Proposta Radicale 11/12 2023
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Tarizzo

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Legittimazione e parricidio

di Domenico Tarizzo

Dice un padre, parlando dei terroristi-bene arrestati a Milano nell’ottobre del 1980: “Dal ‘68 non mi sono lasciato trascinare. Non ho mai creduto che la cultura e la morale, in quanto tali, potessero essere vecchi o borghesi”. E un altro: “Credo che più che alle idee professate dai padri, dobbiamo badare al fatto che essi hanno dato, e per molti anni di seguito, il primato alla politica, trascurando tutto il resto”. Così hanno portato i figli a confrontarsi su quel piano. Per semplificare si può dire che i figli possono avere pensato: “Questi genitori dicono bene, ma non fanno, e noi faremo”. E poi non dimentichiamo che ci sono dei fatti elementari, nei rapporti coi figli che contano più delle idee politiche e morali professate.

Considerazioni valide per i terroristi odierni. Dal 1968, praticamente, in Italia due persone evolute s’incontravano e parlavano soltanto di politica. Ai ragazzi non è venuta alcuna educazione sentimentale. Nessuno che si sia mai preoccupato, anziché dei crimini dell’imperialismo, di come si parla con una donna, di come si promuove gioia, di come si può limitare l’imperio di Thanatos. Implicita era la becera semplificazione: “Di occuparci di Eros non abbiamo tempo. Se ne parlerà dopo la rivoluzione”. La vecchia favola, insomma, dell’avvento dell’uomo nuovo, sempre rimandato.

 

Il “parricidio” del ‘68

Qualcuno, a dir il vero, a stento cercava di intromettere parole diverse: certe femministe, per esempio. Ma nel complesso anche le donne, storicamente determinate, subivano il fascino del consolidato, della violenza come seducente. Nel partito armato contemporaneo come nel movimento terroristico antizarista le donne entravano in posizione subordinata: con la nostalgia di un padre violento, fallico-sadico, da reincarnare nel leader del gruppo, o perché figlie di uomini umiliati da un’esistenza subordinata, burocratica, da “vendicare”. Un fantasma di onnipotenza presiedeva a scelte che si volevano politiche; che poi, nell’uccisione del presidente dei giornalisti milanesi siano implicati diversi figli di dirigenti, di giornalisti di esponenti del mondo della carta stampata che in modi diversi avevano “fatto carriera”, fa pensare al parricidio come movente fin troppo scoperto.

Da qualche parte si è sostenuto che il terrorismo prenderebbe consistenza solo nel ‘77 e non avrebbe nulla a che fare col movimento del ‘68. Mi sembra vero, ma anche una forzatura, perché accanto ai grandi temi riformisti e libertari, anche nel ‘68 (che pure conobbe forti formazioni reattive, democratiche, illuministe) il parricidio era presente, e in modo grave. Fu nel ‘68, anzi un poco prima, che si costituì la risaia, il grande serbatoio giovanile, “spontaneistico”, dal quale avrebbero attinto i vecchi, i professionisti “leninisti”, i duri dell’organizzazione clandestina, militare, “parallela”. Già allora si teorizzava sulla totalità del sistema, in cui tutti erano, cattolicamente, colpevoli: giornalisti, insegnanti, genitori, oltre che i poliziotti e i “padroni”. Orbene, chi crede nel “sistema” come male onnipotente, non può credere nella democrazia, che si fonda sul principio speranza (di cui il terrorismo decreta la fine). Per un democratico, fa parte dell’essenza stessa della democrazia che ci siano giornalisti che esprimono posizioni diverse. Per un sistemista chi non ripete pedissequamente gli slogan della propria parte politica è un nemico, un servo del sistema: non un uomo pensante, ma una funzione da eliminare. Ma nel ‘68 c’era ancora il sospetto che dietro la funzione ci fosse l’uomo, con affetti, emozioni, amori e sofferenze, una “persona da rispettare”. Dubbio che veniva rapidamente eliminato con un’alzata di spalle: debolezze piccolo-borghesi, sentimentalismi indegni di “un vero rivoluzionario”. Sergei Necaev, col suo cinico fanatismo, indicava la strada, la modalità del rapporto interumano. Un Necaev ripulito da ogni sentimentalità bakuninista, rimesso in circolazione col ridicolo berrettuccio a visiera di Lenin. Ma appunto quel leninismo, per quanto fortemente immaginario, stava a indicare il persistere di una progettualità ridotta oggigiorno a pura forma, alibi.

Si era partiti da via Rasella. Confesso il mio disagio a parlare di eventi tanto lontani. Sono cresciuto durante l’occupazione nazista, ho visto i morti ammazzati nelle strade. Alla fine di aprile del ‘45 ho visto “Ben” e Claretta appesi per i calcagni a piazzale Loreto. La folla urlava con gli occhi colmi di voluttà, soprattutto le donne in prima fila gridavano di felicità. Ma lì, meno di un anno prima, i fascisti avevano esposto come ammonimento i corpi di quindici partigiani fucilati. Il massacro stava da entrambe le parti. Anche quelli tra noi antifascisti che non erano per la violenza come oggetto di culto, la ammettevano come “dura necessità”. La guerra aveva eliminato i tabù, le formazioni reattive che normalmente limitano il bisogno di uccidere altri uomini.

Vennero poi altre razionalizzazioni. Si pestava un poveraccio che voleva andare a lavorare? Era un crumiro, e la lotta di classe non ammette debolezze. Continuamente l’umano viene rinfacciato come debolezza. L’irato viene presentato come seducente, e forse così viene vissuto: il matto, il caldo, il violento sono in realtà amati dall’arcaicità femminile, o perlomeno scambiati per seducenti. La nostra antropologia nazional-popolare non vede che l’irato è un ingenuo, uno che non sa nascondere la frustrazione, l’invidia, l’aggressività. Mentre dopo Freud noi abbiamo imparato a scoprire l’ostilità nei nostri sogni, nelle fantasie, nei gesti “innocenti”, quindi a simbolizzarla e a desimbolizzarla lui, l’iracondo, ha bisogno di gesti drastici, palesemente ostili, definitivi. Deve uccidere.

L’ira è buffa. Al punto che la si pensa sempre in relazione a qualcosa che ha l’andamento di un fumetto per bambini. Si dice: uno scoppio d’ira. Qualcosa, o qualcuno, che esplode. Per analogia, il bisogno di giustizia viene assimilato allo scoppio d’ira: l’insurrezione popolare contro il tiranno è vista come uno scoppio. Per questo il terrorista e visto da certe mamme romantiche come un giustiziere: la massaia che non ne può più della sua squallida vita quotidiana, che non sa come sfuggire alla noia, vede nel terrorista il vendicatore.

I più – i giovani, le donne frustrate, gli invidiosi – scambiano l’ira per passione. La riflessione viene condannata come inibizione. È tipicamente italico? Da noi, si dice con ammirazione di qualcuno che in realtà dovrebbe essere visto più comunemente come un invidioso (nel senso kleiniano): “È un tipo sempre incazzato”. Il Bambino Imbronciato è seducente: Bogart che ha sempre qualcosa da rinfacciare alle donne (come in Casablanca) è applaudito dagli autonomi delle periferie. In realtà il movimento del ‘77 non è “grande”: è uno spettacolo per intellettuali e una torta risaia per gli assassini.

 

Il potere democristiano: niente riforme più terrorismo

L’ammirazione nazional-popolare per l’iracondo fa da concime alla risaia. L’indignazione del perbenista contribuisce al fraintendimento: entrambi, l’iracondo e il conformista, si accontentano di apparenze. Il potere democristiano intanto fa marcire i problemi, consentendo la razionalizzazione della violenza. Sembra un circolo chiuso: niente riforme, più terrorismo. Il terrorismo uccide i riformatori e rafforza il potere democristiano. Il Pci difende il terrorismo nella Resistenza perché si crede da esso legittimato: il partito dei fucilati fa dimenticare i crimini di Stalin, così come gli assassini di oggi legittimano il conformismo. Il terrorismo è, non solo oggettivamente (come ammettono i marxisti), ma soggettivamente reazionario.

Per tornare a via Rasella. Mi pare che allora i terroristi fossero mossi da un eccesso di Logos (ogni eccesso, anche quello del Logos, è un sintomo). Un calcolo a freddo voleva l’odio esplicitato, il terrore dell’occupante che giungesse fin sull’uscio dell’indifferente comare romana. Altra cosa fu la Resistenza altrove, dove la partecipazione, la passione e il retaggio socialista-democratico convogliarono giovani e anziani alla lotta antifascista. Per esempio, il “freddo” calcolo di via Rasella non ci fu nelle vallate piemontesi, dove non solo il PCI, ma tutti gli antifascisti parteciparono non col terrore ma incarnando un modello democratico alternativo assai sentito dalla gente (anche se era un modello prefascista d’élite). Quel modello può essere trasportato ai giovani nostri?

La mancanza di progetto dei terroristi è omologa alla mancanza progettuale dei politici. Piuttosto, mi sembra che tutti coloro che seguono con simpatia l’azione radicale per nuovi contenuti e modalità della vita politica, dovrebbero meditare sui guasti di una propaganda filopulsionale che rischia di cacciare la Ragione dall’interpersonale. Cacciata la ragione già ammoniva Wilhelm Reich, non troviamo l’uomo democratico ma il violento e il filisteo. Meglio la cravatta. Chi sono questi noi? Così come l’arcaicità femminile non è solo nelle donne ma nelle parti masochistiche di donne e uomini, così non alludo col “poi” solo agli psicanalisti ma a quanti hanno acquisito, per varie strade, la coscienza dell’Altro come relazione da costruire non nella violenza, nell’interdipendenza, nel terrore, ma nell’intersoggettività. Il personalismo di Emmanuel Mounier, aveva già detto qualcosa in merito agli anni Trenta.

iMagz