e lo è), l’azione di via Rasella configura anch’essa come una forma di violenza omicida da condannare. Dice il leader radicale nel corso del suo intervento al congresso:
“Se barbari e assassini sono i ragazzi dell’Azione Cattolica Curcio che, sulla base dell’iconografia dei San Gabriele e San Michele, con il piede schiaccia il demonio e diventa giustiziere contro il drago capitalista…allora anche Carla Capponi, la nostra Carla, medaglia d’oro della Resistenza per averla messa a via Rasella, con Antonello, con Amendola e gli altri debbono ricordare quella bomba. Dobbiamo dire che se abbiamo un rapporto di ‘intimità’ con la storia fascista, abbiamo…lo stesso rapporto con i torturatori peggiori, con i miei compagni Togliatti e Curcio…”.
È il finimondo. Una reazione rabbiosa e furibonda. Qualche assaggio. L’Unità titola il resoconto del congresso radicale: “La linea Pannella: il PCI è il nemico, Curcio un fratello”. Su Paese Sera (6 aprile 1979), Paolo Franchi annota: “…Pannella che si accomuna come perseguitato alle vittime delle fasi più buie dello stalinismo, ha appena finito di fare sue le più stolide volgarità fasciste sulla Resistenza romana e via Rasella, per ramazzare voti a destra”. Lo storico Paolo Spriano sostiene che Pannella incarna “il nuovo qualunquismo” (l’Unità 3 maggio 1979); per Arturo Gismondi “è repugnante répechage della polemica su via Rasella…”, e si inserisce nella tradizione di Guglielmo Giannini e dell’Uomo Qualunque (Paese Sera, 7 maggio 1979); secondo Fortebraccio (Mario Melloni) corsivista principe della stampa comunista, Pannella e i radicali sono il “partito degli scarti” (l’Unità, 10 maggio 1979); Senza appello la condanna di Emanuele Macaluso: “Per sollecitare il qualunquismo di marca fascista Pannella riscopre la vicenda di via Rasella con gli argomenti di Giannini e di Almirante e, per sollecitare il qualunquismo di ‘sinistra’ si scaglia contro il preteso connubio del PCI con la DC…” (l’Unità, 11 maggio 1979).
Il 1 aprile Pannella si reca al congresso del PCI. La rabbia dei congressisti esplode, aizzata dai durissimi attacchi di Giorgio Amendola e di Luciano Lama: “Il discorso fascista di Pannella è un’ignominia, qui ci sono le medaglie d’oro di via Rasella”, tuona Amendola; e Lama: “Il partito delle brigate Matteotti, di Sandro Pertini e di Riccardo Lombardi non può confondersi con quello di Pannella”. La platea fischia a lungo il leader radicale, apparso in sala vestito di scuro e con il loden blu sulle spalle: come un “vampiro”, un “Nosferatu”, riporta il giorno dopo, con ostile ironia la stampa.
In un suo secondo intervento congressuale, tenuto il 1 aprile, Pannella rincara il suo giudizio su via Rasella e chiede una revisione nel trattamento giudiziario riservato a due gerarchi nazisti, Walter Reder e Rudolph Hess, condannati all’ergastolo, pena che i radicali da sempre chiedono sia abolito per tutti, compresi i criminali nazisti. La polemica a distanza tra i due partiti è al fulmicotone, non solo per via delle imminenti elezioni. Le divergenze, sono di fondo.
A questo punto, perché non provare a trascrivere i due interventi di Pannella, inviarli a intellettuali, commentatori, studiosi, chiedere loro un’opinione, a mente fredda? Una scommessa. Il messaggio in bottiglia viene raccolto per primo da Norberto Bobbio. L’anziano filosofo e senatore a vita invia un paio di cartellette:
“…Ritengo che Pannella abbia ragione nell’affermare che ‘nel momento in cui il terrorismo e la violenza inducono a disperazione e sono frutto di una strategia, tutta la storia della violenza va ripercorsa e rivista’. Le cose da lui dette sull’episodio di via Rasella rientrano in questa riflessione…”.
Qualche giorno prima, in una più generale intervista al Giornale di Sicilia Leonardo Sciascia aveva detto: “L’unica cosa che si muove proprio nel senso della vita contro la morte, in questo paese, sono i radicali. E poi devo negare anche che Pannella abbia attaccato la Resistenza e l’episodio di via Rasella. Pannella ha semplicemente detto che è violenza anche quella, ed è innegabile…”.
È fatta. Il dibattito nasce così. In poco tempo arrivano i contributi e le riflessioni di Ugoberto Alfassio Grimaldi, Gianni Baget Bozzo, Ernesto Galli della Loggia, Roberto Guiducci, Luigi Manconi, Giampiero Mughini, Roberto Roversi, tanti altri ancora.
Un bel dibattito davvero, a partire dall’attentato di via Rasella che non smette di lacerare, dividere, far riflettere.
Robert Katz, lo storico americano che per primo si è occupato del caso, e nel 1967 pubblica quello che è diventato un piccolo classico, Morte a Roma, scrive:
“…ancora nel 1966 i partigiani di via Rasella ricevevano anonime minacce di morte. Una donna, che aveva fatto parte del gruppo ed era stata eletta al Parlamento, venne ripetutamente ingiuriata, proprio davanti alla Camera dei deputati, per aver partecipato all’attentato. Per servire a scopi politici i fatti furono falsati fino al limite del grottesco e furono inventate bugie di ogni genere. Gli storici hanno dato versioni discordanti degli avvenimenti. Ognuna di queste versioni può oggi venir sfruttata da giornali, uomini politici, organizzazioni, sacerdoti e insegnanti a seconda delle loro passioni politiche che animano ognuno di essi. Problemi aperti più di ventidue anni fa non hanno avuto ancora una risposta conclusiva. Ancora oggi gli italiani ne sono assillati e talvolta si trovano spinti l’uno contro l’altro. Più che mai è diventata una necessità impellente dar loro una risposta…” (3).
Non è molto diverso da quello che dodici anni dopo dirà Pannella.
“Se i problemi di via Rasella e delle Fosse Ardeatine”, prosegue Katz, “bruciano ancora, questo è vero non soltanto per gli italiani, ma per tutti gli uomini. Sono i problemi della tirannia e dell’antidemocrazia e del modo in cui vanno affrontati. In Roma furono affrontati o con la collaborazione, l’opportunismo, la sottomissione, l’indifferenza, oppure con l’opposizione della resistenza passiva e dalla disobbedienza civile arrivò al sabotaggio e alla guerra partigiana. Queste diverse forme di opposizione furono tutte messe a durissima prova in un arco di ore che va dalla mattina del 23 marzo a quando calò la notte del 24 marzo 1944” (4).
Sempre Katz, nel citato Roma città aperta:
“L’attacco di via Rasella fu fatto coincidere con la ricorrenza del venticinquesimo anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento, per segnalare che la fine di un lungo incubo era vicina. Nelle intenzioni doveva rappresentare l’intensa escalation della battaglia condotta dal movimento partigiano in difesa di Roma, e galvanizzare la popolazione inducendola all’insurrezione” (5)
Legate a questa e ad altre simili vicende, ecco vere e proprie pagine di vergogna, motivate da inconfessabili interessi dell’intelligence statunitense e di altri paesi occidentali: si coprono le responsabilità di gerarchi nazisti arruolati nell’immediato dopoguerra, come racconta lo storico Mimmo Franzinelli nel suo accurato Le stragi nascoste:
“…clamoroso il caso di Eugen Dollmann, corresponsabile delle Fosse Ardeatine, il cui nome figura nel primo dei fascicoli occultati: oggi è risaputo che egli, fatto fuggire nell’agosto 1946 da un campo di prigionia alleato, rientrò clandestinamente a Roma nel 1948, per conto dello spionaggio USA ed ebbe contatti coi servizi italiani…”. (6)
Uno dei componenti del commando partigiano, Rosario Bentivegna è autore di un altro “classico”, Achtung Banditen!:
“L’eccidio (alle Ardeatine, ndr) fu compiuto prima che ne fosse data notizia alla cittadinanza”, scrive. “In circostanze simili in Europa, quasi mai i nazisti invitarono pubblicamente gli attentatori a presentarsi prima di compiere la rappresaglia: anche a Roma il loro interesse li portò ad agire nel modo più vile e crudele, non solo per la paura confessata da Kesselring (la preoccupazione che la resistenza romana avrebbe potuto prendere iniziative politiche o militari per impedire il massacro; ndr), ma anche perché essi volevano colpire e terrorizzare tutta la città che in blocco si era rifiutata al collaborazionismo e resisteva attivamente. I nemici per i nazisti non erano solo i partigiani, ma tutti i romani che dei partigiani erano la matrice. Tante volte, da quei giorni in poi, ci siamo domandati – o ci è stato chiesto – che cosa avremmo fatto se il nemico avesse accettato le nostre vite in cambio di quelle dei nostri compagni che giacevano nelle loro carceri. È troppo facile – o troppo difficile – rispondere a posteriori…” (7)
Vero: troppo facile. O troppo difficile. Però, anche a costo di incappare nuovamente nelle ire di Bentivegna che nel suo “Senza fare di necessità virtù” polemizza aspramente con chi scrive, la questione continuiamo a porcela: è completamente in errore chi sostiene che l’attentato di via Rasella fu: “un atto politicamente inutile e militarmente sbagliato”?
Scrive Bentivegna che riprendo:
“…anche la vergognosa tesi per la quale via Rasella era stata organizzata per provocare la rappresagli, al doppio scopo di scuotere l’apatica popolazione romana e di eliminare i politici antifascisti non comunisti che erano prigionieri, insieme a molti comunisti, dei tedeschi” (8).
Proviamo a spiegare meglio. Molto probabilmente se ci si fosse trovati nelle stesse condizioni storiche, avremmo anche noi imbracciato un fucile contro l’oppressore nazista e i complici repubblichini; molto probabilmente, pur nell’orrore che si prova all’idea di sopprimere una vita umana, ci si sarebbe comportati come Bentivegna e gli altri gappisti si comportarono. Dico probabilmente non per un dubbio su quale parte ci si doveva schierare, quanto perché il coraggio per fare quello che loro hanno fatto, combattere con il rischio di finire nelle mani di spietati torturatori ed essere ucciso, forse sarebbe venuto meno. Il coraggio (o se si vuole, la capacità di vincere la paura) non è cosa che si può teorizzare. Se c’è, c’è quando occorre ci sia; a “freddo” discutere di quello che si sarebbe o non si sarebbe capaci di fare, lascia il tempo che trova. Detto ciò che con l’attentato di via Rasella ed altre azioni, i gappisti intendessero scuotere la città, farla uscire dal torpido clima di “Roma città aperta”, lo sostiene anche Katz (e non solo lui).
Che a Roma ci fosse un problema lo si ricava solo sfogliando le pagine di un classico come la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia:
“…Anche in Roma, come nel Nord, c’è da superare il punto morto dell’attesismo, ma a differenza che nel Nord l’avversario interno da combattere ha un fronte ben più solido ed esteso, ed è da ritenersi ben più saldamente abbarbicato alla realtà politica e sociale della capitale” (9).
Un modo elegante per dire che gravava una “questione vaticana”. E qualche riga successiva: “…Insieme alla burocrazia, sullo stesso fronte agisce a Roma il più potente degli alleati o dei promotori dell’attesismo, il Vaticano, preoccupato e profondamente della possibilità d’una rivoluzione, saldamente organizzato nei suoi istituti tradizionali nel bel mezzo della tempesta, capace di raccogliere i frutti dell’accorta politica praticata negli ultimi anni della guerra fascista…” (10).
Che dunque si sia voluto scardinare questo clima di attesa non stupisce; ha una sua logica.
Veniamo ora alla seconda parte di quello che viene contestato, la parallela eliminazione di politici antifascisti non comunisti da parte dei nazisti. È certamente una colossale mistificazione operata a posteriori che siano stati affissi manifesti con l’invito agli attentatori a consegnarsi se volevano evitare la rappresaglia poi consumata. Questo è fuor di questione. Quello che si vuole dire è questo: il tritolo fatto esplodere nel mezzo della colonna tedesca che marcia in via Rasella viene fatto esplodere per provocare morte e distruzione. Era fatto notorio che i nazisti rispondevano a questo tipo di azioni partigiane applicando la legge del taglione aumentandola di dieci volte. Una possibile rappresaglia, dunque, era da mettere nell’ordine delle cose che si sarebbero verificate. Quando si deve effettuare una rappresaglia, la cosa più facile è quella di prendere le persone che già sono prigioniere, cosa che è puntualmente accaduta: i nazisti e i fascisti, come meticolosamente racconta Katz in Morte a Roma e in Roma città aperta, prendono per primi i prigionieri detenuti a Regina Coeli e a via Tasso. Logico. La domanda è: possibile che nessuno degli organizzatori e degli esecutori si sia posto la questione? Si può legittimamente obiettare che porsi questo interrogativo si finisce con il non fare più nulla. Però l’interrogativo sorge ugualmente spontaneo. Nessuno ha immaginato, pensato, che l’attentato di via Rasella non sarebbe rimasto senza risposta?
Alberto ed Elisa Benzoni sono gli autori di Attentato e rappresaglia, il PCI e via Rasella. Un libro duramente contestato da Bentivegna. I due autori sono socialisti da una vita, non possono essere confusi con quella storiografia di destra che cerca di “assolvere” i nazi-fascisti addossando la responsabilità delle Ardeatine agli autori di via Rasella. La questione che pongono è seria:
“Perché la Resistenza romana attende ancora una sua storia critica? Cosa costava ai dirigenti e agli storici di parte comunista – né a loro solo – ammettere la tesi del ‘tragico errore’, o inquadrare l’attentato come momento di ‘avventurismo estremista antecedente a Salerno’? O ancora, cosa impediva alla Resistenza non comunista di riscrivere nella propria ottica la storia della lotta di Liberazione di Roma? Abbiamo assistito, invece, a più di cinquant’anni di straordinaria autocensura” (11).
Autocensura, secondo i Benzoni dovuta essenzialmente a due motivi: negare ogni rapporto tra il 23 e il 24 marzo, tra attentato e rappresaglia:
“Separazione oggettivamente insensata: la rappresaglia fu conseguenza dell’attentato; conseguenza della quale gli attentatori dovevano ragionevolmente tenere conto” (12).
Questo non significa attenuare in alcun modo l’orrore delle Ardeatine e le responsabilità dei nazisti:
“…è una considerazione di elementare senso comune; ma che viene rifiutata da quanti pensano che ogni azione del nazismo, male assoluto, debba essere, e in ogni circostanza, separata dal suo contesto; e che quindi la condizione per condannare la rappresaglia sia il silenzio sul 23 marzo” (13).
Il secondo motivo è di portata più generale:
“Riguarda la necessità di conservare l’immagine della lotta di Liberazione come fatto unitario, soprattutto nei confronti di tentativi di delegittimazione di parte fascista. Ma ha un senso sostenere l’unità resistenziale a scapito di un’analisi oggettiva degli eventi? Ha senso, oggi, offrire una sorta di riconoscimento politico al ‘nemico’ rifiutandolo, invece alle proprie articolazioni interne? Comprendere le ragioni del repubblichino e non quelle dell’attesista?” (14).
A questo punto, è opportuno riproporre alcune delle considerazioni e delle riflessioni di Alberto ed Elisa Benzoni:
“La storia di via Rasella è anche la storia di dibattiti che non si sono mai svolti. I patiti del tormentone della Resistenza (o della rivoluzione) tradita avrebbero potuto argomentare a lungo sulla responsabilità della nuova linea del PCI nel non cogliere le possibilità sovversive che pure esistevano nella capitale, anche dopo gli avvenimenti di marzo. Su di una linea opposta, si sarebbe potuto ravvisare nell’attentato gappista di via Rasella proprio un esempio di quella logica avventurista contro cui Togliatti si stava battendo e nel corso della Resistenza e successivamente. Altro possibile dibattito, quello sul cosiddetto “album di famiglia”, concretamente aperto da Pannella solo verso la fine degli anni ’70. Dove non era in discussione soltanto la legittimità o l’utilità dell’attentato; ma, piuttosto, la sua natura e la psicologia dei suoi autori; in altre parole, gli elementi di identità, oppure di differenza, tra il terrorista urbano di marca gappista e quello dell’estrema sinistra, emerso all’indomani del ’68. Si poteva, ancora, discutere del problema storico-politico posto da via Rasella; coinvolgendo nel dibattito non solo gli esponenti del PCI e i loro critici di sinistra, ma anche le componenti che, in varia forma, avevano partecipato alla Resistenza. Un vero confronto, insomma, tra attivismo e attesismo, volto ad analizzare, una buona volta, in modo articolato i contributi delle varie sensibilità nel processo di ricostruzione morale e politica del paese. Ci si poteva soffermare sulle vittime; e non solo su quelle del 24 marzo, quasi tutte oggetto, nei decenni successivi, di ricordi e onoranze sommarie e distratte – e la cui rappresentanza in occasione delle varie ricorrenze e dei vari processi è stata demandata alla sola comunità ebraica –; ma anche sui riservisti del Bozen. Ora di questi e di altri possibili dibattiti, non se ne è, e per più di cinquant’anni, tenuto nessuno. Se il “politically correct” consiste essenzialmente in un elenco di cose che non si debbono dire, l’atteggiamento a riguardo di via Rasella ne è la quintessenza. Si potrebbe anzi sostenere che il tema ha rilievo politico nella misura in cui non deve essere affrontato. Esso è stato tenuto accuratamente ai margini dei vari processi contro i responsabili dell’eccidio delle Ardeatine. Sino a dare la sensazione – e non è solo una sensazione – che la condizione per condannare con orrore il 24 marzo sia quella di tacere completamente sul 23. Così alle contestazioni di Pannella sul terrorismo e “prototerrorismo” si risposto invocando la condanna penale del reprobo per vilipendio della Resistenza in generale e delle Forze Armate in particolare.
Agli inizi degli anni ’80, all’apposizione di una lapide nel cimitero di Bolzano con i nomi delle vittime del Bozen, si è reagito con vibrate proteste parlamentari e altrettanto vibrate dichiarazioni del sottosegretario alla Difesa dell’epoca, il socialdemocratico Scovacricchi. Per chiudere, poi, con la consegna della medaglia al valore a Bentivegna.
Sono azioni e reazioni di tipo quasi meccanico, polemiche tra “i soliti noti”. Non c’è respiro; non c’è libero corso della necessaria revisione critica della nostra storia recente. Perché questo silenzio? Esso ha a che fare con questioni complesse e profonde, attinenti, nella sostanza, alla costruzione e alla gestione della memoria storica del nostro paese…” (15).
Ancora:
“Parlare di via Rasella ha un’importanza che va al di là del giudizio sull’episodio. Non si tratta di strappare il riconoscimento di un “errore”; facilmente classificabile, tra l’altro, sotto la voce “deviazione avventurista”. O meglio, non soltanto di questo. Via Rasella può, infatti, essere il punto di partenza di un processo di revisione. Non per “rovesciare i verdetti”; ma piuttosto per guardare a quelle vicende nella loro interezza e complessità, senza preconcetti e senza cancellazioni. La storia, nei lunghi decenni del dopoguerra, ha ampiamente dimostrato che il grado di riscatto dei popoli oppressi da dittature, esterne ed interne, non è automaticamente legato all’entità dei sacrifici comportati, al sangue versato o fatto versare; che, quindi, concorrono misteriosamente a questo progetto l’opposizione, anche nonviolenta, delle popolazioni, l’ampiezza e la qualità della partecipazione alle lotte, insomma, le varie forme che può assumere la contestazione del presente e la preparazione della libertà futura.
Rimettere in discussione le regole della “moralità rivoluzionaria” e perciò autoreferenziale, che ha sinora sottratto a qualsiasi verifica critica l’attentato del 23 marzo 1944, dovrebbe dunque portare a una rivisitazione intelligente di tutte le “Resistenze” armate e no, praticate in quegli anni lontani dalle forze dell’antifascismo e, più in generale, dal popolo italiano. A Roma, ma non solo…Non intendiamo pesare storicamente la qualità delle vittime, ammesso che sia possibile farlo. Rivendichiamo, piuttosto, e per tutti, il dovere civico della pietà. E anche il suo essenziale valore storico.
Essa riguarda i morti delle Ardeatine. Non vorremmo che essi fossero globalmente tirati in ballo, come numeri, a giustificazione delle periodiche condanne dei loro assassini. Vorremmo che essi fossero ricordati a uno a uno e in una grande “piazza” di Roma. Per quello che erano; e per la perdita irreparabile che la loro morte ha determinato.
Ma chiediamo anche un fiore per i riservisti del Bozen. Per la sorte che hanno subito, del tutto inconsapevoli; e per la condanna persecutoria, del tutto strumentale, di cui sono stati ogetto dopo morti.
Strano destino il loro: si aprono le porte della comprensione collettiva ai giovani di Salò, e perfino agli esponenti della X Mas; mentre l’Italia rifiuta anche un segno di ricordo ai contadini sudtirolesi che non erano mai stati volontari in nessun tipo di esercito e in nessun tipo di guerra.
Nel loro caso non occorre scomodare grandi e impegnativi disegni di pacificazione nazionale e di rispetto per i valori delle opposte fazioni. Niente fascismo e antifascismo, né questioni ideologiche; non c’è niente da riconoscere. Basta un semplice gesto di pietà” (16).
Prima di chiudere questa nota. Una polemica mi ha opposto direttamente a Bentivegna. Il 10 aprile del 1994, per L’Indipendente, pubblico l’articolo che segue:
“Giampiero Mughini coglie nel segno: “L’attentato di via Rasella fu una catastrofe per la popolazione civile e per gli antifascisti”. Anni fa, Marco Pannella disse: “Compagni del PCI, voi che siete così feroci con i Curcio, rendeteci conto dei 33 ragazzi alto-atesini fatti saltare in aria a via Rasella, perché portavano un’altra divisa e per cui sono morti poi i compagni di Giustizia e Libertà e gli ebrei alle Ardeatine!”. Da parte comunista si rispose rabbiosamente alla “provocazione” pannelliana. Antonello Trombadori, che fu uno dei GAP romani fino a quando il 2 febbraio del ’44 cadde nelle mani delle SS e Giorgio Amendola, allora comandante politico della Resistenza romana, querelarono Pannella per vilipendio delle forze partigiane. “L’Unità” scrisse che si era chiesta la liberazione dei criminali nazisti, dei brigatisti rossi; che si infangava la memoria dei partigiani, di Togliatti, della Resistenza, degli antifascisti…
Il senso politico di quella provocazione non fu colto (non si volle cogliere). In sintesi, si diceva che il commando partigiano di via Rasella, al pari di Curcio e soci, si era ispirato a un’unica filosofia terroristica, da condannare. Bestialità? Ora non c’è dubbio che l’attentato di via Rasella fu “un atto di guerra”, un atto che esige delle domande a cui finora non si è saputo (o voluto) rispondere: perché si volle colpire un battaglione non particolarmente responsabile di azioni repressive? Come mai non si tenne conto del prezzo, in vite umane, ostaggi, che si sarebbe pagato a causa della prevedibile vendetta nazista? Quale autorità politica o militare autorizzò l’azione di via Rasella? Che rapporto ha avuto via Rasella con i tentativi di Pio XII di porre in atto a Roma condizioni speciali, da far riconoscere alla città l’effettivo status di “città aperta”? Si tenne conto delle conseguenze che avrebbe avuto l’azione partigiana in seno al Corpo Volontari della Libertà, e agli stessi partiti? Questi organismi erano da tempo divisi su tutti i temi strategici e tattici della condotta della guerra partigiana. Era noto, poi, che in quel momento importanti capi del movimento di liberazione, nella sua ala “moderata”, si trovavano detenuti, in mano tedesche o fasciste? C’è poi un altro aspetto che si merita di essere dibattuto. Si tratta della necessità di ripercorrere, da via Rasella, le tappe dello sviluppo della teoria della “rivoluzione armata”, via maestra del socialismo. Se è vero che si ripudia la violenza, se parole come democrazia, dialogo e convivenza civile hanno un qualche significato, allora si ha anche il dovere di passare al vaglio della critica e della ragione passaggi controversi e nodali della nostra storia recente. E via Rasella rappresenta uno di quei nodi”.
Una risposta, di Bentivegna, è contenuta nel libro Senza fare di necessità virtù:
“…Mughini e Vecellio, malgrado tutto quello che era stato scritto fino ad allora sulla ferocia del nazismo, dei suoi metodi e dei suoi gratuiti delitti, rinverdivano i fasti della madre di tutte le teorie attendiste che faceva di via Rasella “un atto politicamente inutile e militarmente sbagliato”, riproponevano per la guerra partigiana contro Hitler lo schema della “non violenza” gandhiana. E in questo modo le azioni partigiane contro tedeschi e fasciste diventavano atti di “terrorismo” come quello delle “brigate rosse” (o della mafia?)…Trovavo del tutto discutibili anche le dichiarazioni di Vecellio, il quale divideva la Resistenza in partigiani “buoni”, non comunisti, che sparavano ai tedeschi (e che tutto sommato non davano fastidio a nessuno, anche se – avendo di fronte i nazisti – anche loro rischiavano la pelle) e partigiani “cattivi comunisti” che sparavamo ai tedeschi e così facendo, potevamo addirittura mandare all’aria le trame intessute dal papa Pacelli per evitare ai nazisti le difficoltà politiche e militari che avrebbe provocato loro un’efficace attività militare della Resistenza e dell’insurrezione popolare. Ma la politica di papa Pacelli aveva obiettivi e finalità diverse dalla politica del nuovo Stato italiano, democratico e antifascista, che si stava formando; che aveva dichiarato guerra alla Germania nazista; che aveva ordinato a tutti i cittadini di colpire il nemico e i collaborazionisti in tutti i modi e ovunque. Ovviamente Vecellio riprendeva anche la vergognosa tesi per la quale via Rasella era stata organizzata da comunisti per provocare la rappresaglia, al doppio scopo di scuotere l’apatica popolazione romana e di eliminare i politici antifascisti non comunisti che erano prigionieri, insieme a molti comunisti, dei tedeschi…” (17).
Con qualche leggera sfumatura (per esempio: “trovo molto discutibili anche alcuni argomenti di Vecellio…”), Bentivegna queste cose me le scrisse in una lettera datata 28 aprile 1994. Ne riporto alcuni stralci:
“…Non mi esprimo invece sull’ipotesi avanzata da Vecellio che l’azione di via Rasella fosse stata finalizzata dai comunisti alla rappresaglia, al doppio scopo di scuotere l’apatica (?) popolazione romana (Vecellio evidentemente ignora cosa hanno fatto i romani durante l’occupazione nazista e non ricorda che Kappler giustificò il mancato appello alla popolazione e ai partigiani romani, prima di dare inizio alla rappresaglia delle Ardeatine, con la paura che aveva di Roma, da lui definita “città esplosiva”) e di eliminare i politici antifascisti non comunisti che erano prigionieri, insieme a molti comunisti, dei tedeschi.
Sono convinto che Vecellio, rileggendosi, rimarrà egli stesso smarrito per questa sua caduta di stile, oltre che di logica: non credo che egli voglia adeguare la sua capacità critica al livello della contorta dietrologia di un questurino borbonico. È un infortuno, e non parliamone più.
Adesso, però, sono io che vi pongo un problema: perché in una gran parte dell’immaginario popolare sono così diffusamente distorti il ricordo e la interpretazione della questione di via Rasella.
All’origine di ciò è senza dubbio la labilità della memoria storica. Vi aggiungerei l’interesse che hanno avuto molti a distorcere questa memoria. Chi erano?
Anzitutto i nazisti e i collaborazionisti, che cercarono subito (vedi Bruno Spampanato, direttore del “Messaggero” durante l’occupazione nazista) e cercano ancora (vedi la vedova Almirante sulle colonne dello stesso giornale l’8 aprile scorso) di scaricare sui partigiani le responsabilità delle truppe di occupazione tedesche e dei loro collaboratori.
Poi quanti, in particolare i governanti di Salò e il Vaticano, ma anche il maresciallo Kesselring, i quali, avendone il potere e sapendo, non hanno fatto nulla per impedire la strage delle Ardeatine o per modificarne i tempi e i modi di esecuzione. Come Voi ben sapete, colpevoli silenzi hanno caratterizzato quei nove mesi di occupazione nazista di Roma.
Un esame più attento merita l’attendismo (da non confondere con il movimento antifascista “non violento” di Aldo Capitini), da molti praticato in totale buona fede. Anche nel PCI esistevano opzioni attendiste che in qualche momento prevalsero.
C’era l’attendismo umanitario e non violento. Per qualche tempo, subito dopo Porta San Paolo e la caduta di Roma nelle mani dei tedeschi, ne fui coinvolto anch’io. Debbo però ammettere che c’era in me anche un inconscio richiamo all’istinto di conservazione: quando lo portai al livello di coscienza il mio attendismo svanì.
C’era l’attendismo dei “rivoluzionari”, di coloro, cioè che affermavano di volersi conservare per la rivoluzione socialista.
E c’era poi l’attendismo opportunistico degli imboscati…
…Vi porgo due risposte, che forse si intersecano:
– perché è più facile insultare un qualsiasi Bentivegna, soprattutto se è indifeso o quasi, che Amendola, o Pertini, o Bauer, e comunque schieramenti politici di ben altra consistenza che la mia persona;
– perché gli interessi che hanno inciso in modo determinante sulla deformazione della verità storica comportavano l’esigenza di deformare il significato politico e militare dell’azione di via Rasella (quanto si vuole criticabile, ma senza ricorrere al falso e all’irrazionale) continuando a presentarlo come un atto terroristico individuale e irresponsabile di un giovanotto comunista, esaltato e vile, e non come un fatto tra i tanti, inserito nel contesto dell’occupazione nazista di Roma, della resistenza della città, dei bombardamenti alleati, della guerra di liberazione che si combattuta contro i tedeschi anche a Roma e nei suoi immediati dintorni dal 9 settembre del 1942 al giugno del 1944 con notevole efficacia lesiva politica e militare.
Su questi filoni, a mio avviso, andrebbero ricercate le cause dello smarrimento che ancora oggi colpisce i molti che ricordano male o sanno il falso sui fatti di via Rasella. Io credo, Vecellio, che le uniche domande che attendono ancora risposta siano soltanto queste…”.
Ripeto: probabilmente se mi fossi trovato nelle stesse condizioni di Bentivegna e compagni, e sempre che fossi riuscito a vincere “l’inconscio richiamo all’istinto di conservazione” (naturalmente lo si sa solo quando ci si trova), avrei anch’io imbracciato un fucile contro l’oppressore nazista e i complici repubblichini; molto probabilmente ci si sarebbe comportati, ad averne la forza e la capacità, come Bentivegna; ma, questo premesso, si resta comunque convinti che non siano le uniche domande che ancora attendono risposta…
1) Alberto Franceschini, Mara, Renato e io. Storia dei fondatori delle BR, Mondadori, 1988, pag.3.
2) Robert Katz, Roma città aperta, Mondadori, 2003 pag.23.
3) Robert Katz, Morte a Roma, Editori Riuniti, 1971 pag.11.
4) Robert Katz, Op. cit., pag.16.
5) Robert Katz, Roma città aperta, Mondadori, 2003, pag.23.
6) Mimmo Franzinelli, Le stragi nascoste, Mondadori, 2002, pag.12.
7) Rosario Bentivegna, Achtung Banditen!, Mursia, 1983, pag.168.
8) Rosario Bentivegna, Senza fare di necessità virtù, Einaudi, 2011, pag.341.
9) Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, 1953, pagg.226-227.
10) Roberto Battaglia, Op. cit., pag. 228.
11) Alberto ed Elisa Benzoni, Attentato e rappresaglia, Marsilio, 1999, pagg.10-11.
12) Alberto ed Elisa Benzoni, Op. cit., pag.11.
13) Alberto ed Elisa Benzoni, Op. cit., pag.11.
14) Alberto ed Elisa Benzoni, Op. cit., pag.11.
15) Alberto ed Elisa Benzoni, Op- cit., pagg.110-111-112.
16) Alberto ed Elisa Benzoni, Op. cit., pagg.122-123.
17) Rosario Bentivegna, “Senza fare di necessità virtù”, Einaudi, 2011, pagg.338-340-341.