Proposta Radicale 13 2023
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La nostra libertà è la vittoria ucraina

di Mario Draghi

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Battaglie per i diritti. Cosa mi ha insegnato Luca

colloquio con Maria Antonietta Farina Coscioni (a cura di Veronica Femminino)

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Caso Moro, quel patto tacito tra istituzioni e B

intervista a Guido Salvini 

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In/giustizia. Il calvario del rettore filosofo

di Gualtiero Donati

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Turchia, anni duri per le minoranze

di Murat Cinar

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Il fotografo che sfidò l’assurdo “Codice Hays”

di Ted Baxter

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Rapito di Bellocchio, appello alla resistenza

di Michele Minorita 

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Rocco Scotellaro, ragazzo pieno di fede

di Leonardo Sciascia

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Verducci, sorprendente connotazione emotiva

di Roberto Deriu

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La nostra libertà è la vittoria ucraina

La nostra libertà è la vittoria ucraina

di Mario Draghi

La brutale invasione russa dell’Ucraina non era un atto di follia imprevedibile ma un passo premeditato di Vladimir Putin e un colpo intenzionale per l’Unione Europea. I valori esistenziali dell’Ue sono la pace, la libertà e il rispetto della sovranità democratica ed è per questo che non c’è alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i loro alleati se non garantire che l’Ucraina vinca questa guerra. Accettare una vittoria russa o un pareggio confuso indebolirebbe fatalmente altri stati confinanti e manderebbe un messaggio agli autocrati che l’Ue è pronta a scendere a compromessi su ciò che rappresenta, su ciò che è. Segnalerebbe inoltre ai nostri partner orientali che il nostro impegno per la loro libertà e indipendenza – un pilastro della nostra politica estera – non è poi così incrollabile. Vincere questa guerra per l’Europa significa avere una pace stabile, e oggi questa prospettiva appare difficile. L’invasione della Russia fa parte di una strategia delirante a lungo termine del presidente Putin: recuperare l’influenza dell’Unione Sovietica e l’esistenza del suo governo è ora intimamente legata al suo successo. Ci vorrebbe un cambiamento politico interno a Mosca perché la Russia abbandoni i suoi obiettivi, ma non vi è alcun segno che un tale cambiamento si verificherà (…)    

Le sfide che dobbiamo affrontare – dalla crisi climatica, alla necessità di rafforzare le nostre catene di approvvigionamento critiche, alla difesa, soprattutto nell’Ue – richiederanno investimenti pubblici sostanziali che non possono essere finanziati solo attraverso aumenti delle tasse. Questi livelli più elevati di spesa pubblica eserciteranno un’ulteriore pressione sull’inflazione, in aggiunta ad altri possibili choc dal lato dell’offerta di energia e altri beni (…)    

In tutto questo, l’Ue dovrà affrontare sfide sovranazionali senza precedenti. L’Ue è stata per molti versi al centro dell’esperimento di globalizzazione, ma considerare la creazione del mercato unico e dell’euro solo come un’estensione di questo processo sarebbe una lettura parziale. Il progetto è sempre stato più ambizioso. L’Ue è stata eccezionale in due importanti dimensioni.

Il modello sociale europeo ha garantito una rete di sicurezza più solida per coloro che sono rimasti indietro rispetto al resto del mondo. Inoltre, l’Ue disponeva di regole e istituzioni collettive forti che, per quanto imperfette, garantivano una maggiore protezione contro gli effetti collaterali del libero mercato. Ma l’Ue non è stata concepita per trasformare il peso economico in potere militare e diplomatico. Ecco perché la risposta europea alla Russia rappresenta una svolta.

Ora, la guerra in Ucraina, come mai prima d’ora, ha dimostrato l’unità dell’Ue nel difendere i suoi valori fondanti, andando oltre le priorità nazionali dei singoli paesi. Questa unità sarà cruciale negli anni a venire. Sarà fondamentale per ridisegnare l’Unione in modo da accogliere al suo interno l’Ucraina, i paesi balcanici e quelli dell’Europa orientale; per organizzare un sistema di difesa europeo che sia complementare e accrescitivo rispetto alla Nato; e per superare tutte le altre sfide sovranazionali che dobbiamo affrontare collettivamente: in primis la transizione climatica e la sicurezza energetica, per adattare le nostre istituzioni, e soprattutto il processo decisionale, al nuovo contesto. E tutto questo senza indebolire la protezione sociale che rende l’Ue unica.

Insisto sull’unità perché è l’unica strada percorribile: i singoli paesi europei, per quanto forti, sono troppo piccoli per affrontare queste sfide da soli. E più queste sfide sono grandi, più il cammino verso un’unica entità politica, economica e sociale, per quanto lungo e difficile, diventa inevitabile. Il nostro viaggio, iniziato molti anni fa e accelerato con la creazione dell’euro, continua.

Oggi ho parlato dei nostri tempi difficili. Ma i tempi non sono mai stati facili. Sono arrivato qui nell’agosto del 1972. Mentre ero studente, c’è stata la guerra dello Yom Kippur, diversi choc dei prezzi del petrolio, il crollo del sistema monetario internazionale, il terrorismo imperversava in tutto il mondo e l’inflazione era fuori controllo, solo per citare alcuni eventi di quel tempo, e naturalmente eravamo in piena Guerra fredda. Siamo stati in grado di superare queste sfide, e sono certo che lo saremo anche in futuro, grazie a donne e uomini preparati e ispirati.

(Boston, Massachusetts Institute of Technology, 7 giugno 2023)

Battaglie per i diritti, cosa mi ha insegnato Luca

Battaglie per i diritti, cosa mi ha insegnato Luca

colloquio con Maria Antonietta Farina Coscioni

È una donna che non teme di esporsi, di dire quello che pensa. Con grande energia ha raccolto l’eredità morale del marito e ne ha fatto tesoro per continuare a lottare. Crede in una Italia più libera, dove ognuno abbia uguali diritti, nell’ascolto, nella comprensione delle ragioni di tutti, nel dialogo e nel confronto, soprattutto con i più fragili. È Maria Antonietta Farina Coscioni, presidente dell’Istituto Luca Coscioni, autrice e conduttrice de La Nuda Verità su Radio Radicale, membro di segreteria del Partito Radicale. Le abbiamo chiesto di raccontarsi a DonnaClick, del suo passato, del suo presente ma soprattutto della sua visione di futuro. Ecco come ha risposto alle nostre domande.

Sin da giovanissima lei si è impegnata per la difesa dei diritti umani e delle libertà civili. Come nasce questa sua scelta di vita?

Amavo insegnare. Amavo le mie studentesse e i miei studenti. Amavo il rapporto che riuscivo a creare e instaurare con loro. Uno scambio reciproco. Impegno e fiducia. Paure e speranze. Fragilità e forza. Successi e delusioni. Avrei potuto diventare un’insegnante a tutti gli effetti. Ma nella mia vita è piombata la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), malattia degenerativa del sistema nervoso che paralizza i muscoli, compresi quelli respiratori e porta alla morte per soffocamento. Malattia che ha colpito nel ‘95 Luca con cui ero fidanzata. Abbiamo iniziato a confrontarci con il suo male. Una scelta personale, quindi, se così si può dire, legata alla condizione della persona che poi è diventata mio marito, Luca Coscioni. Con lui e al suo fianco, abbiamo reso “politica” la malattia, ne abbiamo fatto uno strumento di lotta per il riconoscimento dei diritti dei malati e dei disabili, battaglia per la libertà di ricerca scientifica contro ogni forma di proibizionismo ideologico che impedisce di sperare a milioni di malati nel mondo. Più in generale per la dignità della vita e della sua fine. Abbiamo “cercato di sottolineare che esiste la ricerca scientifica, la bioetica in laboratorio e la bioetica e la ricerca sulla propria pelle”. Luca e la malattia sono stati decisivi per il mio impegno, che però probabilmente in altri modi e percorsi, questi ‘interessi’ li avrei ugualmente perseguiti, perché sono ‘miei’.

Cosa sono per lei i diritti?

C’è una massima evangelica che vale per credenti o non credenti: non fare al prossimo quello che non vorresti fosse fatto a te. I diritti sono facoltà che si possono esercitare, non obblighi. Sono qualcosa di inalienabile che appartiene solo alla nostra coscienza. Naturalmente avendo cura che non si procuri danno fisico o psichico al nostro prossimo. E per me il “fare” in politica – come i luoghi per le persone – conta solo se al centro ci sono gli esseri umani. Solo questo è importante. Non è come in un videogame, dove a ogni quadro c’è un pericolo, e un premio se lo superi. Arrivare alla fine è roba per giocatori forti, motivati e appassionati.

L’Italia, a differenza di altre nazioni, è un Paese nel quale esistono ancora leggi proibizioniste. Perché a suo avviso?

Forse perché siamo un paese profondamente intriso di malinteso cattolicesimo. Gaetano Salvemini diceva che in questo paese si considera reato quello che per alcuni è peccato, salvo considerare peccato (e dunque con possibilità di assoluzione), il reato. Premetto: ho grande rispetto per i credenti, e rifuggo da ogni tipo di generalizzazione. Però credo che si paghino ancora delle incrostazioni di cui è difficile liberarsi. Incrostazioni che appartengono anche alla sinistra. Non per un caso quando c’era ancora il Partito Comunista si parlava di “altra chiesa”; il PCI non c’è più, certi residui sopravvivono.

Lei ha condotto innumerevoli battaglie per i diritti, anche con forme di protesta quali lo sciopero della fame…

Quelle lotte e quelle battaglie sono ancora attuali e occorre ancora battersi per l’affermazione di quei diritti di cui ho fatto cenno prima: la libertà di ricerca, ma anche la lotta contro ogni forma di discriminazione e di violenza, a partire dai più fragili e indifesi. Basta ascoltare un notiziario TV o leggere una cronaca di giornale per rendersi conto di quanto sia ancora lunga la strada da percorrere. La salute mentale in primis è argomento serio e le approssimazioni sono sempre da evitare. Bisogna contenere, contrastare, scongiurare pregiudizi che attribuiscono al sofferente psichico una maggior prevalenza di azioni violente rispetto alla popolazione generale. Perché il disagio mentale, in generale la sofferenza psichica sono lì, dietro l’angolo. Con questa convinzione, è iniziato il mio viaggio all’interno delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS). Sono le strutture di cura che hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari, nate per accogliere, per curare gli autori di reato giudicati infermi o seminfermi di mente. Da nord a sud, isole comprese. Un viaggio lungo e niente affatto semplice. Dentro la malattia mentale, il disagio psichico, la comunità dei folli rei, le legislazioni “speciali” che ancora resistono e il percorso della tutela del diritto alla salute mentale non affatto garantito.

Nella sua vita c’è anche l’esperienza politica in qualità di deputata. Si è occupata di molte tematiche, tra le quali, per l’appunto, la salute mentale di chi è detenuto. Che ricordo ha di quegli anni?

Per tanti versi sono stati anni impegnativi, faticosi, esaltanti. L’ultimo viaggio all’interno degli Ospedali psichiatri giudiziari, prima della chiusura, è stato toccante. A volte riaffiorano ricordi dei reclusi in quei luoghi che per fortuna sono stati aboliti. Piccoli gesti, sguardi, particolari che a volte colpiscono e “narrano” più o meglio di tanti discorsi. Ho avuto modo di fare esperienze importanti, conoscere persone impegnate quotidianamente che svolgono un lavoro prezioso anche se poco conosciuto. Qualche delusione per non essere riuscita a fare tutto quello che ritenevo necessario a livello parlamentare, compensata da riconoscimenti di colleghi anche a volte avversari politici, e a distanza di diversi anni. Non nascondo che sarei disposta, se si presentasse l’occasione, di ripetere quel tipo di impegno, forte della passata esperienza. Non sono antiparlamentare, credo fortemente nelle istituzioni, che vanno semmai recuperate alla loro originaria funzione, quella prevista dalla Costituzione.

Quale è l’insegnamento più importante che le ha lasciato suo marito, Luca Coscioni?

Non arrendersi. Se si è convinti della positività della propria proposta, insistere anche a costo di trovarsi isolati. Si deve opporre il potere della “parola” alle “parole” del potere.

Libertà di ricerca scientifica e dignità della vita: a 17 anni dalla sua morte è ancora vivo il messaggio di Luca Coscioni. Ma a che punto siamo, nel nostro Paese?

Credo si sia acquisita una maggiore consapevolezza e rispetto nei confronti di chi è debole, sofferente, solo, indifeso. Il messaggio di Luca credo sia più compreso oggi, rispetto a quando era tra noi. Le lotte che abbiamo insieme condotto in quegli anni sono più “sentite”; quello che conforta, è che sono le nuove generazioni a essere più sensibili ai temi che abbiamo agitato. Si pongono gli stessi nostri interrogativi; lottano per le stesse risposte, per l’affermazione di diritti considerati inalienabili. Rimane, tra gli altri, certo il tema del fine vita… nutrito più di cronaca che di dibattito parlamentare, il problema del suicidio assistito ha trovato una prepotente collocazione nei media, capaci di sollevare un turbinio di emozioni, piuttosto che nel luogo deputato a legiferare. Non è un gioco quello di battersi per dei diritti, anche quando tatticismi e opportunismo parlamentari sembrano ostacoli insormontabili. Non si gioca sulla pelle dei più fragili perché un fatto è certo: per morire non si dovrebbe aprire una trattativa con il Parlamento. Così come è amaro sentire il Presidente della Repubblica Mattarella che esorta chi governa a operare perché i nostri scienziati e ricercatori lascino l’Italia perché vogliono lasciarla, e non perché devono lasciarla. C’è ancora tanta ipocrisia. È l’ostacolo maggiore da rimuovere.

Che ricordo ha di Marco Pannella?

È stata una delle persone più importanti della mia vita. Con Luca vivo, Marco Pannella è stata la persona che abbiamo incontrato nel nostro percorso di ricerca e di lotta. Ci siamo riconosciuti, perché entrambi, letteralmente incarnavano quello in cui credevano e per cui hanno tenacemente lottato. La politica era impegno; e impegno, personale, fisico, era anche, se non soprattutto ascolto, dialogo, attenzione. La carezza che ti arrivava quando non te lo aspettavi, ma ne sentivi l’urgenza; il sorriso che ti scuoteva dal momento di stanchezza; e anche, a volte, la rude sollecitazione a recuperare in te le risorse che credevi di avere esaurito; e lui, prima con Luca, poi senza, invece sapeva esserci. Di lui ho una quantità di ricordi. Potrei parlarne per ore, e lo confesso: non è facile trovare le parole giuste per dare voce a quello che provo nei suoi confronti. Amore, forse, nel senso più ampio e autentico del termine.

Nel suo percorso personale ha conosciuto tantissime persone che hanno lottato per vari motivi. Di chi ha un ricordo più vivido, e perché?

Non vorrei fare torto a nessuno. Marco Pannella, certamente. Umberto Veronesi. Rita Levi Montalcini, Josè Saramago e sua moglie Pilar… Sono i primi nomi che mi vengono in mente, ma potrei farne altri.

Cosa pensa della attuale condizione femminile in Italia?

Se si considera che solo il 1 febbraio 1945 è stato emanato il decreto che conferiva il diritto di voto alle italiane maggiorenni (e allora la maggiore età era a 21 anni) si capisce che tanto si è fatto. E però nel lavoro in tante situazioni le donne sono discriminate e pagate meno degli uomini; e ancora non siamo riuscite a scardinare una certa cultura maschilista che vede la donna come un oggetto da usare e abusare. Basterebbe pensare ai tanti casi gravissimi di violenza fisica e psichica di cui siamo vittime. Violenza, crudeltà e morte che si consumano esattamente in quel “privato” che si vuole intoccabile. Violenze e crudeltà anche quando sono una quantità di vere e proprie violenze invisibili, più odiose, inaccettabili e insultanti per le donne, spesso costrette a subirle in silenzio. E cosa dire dell’applicazione della legge 194 in tema di aborto a 45 anni dalla sua approvazione? Circa otto ginecologi su dieci sono obiettori di coscienza. Molte donne hanno difficoltà ad accedere alla interruzione volontaria di gravidanza. Tasso di natalità e fecondità tra i più bassi di sempre. Ci sono 1800 consultori, il 60% in meno di quanto stabilito dalla legge. Questo impedisce a molte donne e adolescenti di rivolgersi a tali strutture. Oppure c’è logica nel malumore da parte del Governo verso la (non ancora attuata) scelta dell’Agenzia Italiana del Farmaco per la gratuità della pillola anticoncezionale? Si dice, a ragione, che è meglio scongiurare aborti e interruzioni di gravidanza. Perché si fa di tutto e di più per boicottare questo provvedimento che si ispira a una ragionevolezza perfino elementare è qualcosa che non si comprende. Tutti coloro che si dichiarano contrari all’aborto dovrebbero essere in prima fila a chiedere informazione sessuale, pillola, anticoncezionali…

In tema di comunicazione, anche tramite ‘La Nuda Verità’, affrontando diverse tematiche, talvolta ‘scomode’, lei ha più volte posto l’accento sulla necessità di informare senza demonizzare. Come si raggiunge questo obiettivo?

Un aspetto cerco sempre di coltivare: la preferenza per il linguaggio diretto, meglio del detto-non detto; dell’allusione, dell’indovinello. L’ideale è il linguaggio semplice. Il linguaggio della conoscenza, della libertà e della democrazia. Questo è il trinomio per tentare di spiegare “la natura della libertà”. Da conquistare, difendere, nutrire ogni giorno, ogni ora. Che uso viene fatto, o non viene fatto, ad esempio, della conoscenza? Purtroppo occorre prendere atto che da sempre una delle forze che governano le nostre società è la menzogna: menzogna e disinformazione cosciente, consapevole, abilmente architettata e posta in essere. Il rischio è grave, il pericolo reale: la menzogna infetta e inquina la politica, la società, i mezzi di informazione, la conoscenza scientifica, gli strumenti educativi e formativi, la produzione culturale. Cominciamo dalle scuole. Aiutiamo i genitori che devono imparare a parlare e soprattutto ascoltare i figli…è un lavoro tutto da fare, e che per dare i suoi frutti chiede pazienza e investimenti”.

(a cura di Veronica Femminino)

Caso Moro, quel patto tacito tra istituzioni e BR

Caso Moro, quel patto tacito tra istituzioni e BR

intervista a Guido Salvini

Guido Salvini, magistrato che ha condotto delicate indagini sul terrorismo di destra e sinistra è anche stato consulente della seconda Commissione Parlamentare di inchiesta sulla vicenda Moro e della Commissione Antimafia. In questa veste ha redatto una consulenza sostanzialmente inedita, interessante perché ci sono diverse novità in un tentativo per la prima volta di ricostruzione tecnica che cerca di superare quello che si sapeva senza essere dietrologica. La pubblicheremo nei prossimi numeri della rivista. Qui un’intervista allo stesso Salvini che illustra il suo lavoro.

Ritiene che il sequestro Moro sia stato deciso e pianificato solo dalle Brigate Rosse o che vi sia stata una qualche forma di eterodirezione?

Non direi una eterodirezione ma il mantenimento degli eventi su determinati binari da parte degli attori entrati sulla scena a sequestro avvenuto. L’obiettivo che si erano proposte le Brigate Rosse sequestrando Moro era quello di colpire ad alto livello il SIM, lo Stato imperialista delle multinazionali. Ma non sono riuscito nemmeno a scalfirlo, ammesso che esistesse. Incolti, salvo l’eccezione di cui tra poco dirò, impreparati a gestire un discorso al di fuori di quello delle armi, chiusi nella loro vetusta gabbia ideologica i brigatisti non si sono resi conto che il percorso che avrebbe avuto la prigionia dell’ostaggio sarebbe stata in realtà seguito, condizionato e in qualche modo diretto da altri che hanno colto l’occasione di quanto accaduto per dirigerlo ai propri fini. Era uno scenario più grande di loro e in questo senso paradossalmente le BR sono rimaste confinate nel solo ruolo di esecutori. Non è un caso che dopo il sequestro, con il quale in realtà non hanno ottenuto nulla se non la separazione definitiva da quelle simpatie che pure avevano in alcuni contesti sociali, abbiano rapidamente percorso la strada del declino e dell’uscita di scena almeno come organizzazione armata.

Si può spiegare meglio, chi ha approfittato del sequestro dell’on. Moro?

Moro era inviso ad entrambe le forze dominanti dello scacchiere internazionale dell’epoca. Non piaceva agli oltranzisti atlantici il suo progetto di associare il PCI al governo, progetto che era in discussione proprio nei giorni del suo rapimento. Ma non era gradito nemmeno ai sovietici perché Enrico Berlinguer e il PCI eurocomunista partecipando al governo avrebbero dimostrato che anche per via democratica si poteva accedere alle stanze del potere e ciò avrebbe significato il crollo del primato ideologico del PCUS. Moro voleva introdurre elementi dinamici in un quadro internazionale che doveva essere statico, metteva così in discussione gli equilibri di Yalta.

Secondo lei quale nei 55 giorni del sequestro è stata il passaggio che aveva dentro di sé la premessa per un esito tragico?

Secondo me il comunicato n.3 con cui le BR annunciavano che l’interrogatorio proseguiva con la piena collaborazione del prigioniero, collaborazione ribadita nel comunicato n.6 in cui si affermava che Moro, con nomi e fatti, aveva rivelato i responsabili delle pagine più sanguinose della storia italiana. Le BR avevano tuttavia dichiarato di non voler rendere subito pubblici, tramite i mass media o altri comunicati, il contenuto degli interrogatori. A quel punto l’intera vicenda è stata affrontata con occhi diversi. Non si trattava più con una operazione militare e giudiziaria solo di cercare il luogo ove era tenuto prigioniero ma di recuperare quei “verbali”. Lo ha colto bene nel suo libro di memorie Dieci anni di solitudine il sen. Giovanni Pellegrino già Presidente negli anni ‘90 della Commissione stragi. Prima di tutto Moro doveva essere delegittimato diffondendo l’interpretazione che scriveva sotto dettatura dei suoi carcerieri e questo concetto è stato inoculato nell’opinione pubblica. Poi l’obiettivo più urgente diventava quello di mettere le mani sugli interrogatori e renderli inoffensivi. Pensiamo al secondo rinvenimento di via Montenevoso nel 1990, con gli accenni che i manoscritti contenevano anche alla struttura Stay Behind. Molto probabilmente, questo è un aspetto che in genere non si considera, le istituzioni, il Comitato di crisi e gli uomini del suo partito, a fronte del comunicato n. 6, comunque allusivo e sibillino, potevano temere che Moro avesse raccontato e scritto, anche in modo forzato, molto di più di quanto effettivamente avvenuto, con conseguenze disastrose, se fosse divenuto pubblico, per il quadro politico interno e le alleanze internazionali. A quel punto Moro era politicamente morto, più ancora che morto divenuto ingombrante, poteva essere lasciato morire e così è stato. Il consulente USA nel comitato di crisi Steve Pieczenik ha del resto spiegato anni più tardi in una intervista che la morte di Moro non era stata un insuccesso della sua missione, anzi era stato consentito che ciò accadesse senza intervenire. L’ostaggio più importante dal punto di vista degli equilibri politici, erano invece le carte, gli interrogatori. Alla fine Moro è stato ucciso e i suoi interrogatori completi non sono stati mai trovati né resi pubblici nemmeno con la caduta dell’intercapedine di via Montenevoso. Questo nonostante l’affannosa ricerca ordinata dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa anche in tutte carceri speciali e nonostante appaia molto difficile che gli originali, le bobine e forse qualche video siano stati bruciati, come ha sostenuto Mario Moretti. Le BR erano maniache dell’archiviazione di tutti i loro documenti e ben difficilmente, anche in vista di un utilizzo futuro, si sarebbero private di un trofeo del genere.

Quindi dopo l’abbandono da parte dello Stato, più interessato a quanto Moro avesse detto che alla vita dell’ostaggio, la sorte del prigioniero era segnata?

Credo di sì. C’è stata nelle ultime settimane prima del 9 maggio l’iniziativa del Vaticano che, lo abbiamo definitivamente accertato con il lavoro della 2ª Commissione Parlamentare Moro, aveva messo a disposizione una somma enorme, 10 miliardi di lire, da consegnare alle BR in cambio della salvezza dell’ostaggio. Ma per quanto condotta ad alti livelli quella del Vaticano era pur sempre una “iniziativa privata” che non proveniva dal Governo e dalle istituzioni mentre le BR pretendevano da queste un riconoscimento politico. Quindi era destinata a fallire.

Alla fine vi è stato secondo lei un accordo tacito tra le istituzioni e le BR?

Sulla base di quanto è avvenuto in seguito, compreso il silenzio sui “verbali” di Moro, è molto probabile. Lo ricorda sempre il presidente Pellegrino, che lo Stato si sia accontentato della verità, utile sul piano strettamente giudiziario ma parziale, offerta dal memoriale di Valerio Morucci ed il livello di “dicibililità” si sia fermato lì. Una sorta di scambio tacito, appunto. Morucci, Moretti, con i suoi 6 ergastoli, e a seguire tutti gli altri hanno avuto i primi consistenti benefici penitenziari dopo appena una dozzina di anni di carcere, un trattamento molto più benevolo rispetto alla carcerazione subita da militanti meno noti di altri gruppi armati che però non avevano niente da vendere e rispetto anche ai condannati per delitti comuni.

Chi condusse gli interrogatori di Moro?

Certamente non solo Moretti, un semplice perito industriale che aveva la metà degli anni di Moro e che non era all’altezza sul piano culturale di condurre un dialogo del genere. Credo che il regista degli interrogatori dello statista sia state “intelligenze”, forse il prof. Giovanni Senzani, criminologo consulente del Ministero di giustizia, che operavano dalla base del Comitato esecutivo a Firenze e cioè dal back stage mai del tutto venuto alla luce di quei 55 giorni. Anche questo aspetto del sequestro è stato lasciato in ombra e anche per questo motivo le bobine degli interrogatori sono scomparse.

Passando più in dettaglio alla vostra Relazione come avete lavorato nei termini di tempo ristretti dovuti allo scioglimento delle Camere?

Innanzitutto per la prima volta con il lavoro di queste commissioni, la seconda Commissione Moro e la Commissione antimafia, si è offerta una ricostruzione visiva della scena di via Fani con piantine e rappresentazioni grafiche dettagliate in cui sono collocati, ognuno al suo posto, gli sparatori, i testimoni, le autovetture e le rose dei bossoli. E questo studio ha dato dei risultati.

Credo che si riferisca al numero e alla posizione degli sparatori. Sono stati individuati tutti coloro che agirono in via Fani?

Credo che dalla relazione emerga, sulla base di elementi oggettivi e non di dietrologie che abbiamo sempre evitato, che in via Fani abbiano agito più sparatori rispetto quelli indicati da Morucci. Mi riferisco ad uno o più sparatori in alto a sinistra che annullarono il tentativo di reazione dell’agente Raffaele Iozzino. Richiamo l’attenzione sul racconto di una testimone da noi sentita, molto precisa e attendibile, che ne vide almeno uno. Poi un altro sparatore posizionato in basso a destra che colpì con precisione alle spalle il brigadiere Francesco Zizzi. Poi un testimone molto attendibile, un medico che stava passando in via Fani e che era stato praticamente dimenticato dagli inquirenti dell’epoca, ci ha confermato la presenza di una motocicletta accanto ai terroristi travestiti da avieri. Anche la presenza di una moto con funzioni di appoggio è quindi ormai una certezza. Sono protagonisti della scena di via Fani su cui non si è mai voluto dire nulla e bisognerebbe capire perché.

Nella relazione si parla anche di quello che è avvenuto dopo la fuga da via Fani e del trasbordo di Moro sul furgone…

Nella relazione c’è anche una ricostruzione della fuga del convoglio da via Fani da cui emerge che i brigatisti disponevano quella mattina non di uno ma di due furgoni e che ben difficilmente il trasbordo di Moro nella cassa di legno può essere avvenuto, come affermano, in una piazza frequentata, Piazza del cenacolo. Con ogni probabilità quell’operazione è avvenuta nella zona isolata e boscosa di via Massimi, non molto dopo l’inizio della fuga, e con l’intervento di altre presenze che sono state taciute. Ancora sono emersi nuovi elementi che rafforzano l’ipotesi che l’ultima prigione di Moro, poco prima dell’omicidio, non fosse via Montalcini ma si trovasse proprio nella zona del Ghetto ebraico ove il corpo è stato ritrovato. Tutte zone d’ombra queste che dovrebbero avere una spiegazione e che si intersecano con il punto centrale e cioè la strategia e l’esito tragico di quei 55 giorni.

La relazione approvata dalla Commissione antimafia è molto critica sul modo con cui furono condotte le indagini dagli investigatori e dalla magistratura già nei momenti immediatamente successivi a sequestro. Cosa ci può dire in merito?

La fase iniziale delle indagini e cioè quella decisiva è stata condotta in modo artigianale. I testimoni oculari sono stati sentiti in modo più che approssimativo da differenti organi di Polizia giudiziaria e poi da magistrati che “ruotavano”, senza nemmeno una piantina che collocasse esattamente i testimoni e quanto avevano visto in un preciso punto dell’incrocio e senza fotografie con i vari modelli di vetture e furgoni da identificare. In questo modo, senza una struttura di indagine unica e dedicata, ogni audizione è avvenuta senza nemmeno conoscere il contenuto delle altre e senza quindi poter formare un quadro d’insieme e sovrapponibile. Non parlo di tecniche scientifiche, che all’epoca potevano non essere disponibili, ma di normali audizioni di testimoni la cui tecnica doveva essere un patrimonio degli investigatori e degli inquirenti. Eppure ci si trovava dinanzi al più grave delitto politico del dopoguerra. Dopo il mancato confinamento di via Fani e l’invasione dei curiosi questo è stato il secondo inquinamento colposo della scena del crimine. Poche delle conoscenze così perdute erano recuperabili, qualche testimone per fortuna è stato rintracciato e si è reso disponibile grazie all’impegno delle Commissioni parlamentari.

La Commissione ha anche sentito Franco Bonisoli uno dei componenti del nucleo storico delle Brigate Rosse e presente in via Fani. Come si è rapportato con voi?

Bonisoli ha da tempo ripudiato la lotta armata e ha partecipato a incontri anche nelle scuole sui temi del terrorismo e della riconciliazione con Agnese Moro e i familiari di altre vittime. Ma la sua audizione è stata desolante. Ci ha raccontato di non poterci dire niente perché aveva dimenticato, sì, dimenticato, dice così, tutto quello che era successo in via Fani e dopo. Come se uno dei principali protagonisti della più importante e con maggiori conseguenze azione brigatista potesse semplicemente averla del tutto rimossa dalla sua mente. Un comportamento, quello di Bonisoli ma anche di altri in occasioni simili, che fa riflettere su certi atteggiamenti puramente esteriori e poco costosi che dopo la fine del terrorismo sono stati tanto apprezzati. Un vero mutamento interiore dovrebbe passare attraverso l’offerta di verità. Altrimenti la fraternizzazione anche con i parenti delle vittime rimane una scatola vuota e priva di contenuto.

Cosa ne pensa del possibile intervento della criminalità organizzata nel sequestro dell’on. Moro?

Non enfatizzo un possibile intervento della criminalità organizzata nel sequestro Moro. Può darsi che vi sia stato qualche appoggio logistico, ma non molto di più. Invece è certo che durante i 55 giorni della prigionia la criminalità organizzata, dalla banda della Magliana alla Camorra, si sia proposta e sia stata attivata per individuare la prigione di Moro, anche con qualche probabilità di successo. Ma anche la disponibilità e l’attivismo della criminalità organizzata, ce lo hanno detto molte testimonianze tra cui quella di Maurizio Abbatino, fu fermata. Non per motivi etici ma perché Moro liberato non serviva più.

In/giustizia. Il calvario del rettore filosofo

In/giustizia. Il calvario del rettore filosofo

di Gualtiero Donati

2 giugno 1995. La storia comincia quel giorno, esattamente alle 4 del mattino. Il professor Roberto Racinaro, docente di filosofia, studioso di Hegel, Schmidt e Weber, rettore dell’università di Salerno viene svegliato dai carabinieri. Gli consegnano un’ordinanza di custodia cautelare: 130 pagine, nelle quali i magistrati ipotizzano una dozzina di reati. Si va dall’abuso d’ufficio al falso ideologico all’associazione per delinquere. Lo portano in carcere come un pericoloso delinquente sotto lo sguardo attonito e incredulo della famiglia. Si dichiara innocente. Il Pubblico Ministero ribatte: “Nessuno ha detto che il rettore è un ladro, i ladri sono altri. Ma il rettore sapeva e taceva e in un caso ha fatto di più, inducendo alcuni testimoni a mitigare le loro dichiarazioni”.

In concreto al professor Racinaro si contesta che, da rettore, su alcuni appalti sospetti per il servizio mense, abbia taciuto, connivente. In concreto, e per cominciare, 21 giorni di carcere, a Bellizzi Irpino. “Tacevo”, spiega Racinaro, “perché non sapevo. Quando mi sono state fatte delle lagnanze su favoritismi negli appalti della mensa, invitai a denunciare tutto alla magistratura”.

I colleghi non credono alla sua colpevolezza. Un appello dove si invita a fare chiarezza con rapidità viene sottoscritto da Biagio De Giovanni, Luigi Berlinguer, Remo Bodei, Aldo Masullo, Giacomo Marramao, Stefano Rodotà.

Come nasce l’“affaire”? Tutto parte da un memoriale di una trentina di pagine redatto da un imprenditore che chiama in causa tre funzionari universitari, definiti “i tre moschettieri”; in quel memoriale si avanzano sospetti sulla correttezza di alcune delibere, che sarebbero state approvate in cambio di mazzette.

Racinaro alla fine viene assolto per alcuni capi di imputazione. Per il falso ideologico scatta la prescrizione; rinuncia, vuole che sul suo capo non gravi alcuna ombra o sospetto. Il 21 settembre 2011 la sesta sezione penale della Corte di Cassazione annulla, senza rinvio, la sentenza della Corte d’Appello di Napoli che lo aveva condannato. Si chiude così, con un nulla di fatto, una vicenda cominciata ben sedici anni prima. In carcere Racinaro scrive un amaro pamphlet, La giustizia virtuosa. Al Corriere del Mezzogiorno affida una riflessione amara: “Uno dei mali del nostro tempo è l’eccesso di giustizia, che è invece completamente assente nella nostra società producendo il suo contrario. La magistratura è un vero potere forte. Fui accusato sulla base di un documento inviato al ministero in risposta a delle domande, su cui c’erano imprecisioni. Mi attribuirono la paternità del documento solo perché c’era il timbro del mio ufficio”.

Racinaro muore il 15 giugno 2018, dopo anni di calvario non solo penale: patisce anche due ictus che lo riducono su una sedia a rotelle. Prosciolto da ogni accusa, per quei 21 giorni di ingiusta detenzione non è mai stato risarcito.

Turchia, anni duri per le minoranze

Turchia, anni duri per le minoranze

di Murat Cinar*

In Turchia si sono concluse le elezioni presidenziali e politiche per scegliere la formazione parlamentare della ventottesima legislatura e il dodicesimo presidente della Repubblica. Recep Tayyip Erdogan ha vinto le presidenziali, ma per la prima volta della sua carriera ha dovuto andare al secondo turno, sconfiggendo con il 52% il suo avversario Kemal Kiliçdaroglu (48%).

In realtà si tratta di una sconfitta politica per l’attuale presidente della Repubblica e per il suo partito Akp (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), tenendo in considerazione che dal monopolio dei media fino al controllo totale della Magistratura avevano a disposizione una serie di vantaggi straordinari. In questa campagna elettorale Erdogan non ha esitato un attimo a usare un linguaggio sessista, omotransfobico, e informazioni tendenziose contro Kiliçdaroglu. Il Presidente uscente era ovunque; dai manifesti ai canali televisivi, dalle piazze ai social. Una campagna elettorale in cui abbiamo assistito anche a una serie di attentati e arresti commessi contro i vari partiti politici. Nonostante tutto, Erdogan ha ottenuto un risultato decisamente peggiore rispetto alle elezioni del 2018. Il partito, guidato da Erdogan dal 2001, ha perso circa il 7% (due milioni di voti) e in totale 27 seggi, rispetto alle elezioni del 2018. Si tratta di un calo che era stato già registrato nell’ultima tornata elettorale in cui l’Akp aveva perso di nuovo il 7% dei voti rispetto alle elezioni del 2015, avvenute in un’atmosfera di quasi guerra civile.

Erdogan in realtà cerca di compensare questa perdita da circa sei anni, con una serie di soluzioni. Senz’altro aver governato la Turchia per due anni, dal 2016 al 2018, con una serie di misure straordinarie durante lo stato d’emergenza è stato lo strumento più antidemocratico che potesse utilizzare. Il referendum costituzionale del 2017, in pieno stato d’emergenza, e l’appoggio esterno, poi interno, del Partito del Movimento nazionalista (Mhp) sono altre soluzioni che ha provato Erdogan. Anche in questa tornata elettorale il Presidente ha cercato delle soluzioni. Due formazioni politiche fondamentaliste e omotransfobiche, HudaPar e Yeniden Refah, hanno sostenuto la coalizione del Governo. Il secondo ha portato a casa più di un milione e mezzo di voti e cinque parlamentari. HudaPar invece ha deciso di gareggiare con la sigla dell’Akp e ha portato in parlamento quattro deputati. Così è nato il governo più di destra della storia della Repubblica di Turchia.

Quindi nei prossimi cinque anni la Turchia avrà un governo la cui agenda contiene proposte e piani mirati a colpire la visibilità e i diritti di alcune parti della società. In cima alla lista ovviamente ci sono le persone lgbtqi+. Per loro purtroppo non si tratta di una novità. Non dimentichiamo il Pride di Istanbul, vietato da circa otto anni, le manganellate, i lacrimogeni e le munizioni di gomma che non sono state risparmiate in questi anni. Non possiamo non citare il divieto di ogni tipo di attività del mondo dell’associazionismo lgbtqi+ per ben due anni nella capitale del Paese durante lo stato d’emergenza. Nei prossimi cinque anni nella maggioranza avremo i partito Yeniden Refah che promette l’introduzione del reato dell’omosessualità con HudaPar. Entrambi questi partiti non vedono l’ora di riscrivere nella Costituzione la definizione della famiglia “tradizionale”; “composta da una madre e un padre”.

In seconda posizione ovviamente ci sono le donne. Già con il divieto alle manifestazioni dell’8 marzo, gli indulti che hanno visto in libertà gli autori di vari femminicidi e nel 2021, con l’uscita dalla Convenzione d’Istanbul, il governo aveva lanciato un importante messaggio in merito alla sua posizione ideologica. Oggi ci troviamo con il partito Yeniden Refah che vorrebbe modificare la legge 6284 (relativa alla violenza domestica e violenza contro le donne), per «preservare l’unità della famiglia e proteggere l’immagine dell’uomo». Quindi quell’unica legge che esiste per difendere le donne, molto probabilmente, sarà minacciata dalle politiche del nuovo governo.

Insieme alle donne ci saranno anche le ragazze nel mirino del nuovo governo. Attraverso le dichiarazioni degli imam, i leader delle comunità religiose che sostengono il governo, il Direttorato degli Affari Religiosi, alcuni professori universitari e parlamentari, il governo ha sempre provato a mettere in discussione le leggi che proteggono le ragazze dai matrimoni precoci i quali spesso generano casi di pedofilia. In quest’ottica sono da prendere in considerazione le parole del leader del HudaPar, uno dei nuovi membri della maggioranza, Zekeriya Yapıcıoğlu: “Minorenni secondo chi? Se i genitori approvano le ragazze possono essere maritate”.

Sono in arrivo cinque anni difficili per la maggior parte della società sia per una serie di motivi sociali sia per via della profonda crisi economica in corso. Nel mentre l’Europa si riempie di richiedenti asilo e studenti e intellettuali provenienti dalla Turchia e alla ricerca di una nuova vita.

* Giornalista, tra i fondatori dell’agenzia di stampa internazionale Pressenza Italia, caporedattore dell’edizione in lingua turca

Il fotografo che sfidò l’assurdo “Codice Hays”

Il fotografo che sfidò l’assurdo “Codice Hays”

di Ted Baxter 

Convenzionalmente lo chiamavano “Codice Hays” dal suo compilatore Will H. Hays, presidente della Motion Picture Association of America dal 1922 al 1945. Di fatto un codice di auto-censura: linee guida morali che per molti anni ha condizionato e limitato la produzione del cinema negli USA. Un codice che specificava cosa fosse o non fosse considerato “moralmente accettabile”.

Non si doveva produrre film che potevano abbassare gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non doveva mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male, il peccato. Si dovevano presentare solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all’intrattenimento. Ecco perché la “legge naturale, divina o umana”, non doveva mai essere messa in ridicolo, tantomeno sollecitare la simpatia dello spettatore per la sua violazione. Proibiti il nudo e le danze lascive. I ministri del culto non potevano essere rappresentati come personaggi comici o malvagi. Proibita la rappresentazione dell’uso di droghe e il consumo di alcolici, “quando non richiesto dalla trama o per un’adeguata caratterizzazione”. Le esecuzioni di delitti (incendio doloro o contrabbando, ecc.) non potevano essere presentati in modo esplicito. Le allusioni alle “perversioni sessuali” (tra cui, all’epoca, l’omosessualità) e alle malattie veneree anch’esse proibite, come la rappresentazione del parto. Bandite varie parole ed espressioni offensive. Le scene di omicidio dovevano essere girate in modo da scoraggiarne l’emulazione nella vita reale, delitti brutali non potevano essere mostrati in dettaglio.

Si doveva valorizzare la santità del matrimonio e della famiglia: “I film non dovranno concludere che le forme più basse di rapporti sessuali sono cose accettate o comuni”. L’adulterio e il sesso illegale non potevano essere espliciti o giustificati, e non dovevano essere presentati come opzione attraente. Le relazioni fra persone di razze diverse erano proibite. “Scene passionali” non dovevano essere introdotte se non necessarie per la trama: “Baci eccessivi e lussuriosi vanno evitati”, assieme a trattazioni che “potrebbero stimolare gli elementi più bassi e grossolani”. La bandiera degli Stati Uniti d’America doveva essere trattata rispettosamente, così come i popoli e la storia delle altre nazioni. La volgarità, e cioè “soggetti bassi, disgustosi, spiacevoli, sebbene non necessariamente negativi” dovevano essere trattati entro i dettami del buon gusto.

Anche questa era l’America: vietati copioni e scene potenzialmente capaci di mettere sotto una luce positiva il crimine, i comportamenti devianti e, in generale, il male o il peccato. Il successo commerciale delle produzioni inevitabilmente risentivano di queste limitazioni e censure.

A questo punto si deve parlare di Adolph L. “Whitey” Schafer. Nasce a Salt Lake City (Utah) il 16 maggio 1902. Da ragazzo, con la famiglia si trasferisce a Hollywood. Si diploma e nel 1921 si impiega nel Famous Players-Lasky Corporation, lavora nel laboratorio di ritrattistica dove elabora stampe. Due anni dopo inizia a lavorare per lo studio cinematografico di Thomas Ince come fotografo e occasionalmente anche come cameraman. In seguito collabora con Cecil B. DeMille, Pathe e RKO-Pathe, l’Universal, e nel 1932 con la Colombia Pictures Corporation; dopo la morte del fotografo William Fraker jr. è nominato capo del dipartimento di fotografia. Schafer crea ritratti glamour di stelle del cinema come Rita Hayworth, Loretta Young, Jean Arthur, William Holden. Molte delle sue foto sono caratterizzate da una semplice illuminazione che mette in risalto le caratteristiche del fascino femminile delle attrici e la virilità degli attori maschi. Le sue immagini sono semplici, eleganti, definiscono al meglio la personalità dei divi dell’epoca.

La Paramount lo chiama come capo direttore della fotografia. In quegli anni è l’autore della maggior parte dei ritratti di Veronica Lake, e lavora con molti divi all’inizio della loro carriera, come Elizabeth Taylor e Montgomery Clift. Ormai è un autore affermato, dirige le gallerie di ritratti di due diverse case di produzione cinematografica, vince premi, è uno dei migliori direttori della fotografia degli anni ’30 e ’40.

Per lo spettacolo inaugurale dell’Hollywood Studios ‘Still Show nel 1941, creato dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences per premiare le opere di fotografia cinematografica e promuovere i film al grande pubblico, Schafer crea una fotografia contro tendenza per smuovere satiricamente il Codice Hays e gli standard di censura del Motion Picture Producers and Distributors Assn.

La sua immagine satirica, intitolata Thou Shalt Not, mostra il top faux-pas vietato dai censori dell’industria che deve approvare ogni immagine fotografica scattata dagli studios prima di essere distribuita. In un solo scatto Schafer “comprime” dieci dei “vizi” definiti dal codice Hays, elencandoli nella “Tavola della Legge”: la sconfitta della polizia, l’interno di una coscia, l’intimo di pizzo, il cadavere in primo piano, la droga (uno spinello), il consumo d’alcol, un petto parzialmente esposto, il gioco d’azzardo, un’arma puntata e una mitraglietta.

Schafer iscrive l’immagine a una mostra di lavori dei fotografi «ufficiali» degli studios. La giuria non solo la respinge ma minaccia di punirlo con una multa di duemila dollari; al che Schafer ribatte facendo notare che gli stessi giurati hanno fatto incetta, portandosele a casa per “esaminarle”, di tutte le diciotto copie della stampa presentate. Manca dunque il “corpo del reato” e non se ne fa più nulla, anche se la foto rimane al bando per molti anni, diventando tuttavia oggetto “clandestino” di diffusione popolare tra gli studios. L’assurda censura contribuisce ad accrescere il successo professionale di Schafer che diventa direttore della fotografia nelle più importanti case di produzione cinematografiche di Hollywood.

Per la cronaca: a fine agosto 1951 mentre è in vacanza in casa di amici, tenta di aiutare il proprietario di uno yacht ad accendere una stufa, che improvvisamente esplode. Adolph L. “Whitey” Schafer muore in seguito alle ferite riportate nell’esplosione. Aveva solo 49 anni.

Rapito di Bellocchio, appello alla resistenza

Rapito di Bellocchio, appello alla resistenza

di Michele Minorita

Un fenomeno? Certamente, se si considera che il prossimo 9 novembre taglierà il traguardo degli 84 anni. Marco Bellocchio è straordinariamente attivo, lucido fisicamente e mentalmente. Un film dietro l’altro, non sai farne una classifica, e già ne annuncia un successivo, intrigato dalla vicenda di Enzo Tortora… C’è forse un solo altro esempio di autore artisticamente così longevo: Clint Eastwood: alla bella età di 93 anni (il 31 maggio scorso) ancora non appende la telecamera al chiodo anche se qualcuno dopo aver visto Cry Macho, sbagliando, sostiene che sarebbe ora.

A Bellocchio il cinema deve più di qualcosa: i suoi film sono storia (ci sono, è vero, anche di pellicole da dimenticare); ma dopo la parentesi della militanza in un minuscolo gruppuscolo marxista-leninista e il successivo, in cui si “fagiolinizza”, Bellocchio si è come ritrovato. In una più canuta maturità è tornato a fare film imprescindibili: duri e teneri, non hanno risposte ma provocano domande, suscitano dubbi e riflessione. 

Una riflessione raccolta a margine del Festival del cinema di Locarno (era il 2010) costituisce una sorta di “manifesto” valido anche tredici anni dopo: “Certo la situazione di smarrimento di oggi non è paragonabile a quella del 1922, ma è vero che l’attuale maggioranza lavora molto sulla paura, alla quale contrappone l’uomo forte, decisionista, autoritario…A questo punto non c’è bisogno della dittatura militare: è interna alla stessa democrazia”. E ancora: “Da soli non si va da nessuna parte. Serve unione, per ricompattare tutto il mondo della cultura, senza ricorrere agli slogan di un tempo che non hanno portato a nulla…Non è più tempo di barricate, solo l’unione fa la forza. Bisogna rafforzare l’unione nel rispetto delle diseguaglianze e trovare un punto comune”.

Dunque, ciascuno punti sulla qualità del proprio lavoro. Come fa Bellocchio: “A me non interessa l’invettiva, la polemica diretta, la derisione ad personam…Quello che cerco io però è l’approfondimento”. Con questo spirito Bellocchio realizza il film su Eluana Engaro, Bella addormentata. Un caso che lo ha colpito “come sintesi della disperazione e dell’ipocrisia di questa classe politica che pur di non perdere l’appoggio della chiesa è stata disposta a fare leggi incredibili che poi si sono perse chissà dove”.

Una vena più che feconda: arrivano L’ora di religione del 2002; Sangue del mio sangue, del 2015; Fai bei sogni, del 2016; Il traditore del 2019; Esterno notte, del 2022; infine Rapito.

Con Rapito Bellocchio (non per caso) si misura con la triste, infame, vicenda di Edgardo Mortara, il bambino ebreo che nel 1858 viene sottratto alla famiglia per disposizione crudele dell’inquisitore di Bologna in obbedienza dell’allora Stato pontificio. Una domestica valuta che il piccolo sia in pericolo di morte, clandestinamente lo battezza; per la chiesa cattolica se c’è urgenza di salvare l’anima, chiunque può impartire un “battesimo di necessità”. Grazie a questo pretesto si incastra un meccanismo infernale messo in essere dalla gerarchia clericale. Quella di Mortara è storia conosciuta, purtroppo non rara. Già 26 anni fa il giornalista Daniele Scalise si era occupato della vicenda con un saggio mondadoriano, Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa. Scalise di recente è tornato sulla vicenda, e ha pubblicato per Longanesi Un posto sotto questo cielo, romanzo che ha per sfondo e contesto appunto questa brutta “storia tragica, infame sopruso”, come la definisce Scalise; calzantissima ed esatta definizione.

Rapito di Bellocchio si ispira, sia pure con licenze, ai due libri di Scalise. Ne ricava quello che il britannico Guardian definisce “un classico della cinematografia”. In effetti tutto è straordinario in questo film: la recitazione, il ritmo, il gioco visivo delle immagini, il montaggio, le luci, le ricostruzioni degli ambienti…

Un film e una storia che vanno al di là del “caso” Mortara, assumono la dimensione del paradigma: una Chiesa cattolica, uno Stato Vaticano, un Pontefice, Pio IX, preda di miope arroganza nei confronti delle comunità ebraiche; Quello che sarà l’ultimo Papa-re è consapevole che il potere temporale è votato al crollo, per questo ancora più prepotente e irriducibile… 

Occorre saper cogliere i “messaggi”. Aprire il film con la recita del salmo 121 “Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d’Israele” significa introdurre il tema della Provvidenza e il suo rapporto con la libertà umana: quella libertà che il giovane Edgardo, convertito forzosamente, e poi consapevolmente sacerdote, esercita e al tempo stesso rinuncia; ha per conseguenza la rinuncia al ricongiungimento con la famiglia anche quando sarebbe possibile, dopo la breccia di Porta Pia e la fine del potere temporale dei papi. Edgardo cresce, letteralmente, sulle ginocchia di Pio IX; con altri ragazzini costretti a condividerne la sorte, viene ammaestrato all’astuzia, alla simulazione, patisce le seduzioni di una fede che mostra non il suo lato pietoso, ma quello mondano e predatorio… Drammatica la sequenza che vede la madre di Edgardo morente, il tentativo del figlio di battezzarla come lui è stato battezzato, il fermo e irriducibile “No!” della donna: “Sono nata ebrea, morirò ebrea”.

Ancora una volta Bellocchio, come da giovane e come in altri più maturi film, scortica la religione cattolica, le sue manifestazioni terrene. Un inciso: straordinario Fabrizio Gifuni che, da par suo, dà corpo alla sua “maschera”, questa volta il perfido e odioso padre inquisitore Pier Gaetano Feletti.

Rapito affronta di petto una questione che ancora sanguina, il rapporto mondo cattolico, mondo ebraico, antisemitismo. Una vicenda dove si concentrano arroganza del potere, razzismo, odio, ignoranza, avidità, menzogna, corruzione, fanatismo religioso. Gli “ingredienti” di sempre. Il concilio Vaticano II ha medicato le ferite più dolorose, condannato quello che gli storici definiscono “l’insegnamento del disprezzo” (l’accusa del “deicidio”, per intenderci); e tuttavia, come decine di quotidiane cronache testimoniano, tanto lavoro ancora resta da fare. Il film si muove in un contesto storico che vede la gerarchia cattolica schierata massicciamente contro ogni forma di modernismo e modernità. Ed è, questa, questione, “affare” che riguarda per primi i credenti cattolici, che di quei retaggi e di quei condizionamenti sono ancora prigionieri (basterebbe citare i casi di don Romolo Murri ed Ernesto Buonaiuti, in lista d’attesa. Ma se i tempi sono quelli occorsi per Galilei e Giovanna d’Arco, per non parlare di Giordano Bruno…). 

Rapito insomma parla di un’Italia di “ieri” non dissimile da quella di “oggi”; e di una certa chiesa cattolica “oggi” simile a quella che fu “ieri”. Più che mai valido l’invito sotteso ma esplicito a resistere, ragionare, opporre barriera a ignavia e indifferenza.

Rocco Scotellaro, ragazzo pieno di fede 

Rocco Scotellaro, ragazzo pieno di fede 

di Leonardo Sciascia

Nel “Dizionario biografico” della Treccani si legge: “Nacque a Tricarico (Matera) il 19 aprile 1923 da Vincenzo, calzolaio, e da Francesca Armento, sarta casalinga che scriveva lettere per gli emigrati”. Rocco Scotellaro, il poeta, il militante socialista, il sindaco che non esita un istante a schierarsi dalla parte degli sfruttati… Non riesce a laurearsi, perché la morte del padre lo costringe a rientrare in paese (si era trasferito a Bari) per aiutare la famiglia. La drammatica realtà contadina, è la molla del suo impegno politico. Si iscrive al Partito socialista italiano (PSI), svolge un’intensa attività sindacale. Nel 1946 viene eletto sindaco, conosce e frequenta Carlo Levi e Manlio Rossi Doria. Entra in rapporti con il Movimento Comunità di Adriano Olivetti, collabora alla rivista Comunità. L’8 febbraio 1950 viene arrestato per una presunta concussione; la corte di appello di Potenza lo proscioglie per non aver commesso il fatto e perché il fatto non costituisce reato. La sentenza fa esplicito riferimento alla ‘vendetta politica’. Provato dalla dura esperienza, nel maggio del 1950 si dimette da sindaco, lascia Tricarico. Dopo una breve esperienza presso la casa editrice Einaudi, è chiamato da Rossi Doria all’Osservatorio di economia agraria di Portici, partecipa agli studi preliminari per il piano regionale della Basilicata, commissionato dall’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno (SVIMEZ). Nel 1953 avvia contatti con Carlo Cassola, Aldo Capitini e altri esponenti toscani di Giustizia e Libertà. Un infarto lo stronca il 15 dicembre 1953. Le sue opere, tranne alcune anticipazioni in giornali e riviste di poesie, articoli e racconti sono tutte pubblicate postume. È fatto giorno, prima raccolta poetica uscita per Mondadori (Milano 1954), vince il premio Viareggio.

Nel maggio del 1953 Vito Laterza gli aveva proposto di scrivere un libro sui contadini meridionali; lavoro a cui si era dedicato negli ultimi mesi senza tuttavia riuscire a portarlo a termine. Le parti già approntate vengono pubblicate nel 1954, con il titolo “Contadini del Sud”. Un anno dopo, sempre Laterza, pubblica “L’uva puttanella”, il romanzo-‘memoriale’ probabilmente concepito in carcere e poi esploso nella scrittura con l’allontanamento dal paese. Anch’esso rimasto interrotto, doveva muoversi tra l’inchiesta e l’autobiografia. La natura frammentaria del libro non è disconoscibile, anche se prospetta, allo stato, un grande affresco della vita del Mezzogiorno in chiave autobiografica. La metafora del titolo serve a connotare tutte le potenzialità inespresse del Mezzogiorno; non è il gusto della minorità, perché gli acini piccoli e apireni dell’uva puttanella, quando giungono a maturazione, danno un succo più dolce. Considerato uno dei maggiori poeti e intellettuali lucani impegnato nel vivo delle problematiche del secondo dopoguerra, animato da una non comune carica morale e ideale che si riflette nella sua produzione letteraria e nell’impegno politico, Scotellaro era molto apprezzato da Leonardo Sciascia. In più di un’intervista confessa di aver pianto, alla notizia della sua morte. Su “Galleria”, la rivista di cui era direttore (gennaio 1954, n.1), Sciascia lo ricorda con la nota che segue.

Rocco Scotellaro è morto improvvisamente, il 15 dicembre scorso, a Portici. Era nato a Tricarico, in provincia di Matera, nel 1923.

Sembra incredibile anche agli amici che me ne scrivono: poco più di un mese prima, a Palermo e a Catania, nei giorni del Congresso della Narrativa Siciliana, Scotellaro era tra noi pieno di vita, fervido arguto cordialissimo. Un ragazzo pieno di fede; un “ragazzo terribile”, a momenti; un ragazzo che parlava di sua madre e della sua terra; un ragazzo che parlava di donne; un ragazzo che sfotteva. Insieme, entrambi “premiati” siano andati alla serata di “gala”, nel palermitano albergo delle Palme, tra petti lucidi, donne con le spalle nude, camerieri volteggianti e fotografi; noi due come cani bastonati, fin quando, all’estremità dell’arco della tavola, non abbiamo trovato posto e cominciato a parlare di cose “nostre”. Lessero la poesia sua premiata; bellissima, nonostante i singulti e le estasi del dicitore. Scotellaro mi parlava del suo lavoro presso l’Osservatorio di Economia Agraria di Portici; ci Carlo Levi, cui voleva bene come uomo e come scrittore; di un racconto di sua madre che era stato pubblicato sul primo numero di Nuovi Argomenti (lo lessi dopo, e veramente mi sorprese). Gli feci conoscere, quella sera, Vann’Antò: e ne fu felice. Andammo l’indomani per dire alla radio le solite cose che si dicono; Scotellaro volle aggiungere parole sulla dolorosa realtà delle nostre regioni; aveva però il timore che, nella trasmissione della sera, sforbiciassero quelle parole. Volle sapere l’orario della trasmissione, per telegrafarlo, disse, alla sua ragazza. Era proprio un ragazzo: aveva guapperia e delicatezza; una certa ingenuità e un fondo di malinconica saggezza. Ero lieto di stare un po’ insieme a lui, di ascoltarlo in quel suo dialetto che sembrava rendere più vere le cose che diceva.

Ci siamo salutati alla stazione di Catania: il 15 novembre, esattamente un mese prima che la morte improvvisamente lo cogliesse. Lo rivedo al finestrino, mentre il treno si muove. Mi gridò: “Ti manderò un racconto”.

La terra di Lucania cantava nelle sue parole l’amore la fatica la pena – e la familiare presenza della morte. Questa familiarità così antica nelle nostre terre, anche nella mia di Sicilia, scioglie lo sgomento in cui una morte come questa ci abbatte. Pensiamo ai primi due versi di una sua poesia: “Salute, miei parenti morti / l’acqua piovana vi lava la faccia!”. Nell’amara terra di Lucania, il nostro amico è disteso tra i suoi morti. 

Verducci: sorprendente connotazione emotiva

Verducci: sorprendente connotazione emotiva

di Roberto Deriu

Ha detto Federico Zeri che Dante poteva essere letto anche attraverso i colori della Divina Commedia. Rosso e nero per l’Inferno, dal madreperla ai colori più vivi dei canti finali nel Purgatorio, fino al Paradiso, tutto bianco e oro.

Anche Federico Verducci, in questa sua prima, brutale e sorprendente opera, Hope, si può leggere nei colori psichedelici e surrealistici che abbagliano o baluginano appena nei vicoli e nel cielo di una Roma del 1980 che invece è la Roma di oggi, ritratta con la puntigliosa e capace mano di un maestro autentico di narrativa. C’è del genio e del talento in questo nuovo romanziere, nato già esperto e debuttante dal tratto sicuro. Gli stili e i registri, gli espedienti retorici e la solida struttura, il complesso e però coerente sistema dei personaggi collocano Federico Verducci tra coloro che con assoluta sicurezza possiamo annoverare tra i romanzieri contemporanei. Le incertezze di una edizione priva delle certosine cure dei grandi apparati redazionali non sono capaci di celare, nemmeno al lettore più ingenuo, la spavalda sicurezza del dominio del significante che l’Autore, umile come tutti gli intellettuali intelligenti, estende fino a toccare vertici di autentica maestrìa, scomponendo e simulando, sotto le ben misurate apparenze di un falso storico, la lingua originale del Terzo Millennio italiano.

Non devono distogliere il lettore taluni virtuosismi e talune citazioni erudite, come un gustoso passaggio di puro ritmo futurista, citazione che l’Autore con sapienza e indulgenza riserva ai più anziani dei suoi seguaci. Se l’imponente suggestione connotativa è dunque la più esaltante sorpresa dello Scrittore, la profondità della lettura socio-antropologica è l’aspetto che forse colloca il romanzo tra quelli capaci di essere considerati pietre miliari del percorso culturale di una nazione.

Roma e l’Italia di Federico Verducci, abilmente travestite da palcoscenico della generazione materna e paterna, divengono in realtà il teatro della transizione del Belpaese di oggi. Quell’Italia priva di telefonini e personal computer, ripropone nella sua dura e cruda disperazione di società dei frammenti etico-morali, il ritmo convulso e travolgente proprio dei nostri giorni.

Trionfa il perdente Andrea Costa, il nuovo Antieroe italico, sovraccarico di difetti e fobie, immerso nella proletarizzazione di ogni ruolo e categoria sociali, eppure capace di una catarsi generazionale e nazionale paragonabile alle liturgie di massa delle coppe del mondo di calcio. L’Italia seria e borghese dell’ispettore Neri, quella solidale, competente e umana dello psicologo Antonio Mancini, sono riscattate e proposte a modello di riscatto solo grazie al sacrificio di chi riemerge con forza e nuova consapevolezza dal declino.

Anche l’antagonista, il prepotente e rapace commissario Simone Antonini, è una figura la cui spietata malvagità è ritratta con la precisione di un giallista di vaglia, o di un autore classico; è infatti un personaggio più teatrale che cinematografico, anche se il cinema sembra essere, per tanti motivi, il naturale sviluppo della vicenda artistica di questo pregevole testo. Resta da esplorare, attraverso una più sofisticata ermeneutica, il ruolo della Donna nell’opera: vi sono figure di una bellezza, delicatezza e forza da indurre ad una ricostruzione del modello che merita davvero più spazio di quello che oggi dedichiamo a Federico Verducci, al quale, forse si è potuto intuire, va un plauso meritato e un augurio – interessato – di altre molte opere di pari e superiore grandezza di Hope.

Da leggere subito, senza esitare.

iMagz