Proposta Radicale 19/20 2024
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La miopia di tante piccole patrie

di Fulvio Cammarano

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L’America in disordine un problema di democrazia

di Giacomo Mazzei

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Bruno Segre: una vita per la libertà e la dignità

di Sergio Rovasio

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Arrestato per rapina, condannato. Ma quel giorno era all’estero

di Michele Minorita

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Ucraina, le immagini di una resistenza

di Ted Baxter

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Henri Verneuil, il cinema perduto

di Gualtiero Donati

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La miopia di tante piccole patrie

La miopia di tante piccole patrie

di Fulvio Cammarano

Si parla troppo poco, quanto meno in proporzione alla rilevanza del tema, del progetto Calderoli di autonomia differenziata. Non si tratta solo di discutere gli aspetti tecnici della proposta, né tantomeno della congruità costituzionale (l’art.116 recita: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite ad altre Regioni”, oltre quelle che già ne dispongono).

Sarebbe invece opportuno, oltre che necessario, soffermarsi di più sul punto nevralgico di una proposta che va ben al di là della sfera legislativa e che nutre ambizioni egemoniche, aspirando a diffondere una mentalità, quella dell’asserragliamento nelle piccolissime patrie della ormai piccola patria italiana, al fine, inevitabile, di incrementare identità conflittuali, inventare contrasti e divisioni all’interno di una sempre più sperequata comunità nazionale.

Se l’assetto istituzionale dovesse davvero adeguarsi a questa soffocante cultura foriera di un pericoloso clima di inimicizie e diffidenze, invece di operare per smantellarle, l’Italia tornerebbe ad essere, di fatto, quella che il cancelliere austriaco Metternich nel 1847 aveva definito “un’espressione geografica”, riferendosi proprio alla frammentazione della penisola in tanti staterelli. Per la Lega ciò rappresenterebbe un indiscutibile successo politico.

A quasi trent’anni dalla proclamazione dell’indipendenza della Padania da parte di Umberto Bossi, i suoi eredi, sia pure per vie traverse e con modalità eterodosse rispetto agli originari slogan della Lega Nord, riusciranno a imporre il regionalismo come valore fondante di una Repubblica che da quel momento diventerebbe una nazione a geometria variabile e dalla forte, continua, tentazione centrifuga. Dal 1996, tuttavia, le cose sono molto cambiate e non è più il caso di trastullarsi con l’identitarismo lillipuziano, soprattutto ora che siamo chiamati a confrontarci con problemi planetari, a cominciare da quelli dell’ambiente e da quelli della preoccupante fibrillazione dei tradizionali equilibri geopolitici tra potenze costantemente sull’orlo di conflitti nucleari. Di fronte a quello che sta accadendo è dunque ancora possibile ragionare in termini di regionalismo? Suona un po’ ridicolo, dal punto di vista della effettiva capacità di affrontare i problemi esistenti, immaginare di “salvarsi” esaltando valori e identità inventate, quelle regionali, un tempo certamente utili per traghettare le mille comunità rurali all’interno di un unico contesto nazionale altrimenti poco intellegibile alla maggioranza della popolazione. E se è vero che oggi i “tempi politici” vanno nella direzione della costruzione di confini, barriere, muri, è anche vero che siamo tutti consapevoli che la parcellizzazione regionale non ci farà uscire da nessuno dei tanti tunnel che abbiamo di fronte. E’ come se, mentre il palazzo brucia, ci dicessero di rinchiuderci nel nostro monolocale. Bisogna invece andar dalla parte esattamente opposta. Dobbiamo impadronirci degli spazi europei a cui ormai guardiamo da anni come al nostro habitat naturale, ma in cui non possiamo entrare per le politiche miopi ed interessate di gruppi dirigenti quantomeno poco lungimiranti. Una classe politica che pensa in termini di lungo periodo ha il dovere di lavorare alla costruzione di un’entità sovranazionale europea che sia in grado di sostenere con forza i principi della giustizia sociale, pluralismo, inclusione, solidarietà, salvaguardia dell’ambiente e dell’umano, valori decisivi per avviare un effettivo progetto democratico, adeguato al momento storico. Tutti sanno che per risolvere la dilagante sfiducia nella politica, di cui l’astensionismo elettorale è solo la punta dell’iceberg, sarebbe necessario avere più politica. Ma oggi solo la dimensione europea potrebbe permettere alla politica di tornare ad essere il campo di forza del futuro e della speranza per centinaia di milioni di persone perché il suo rilancio richiede energia ed affidabilità, doti di grande potenza indispensabili per contrastare i fenomeni di devastazione umana, sociale, culturale, prodotti a un capitalismo senza regole. Per farlo, però, dobbiamo cominciare a dire addio alle nostre tante Lilliput che forse scandalo i cuori, ma certo non risolvono i problemi.      

L’America in disordine un problema di democrazia

L’America in disordine un problema di democrazia

di Giacomo Mazzei

L’assalto al Campidoglio, il 6 gennaio del 2021, mostrò plasticamente lo stato di crisi in cui versava la politica americana al termine dell’amministrazione Trump. Mai simili violenze avevano contrassegnato il passaggio di poteri da un presidente all’altro. In passato non erano mancati scontri istituzionali persino feroci, nella quasi totalità risolti tuttavia pacificamente tramite un qualche compromesso, onorevole o meno che fosse. Unica eccezione, la secessione sudista in seguito all’elezione di Abraham Lincoln, tanto che lo spettro di una seconda guerra civile a 160 anni dalla prima è stato più volte evocato dopo i fatti del 6 gennaio, visto anche lo sventolio di bandiere della Confederazione quel giorno tra i facinorosi. Di questi, molti adesso si trovano in carcere o sono in attesa di giudizio. Donald Trump, invece, punta di nuovo alla presidenza, sopravvissuto a due impeachment, sempre ostinato nel rivendicare la fantomatica vittoria su Joe Biden, forte di ampi consensi a dispetto dei guai giudiziari che lo assediano, inclusi quelli legati al tentativo di ribaltare l’esito delle urne fino a sobillare tumulti. Il Partito repubblicano, ostaggio della base trumpiana, incapace di prendere le distanze dall’ex-presidente sebbene ciò sia costato voti nelle ultime elezioni di midterm, si avvia infatti a candidarlo per la terza volta consecutiva.

Non è dunque veramente rientrata la crisi di cui senz’altro i risvolti eversivi del trumpismo rappresentano una spia allarmante, ma che in realtà investe il paese nel suo complesso, se la tenuta degli istituti democratici non sembra impensierire una grossa fetta di elettori ed eletti. Che all’orizzonte si prospetti una riedizione della sfida Biden-Trump, che la giustizia faccia il proprio corso rimescolando le carte, o che fattori imponderabili intervengano di qui a novembre, basti pensare alle incognite sulla scena internazionale o alle chiacchierate condizioni di salute dell’attuale inquilino della Casa Bianca, comunque l’impressione è che qualcosa di fondamentale si sia rotto. Per avanzare un’ipotesi di lettura, piuttosto che schiacciare lo sguardo solamente sul dato contingente, magari compulsando aleatori sondaggi, conviene pertanto rivolgerlo all’indietro e allargarlo a tendenze di lungo periodo.

La minaccia paramilitare

Per cominciare, non è una novità la presenza in America di formazioni paramilitari destrorse o confusamente apolitiche, il cui tratto dominante è l’ostilità al governo di Washington, percepito come tirannico. Composte originariamente da reduci di guerra e suprematisti bianchi, si moltiplicarono negli anni ’90 del secolo scorso nel Midwest e in diversi stati dell’ovest, scontrandosi di tanto in tanto con le forze dell’ordine e figliando uno stragista, Timothy McVeigh, autore dell’attentato agli uffici federali di Oklahoma City nel 1995, il più grave atto di terrorismo domestico nella storia americana. Recentemente, sulla scia del Tea Party, sorto in opposizione alla riforma sanitaria targata Obama e via via tramutatosi in una vasta galassia di destra, il fenomeno ha quindi assunto proporzioni inedite. Figuri in tuta mimetica muniti di giubbotti antiproiettile, fucili semiautomatici o semplici mazze da baseball popolano ora i raduni di realtà come i Proud Boys, che operano su tutto il territorio nazionale e godono di un’eccezionale visibilità. Se ne sono visti parecchi di siffatti militi nel corso delle proteste contro le restrizioni anti-Covid o nelle risse scoppiate ai margini delle manifestazioni di Black Lives Matter, e alcuni si aggiravano nei pressi dei seggi in occasione della scorsa tornata elettorale.

Va detto che negli scontri di piazza, nonostante le parate di ceffi armati fino ai denti, volano pugni, mazzate e quasi mai proiettili. Eccetto rari casi in cui qualcuno effettivamente ha premuto il grilletto, a prevalere è l’intimidazione. Se inoltre la stragrande maggioranza è bianca, la connotazione etnica non risulta del tutto omogenea, come attestano le radici afrocubane di Enrique Tarrio, il leader dei Proud Boys oggi detenuto. Quanto alla stratificazione sociale, si registra l’incidenza di fasce impoverite della popolazione, e a questo proposito ricordiamo che fu il Michigan, epicentro della deindustrializzazione negli anni ‘70-80, a fungere inizialmente da laboratorio del fenomeno. C’è poi l’influenza di un fondamentalismo religioso largamente diffuso, condito di machismo in dosi abbondanti e già sfociato nelle periodiche, talvolta letali azioni di organizzazioni antiabortiste come l’Army of God. E c’è l’ascendente del mito rivoluzionario alle origini della nazione e, paradossalmente, quello del patriottismo costituzionale. Ispirata al giuramento di fedeltà alla Costituzione è la lotta degli Oath Keepers alla presunta tirannia federale. I Three Percenters, autoproclamata minoranza di autentici patrioti, riprendono una leggenda secondo cui, ai tempi della guerra d’indipendenza, soltanto il 3 per cento dei coloni si levò in armi. Poco fedeli agli annali pure i gruppuscoli, comprese squadre di vigilantes ai confini col Messico, che si fanno chiamare Minutemen, come gli irregolari che affrontarono le truppe agli ordini della Corona britannica – ma per citare un episodio degli anni ’60, pensiamo all’omonima banda armata di matrice anticomunista sgominata dall’Fbi prima che facesse danni. E del resto, lo stesso Tea Party prende il nome dall’evento che segnò l’inizio nel 1773 della sollevazione contro la madrepatria.

Nell’odierno calderone, tutto sommato abbastanza capiente e non si sa bene quanto esplosivo, vengono a galla vecchi mali, addirittura secolari nel caso dell’odio razziale, tuttora acceso al di là dei possibili distinguo. Se centinaia di neonazisti e nostalgici della Confederazione sudista si riuniscono per una veglia in un prestigioso campus universitario, intonando cori antisemiti al lume di torcia, e il giorno seguente uno di loro travolge in auto altri manifestanti accorsi in protesta, uccidendo una giovane donna, com’è accaduto in Virginia, a Charlottesville, nell’agosto del 2017, il pensiero corre al famigerato Ku Klux Klan. Gli incappucciati che terrorizzarono generazioni di afroamericani per oltre un secolo dopo la guerra civile, negli anni ‘20 del Novecento, quando in America crebbe il risentimento per la prolungata ondata migratoria dall’Europa meridionale e orientale, ebbero seguaci non solo nel sud segregato. Protestanti come i partigiani del proibizionismo allora in vigore, cavalcarono la crociata sull’alcol per denigrare cattolici ed ebrei, sfilando a migliaia per le strade di Washington. Sono vicende di un secolo fa e non avrebbe senso tracciare meccanicamente un paragone, ma insomma la miscela di identità etno-razziale, furia moralizzatrice e violenza non è cosa inaudita oltreoceano.

Riguardo alla relativa tolleranza finora dimostrata nei confronti della subdola minaccia paramilitare, anch’essa rimanda a circostanze remote. Si giustifica con una lettura lasca del secondo emendamento alla Costituzione, che dal 1791 sancisce il diritto alla detenzione di armi laddove “una ben regolata milizia” è considerata “necessaria alla sicurezza di uno stato libero”. In merito, altre clausole del dettato costituzionale e una consolidata giurisprudenza riconoscono la chiara primazia del governo federale e secondariamente dei singoli stati, come previsto per la Guardia Nazionale, eppure la magistratura generalmente esita a reprimere milizie, va da sé, per nulla regolari.

La destra da McCarthy a Trump

Ma che dire di questioni più squisitamente politiche, in particolare della deriva a destra dei repubblicani? L’accenno fatto innanzi a certi eccessi dell’anticomunismo riporta alla mente la fanatica “caccia alle streghe” associata al nome di Joseph McCarthy, il maccartismo, che nella temperie della guerra fredda conquistò l’immaginario di tanti e fu duro a morire. La censura del Senato ai danni di McCarthy nel 1954 non impedì ad almeno un terzo degli americani, stando ai sondaggi dell’epoca, di continuare idealmente a sostenerlo, ed esattamente dieci anni dopo un altro senatore repubblicano, Barry Goldwater, che si era opposto a quel voto di censura, accettò la nomination alla Casa Bianca invocando “l’estremismo in difesa della libertà”. Figura chiave seppur sconfitto nelle presidenziali del 1964, Goldwater denunciò oltretutto lo storico Civil Rights Act voluto dalle amministrazioni Kennedy e Johnson, rinnegando così principi fino ad allora saldi nel partito che fu di Lincoln. Perse le elezioni ma strizzò l’occhio ai segregazionisti che voltavano le spalle ai democratici, anticipando la “strategia sudista” adottata con successo da Richard Nixon e destinata a ridisegnare la mappa elettorale del paese in favore dei repubblicani. La sua candidatura attirò inoltre una leva di giovani attivisti e fu lui a lanciare nel firmamento politico la stella di Ronald Reagan, che gli fece da eloquente testimonial. E nel 1980, alla fine di un decennio segnato dalla disfatta in Vietnam, dal Watergate, dalla stagflazione, dall’esaurirsi dei moti contestatari, proprio Reagan guadagnava la presidenza, ereditando la “maggioranza silenziosa” di nixoniana memoria e vincendo sulle ali di una rivolta covata a lungo, quella della New Right: nazionalista, evangelica, quasi uniformemente bianca, legata ai valori della famiglia tradizionale e all’ethos individualista caro ai conservatori, avversa in tempi di vacche magre tanto a un fisco pesante quanto a un welfare troppo generoso verso afroamericani e altre minoranze scarsamente “meritevoli”.

Data giusto dagli anni ‘80 una specie di tira e molla tra la classe dirigente e l’ala movimentista del Partito repubblicano. Sotto la presidenza Reagan fu rilanciata la guerra fredda, poi conclusasi con l’implosione del blocco sovietico, e si cambiò rotta alle politiche economiche e sociali: deregulation, tagli alle tasse e ai programmi assistenziali, campagne securitarie, tra cui la “guerra alla droga” avviata in precedenza da Nixon ma assai intensificata, peraltro gonfiando le carceri di detenuti dalla pelle nera. La svolta – dalla ripresa dell’economia nel segno del liberismo alla rinnovata sfida all’Unione Sovietica, fino al ribadito imperativo “legge e ordine” – andava nella direzione auspicata dalla base, che tuttavia spingeva ulteriormente a destra, e vedendosi regolarmente mobilitata in vista delle elezioni, scalpitava insoddisfatta.

A fare le spese di questa rabbia latente fu il successore di Reagan, George H.W. Bush, che per sanare i conti pubblici – la Reaganomics e il riarmo nella fase finale della guerra fredda coincisero con un’impennata del debito – mise mano a un modesto incremento delle tasse. Gli costò la rielezione in una corsa a tre con il democratico Bill Clinton e il miliardario populista Ross Perot, che si accaparrò circa un quinto dei voti – ma già nelle primarie di partito l’ultraconservatore Pat Buchanan aveva insidiato la leadership del presidente uscente. Capitalizzò invece sulle pulsioni dell’elettorato Newt Gingrich, speaker della Camera dei Rappresentanti dopo che nel 1994 il fallimento di un’altra riforma sanitaria proposta dall’amministrazione Clinton riconsegnò ai repubblicani entrambi i rami del Congresso per la prima volta in quarant’anni. Alfiere del rigore fiscale e paladino della destra religiosa, Gingrich precipitò due government shutdown, ossia forzò ripetutamente la chiusura degli uffici governativi in un drammatico braccio di ferro coi democratici sul bilancio federale, e pilotò l’impeachment del fedifrago Clinton.

Col nuovo millennio aperto dalla controversa elezione alla presidenza di un secondo membro della dinastia Bush, George W., e dagli attentati dell’11 settembre, i repubblicani conobbero un’ulteriore avanzata, controllando per sei anni di fila tutti e tre i rami di governo, un’impresa che non riusciva loro da un’ottantina d’anni. Fu però una stagione densa di contraddizioni, chiusa da una debacle altrettanto eclatante. La “guerra al terrore” lanciata con sostegno bipartisan si incagliò nel pantano mediorientale e finì al centro di polemiche per le accuse di tortura e le draconiane misure di sorveglianza in ambito domestico, mentre Bush figlio alimentò lo “scontro di civiltà”, avendo sì premura di condannare i pregiudizi antislamici ma impiegando di frequente un linguaggio farcito di citazioni bibliche che infiammava gli animi. Non trovarono sbocco i tentativi di regolamentare l’immigrazione, intensa dal sudest asiatico ma soprattutto dal Messico e dal resto dell’America Latina sin dagli anni ’80, anch’essi bipartisan, assecondati da un’amministrazione con un discreto credito tra i Latinos. Altre iniziative di stampo liberista, tra cui nuovi tagli alle tasse, svanirono nella bolla speculativa esplosa tra 2006 e 2008. In quegli stessi anni i democratici riconquistavano dapprima il Congresso e successivamente la presidenza.

L’ascesa di Barack Obama alla Casa Bianca, combinata alle maggioranze democratiche in Campidoglio, provocò l’immediata e durissima reazione del Partito repubblicano. Presto si coagulò anche la risposta dal basso animata dal Tea Party, i cui attacchi al cosiddetto Obamacare rimestavano nientemeno che i fasti del totalitarismo e attingevano al razzismo strisciante dopo l’elezione del primo presidente nero. Sue caricature con anello al naso, baffetti alla Hitler o baffoni alla Stalin comparvero sui manifesti. Trascorsi un paio d’anni e nuovamente passata ai repubblicani la Camera, al coro di epiteti fece eco l’inopinata polemica sui natali kenioti di Obama, perciò ineleggibile ed illegittimamente in carica: una bufala propalata con gusto dal tycoon newyorkese celebre per la conduzione di un popolare reality show. Ben prima di entrare ufficialmente nell’agone politico, Trump vellicò i redivivi suprematisti. Quindi, al momento di candidarsi, incluse i migranti nelle sue invettive, e una volta subentrato a Obama, rincarò la dose sul piano retorico – emblematiche le pilatesche dichiarazioni sui fatti di Charlottesville – e con atti concreti come la costruzione del muro col Messico o la messa al bando degli ingressi, rifugiati compresi, da vari paesi a prevalenza musulmana. Nella campagna elettorale in corso, facendo leva sui peggiori istinti antisistema come quell’infausto 6 gennaio a Washington, ha tenuto il comizio d’apertura a Waco, Texas, nel trentennale dell’assedio alla setta dei davidiani da parte dell’Fbi, risoltosi in un massacro che il sanguinario McVeigh avrebbe “vendicato” a Oklahoma City.

La fine incerta di un ordine politico

La cifra del trumpismo non si esaurisce tuttavia nell’intolleranza a sfondo razziale, negli atteggiamenti sediziosi dati in pasto alle folle, nei messaggi in codice alle frange violente, che semmai sono intrecciati a complessi mutamenti sociopolitici di cui l’abile e spregiudicato comunicatore si fa interprete.

Qui è utile astrarre dal susseguirsi delle tornate elettorali e dall’alternanza garantita da un oliato meccanismo bipartitico. Oggigiorno si discute di crisi dell’ordine neoliberale, che in America, per un quarantennio a partire da Reagan, vide il sostanziale predominio dei repubblicani, fautori di un’economia di mercato sciolta dalle briglie dello stato interventista. Originò dal capovolgimento di un precedente ordine fondato sul New Deal rooseveltiano, di durata pressappoco equivalente, dominato dai democratici e caratterizzato dall’espansione della mano pubblica e da regole più stringenti imposte ai mercati. Se negli anni ‘50 il repubblicano Eisenhower aveva governato essenzialmente nel solco del New Deal, negli anni ‘90 il democratico Clinton si collocò analogamente rispetto alla svolta reaganiana. Adattandosi altresì al mondo post-guerra fredda e complici pure i progressi dell’elettronica, accelerò la liberalizzazione degli scambi commerciali, dei movimenti di capitale e manodopera, del sistema bancario, promuovendo globalizzazione e finanziarizzazione, raggiunse inoltre la meta del pareggio di bilancio e attuò nuove strette su welfare e sicurezza. E a tutto ciò corrispondeva una scala valoriale che premiava la responsabilità, il dinamismo e la creatività individuali.

L’ascesa decennale del conservatorismo contribuì a questi sviluppi, indubbiamente, e però non trascurabile fu la spinta innovatrice impressa dai coevi fermenti della New Left, specialmente nella sua declinazione libertaria, di cui ad esempio troviamo traccia nell’estro visionario di eccentrici capitani dell’industria informatica. Nient’affatto monolitico, tale “ordine” era d’altra parte percorso da tensioni. Destra e sinistra entrarono in conflitto sui temi che infervorarono il clima delle “guerre culturali”, come aborto e multiculturalismo. La critica all’establishment, comune ai radicalismi di vario colore politico, confluì sia nell’antistatalismo propugnato dai liberisti, sia in una sfiducia nelle istituzioni alla quale concorsero più cause: la crescente concentrazione della ricchezza a fronte di una contrazione della classe media e di permanenti sacche di povertà malgrado gli alti tassi occupazionali, la “fatica imperiale” seguita agli inciampi della superpotenza americana nella sua proiezione globale, ma anche gli effetti imprevisti di una sregolata proliferazione mediatica, prodotto dell’ennesima liberalizzazione d’epoca clintoniana e del simultaneo avvento di Internet, che accentuò la polarizzazione dell’opinione pubblica.

Il crack del 2008 e l’instabilità a livello internazionale aggravarono gli squilibri, assestando colpi solo parzialmente attutiti da Obama, che stentò a marcare una discontinuità col recente passato, pure al netto del controllo repubblicano alla Camera per buona parte del suo mandato. Sintomatica l’indulgenza nei riguardi delle grandi banche durante il salvataggio del sistema finanziario, specie se confrontata agli aiuti modesti concessi alle innumerevoli vittime della speculazione sui mutui, così come l’impronta privatistica del pur rilevante intervento sulla sanità. Condizionato da scenari foschi l’impegno in politica estera, col ritiro dall’Iraq ma non ancora dall’Afghanistan, le difficili operazioni militari in Libia e Siria dopo le primavere arabe e il dilagare dell’Isis, le asperità irrisolte nei rapporti con la Russia, gli accordi economici tentati nell’area atlantica e in quella del Pacifico dove prendeva forma il contenimento dell’espansionismo cinese.

L’irruzione di Trump sconquassò quindi la vita politica, ma avvenne all’interno di un quadro già mosso e l’insuccesso di Hillary Clinton non fu dovuto unicamente al rifiuto della visione post-razziale e cosmopolita di Obama o ai rigurgiti misogini incarnati da Trump, “uomo forte” e molestatore seriale. Gli slogan America First Make America Great Again, espressione di nostalgie isolazioniste ed etno-nazionaliste, si tradussero in un ritorno al protezionismo che riscosse favori ed è stato replicato da Biden, il quale ha pure disposto l’estensione del muro col Messico dopo averne deplorato l’esistenza. I flirt con Putin e gli screzi agli alleati europei hanno ceduto il passo alla collaborazione transatlantica sul conflitto in Ucraina, ma i contrasti con la Cina e l’impulso alla deglobalizzazione rimangono. Se viceversa Trump ribadì la propensione dei repubblicani a detassare e deregolamentare, Biden ha riesumato gli antichi arnesi della politica industriale e confermato l’orientamento all’interventismo pubblico sperimentato per l’emergenza Covid, operando anche qui una rottura e trovando un terreno d’intesa con la sinistra di Bernie Sanders, figlia di un vento levatosi ai tempi di Occupy Wall Street, nel 2011, e che da ultimo ha gonfiato le vele di un attivismo sindacale che non si vedeva da anni, se non decenni. Nel 2022, infine, con la discussa sentenza della Corte Suprema sul diritto all’aborto è forse arrivata al culmine la lunga marcia di una destra bigotta che ha trovato in Trump un improbabile campione, perché la battaglia combattuta sul corpo delle donne porta voti ai democratici, come è accaduto nelle elezioni di midterm.

Un discorso a parte merita l’altro conflitto esploso nel frattempo in Terra Santa. Prima degli attacchi terroristici del 7 ottobre, Biden si era sostanzialmente adeguato alla strategia perseguita dal suo predecessore con gli Accordi di Abramo, ma in questo caso ci sono le linee di continuità con il tradizionale sostegno bipartisan allo Stato di Israele. La sproporzionata reazione israeliana sta però mettendo a dura prova la credibilità americana nella regione, e non solo lì, e rischia di costare al candidato democratico voti preziosi in alcuni stati chiave per la corsa alla Casa Bianca.

Insomma, sono molteplici i segni che indicano il venir meno di un ordine politico gravato da pesanti ipoteche e nella complicata transizione verso il nuovo riemergono tare storiche. L’America ha risorse e riserve ma è profondamente spaccata. Quale che sia l’esito dell’appuntamento elettorale di novembre, difficilmente le fratture esistenti verranno sanate a breve. E se anche lo spettro di un Trump rieletto dovesse svanire, non andrebbero sottovaluti gli eventuali contraccolpi. In un paese con più armi da fuoco che abitanti, ci vuole poco ad accendere la miccia.

(Da “Prima Pagina”, Fondazione Ugo La Malfa).

Bruno Segre: una vita per la libertà e la dignità

Bruno Segre: una vita per la libertà e la dignità

di Sergio Rovasio

Bruno Segre il prossimo 4 settembre avrebbe compiuto 106 anni. Anche la data della sua morte, il 27 gennaio 2024, Giorno della Memoria, arricchisce l’incredibile curriculum che ha riempito la sua vita fatta di passioni, ideali, rigore, coerenza, lotte e coraggio. Averlo conosciuto e frequentato in questi ultimi anni è stato per me un grande privilegio, ogni volta mi faceva racconti della sua vita e rimanevo incantato ad ascoltarlo: entrava in particolari e dettagli preziosi per capire i contesti in cui avvenivano.

La solitudine accompagna le diverse fasi di impegno della sua vita. Da ragazzo a causa del fascismo rimane solo a gestire lo studio del padre, da solo finisce per ben due volte nel carcere delle Nuove di Torino per disfattismo politico, da solo fugge su per le montagne con Giustizia e Libertà, da solo difende gli obiettori totali di coscienza nel primo dopoguerra, da solo si è sempre proclamato ateo in una società fortemente clericale e quasi sempre solo si trova nelle lotte anticlericali contro i privilegi delle chiese. È quel tipo di solitudine che riempie di pensieri e di ideali i grandi protagonisti dell’impegno civile. Aveva come riferimento gli ideali di giustizia Liberali, Socialisti e Radicali, non gli piacevano le ideologie né tantomeno il comunismo perché lo riteneva una chiesa.

Cresciuto in Via Goito, nel quartiere di San Salvario a Torino, a 19 anni prende le redini del piccolo studio di assicurazioni del padre Dario, mandato al confino perché antifascista. È uno degli ultimi studenti di Luigi Einaudi che lo aveva inserito in un gruppo di dieci studenti ai quali ripeteva le sue lezioni. Quando nel giugno del 1940 discute la sua tesi all’Università di Torino, che ha per tema la figura di Benjamin Constant, fondatore del liberalismo, il padre è al confino a Rocca di Mezzo, tra Avezzano e L’Aquila. Festeggia la sua laurea in giurisprudenza in un rifugio antiaereo. 

Nell’inverno del 1942 viene arrestato dal regime fascista per disfattismo ed è rinchiuso per tre mesi nel carcere Le Nuove di Torino; il suo nome di battaglia è ‘Sicor’; nei suoi ricordi racconta di essere stato maltrattato, di un compagno di cella epilettico, di una cella gelida con l’unica finestra rotta: “Soffrii molto ma tenni duro, senza mai arrendermi alla durezza del carcere”.

Il giorno dell’armistizio, l’8 settembre 1943, è a Torino, fa la spola tra la casa di campagna, lo studio torinese e i rifugi antiaerei per consegnare clandestinamente i volantini del Partito Liberale e del Partito d’Azione. In quel periodo assiste alla prima operazione violenta nazista alla stazione di Porta Nuova: i tedeschi hanno arrestato alcuni bersaglieri per portarli ai treni per essere deportati in Germania. Alcuni ragazzi tirano pietre contro i nazisti che rispondono con raffiche di mitra, ne uccidendo alcuni. Di quell’episodio racconta: “Quella fu la prima azione di resistenza contro i nazisti a Torino”. 

Nel settembre del 1944 due agenti fascisti della Guardia Repubblicana si recano nello studio di Piazza Solferino per arrestarlo. Lui presenta un documento con il falso nome Bruno Serra. Gli agenti però vedono ovunque tra le carte il nome Segre; capisce che deve scappare, un agente spara tre colpi giù per le scale, due colpiscono il muro, il terzo il portasigarette di metallo che tiene nella tasca della giacca; così si salva. L’agente, da lui definito “un gorilla”, quando si accorge che è vivo gli dice: “accendi un cero alla madonna”. Gli risponde che non può farlo. Viene portato nella terribile caserma di Via Asti di Torino, poi nel carcere delle Nuove. Liberato grazie al pagamento di 20.000 lire da parte della famiglia, si arruola, nome di battaglia “Elio”, nelle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà in Val Grana, partecipa alla liberazione di Caraglio, nel Cuneese. In quel periodo svolge anche attività di volontariato fondando il Comitato clandestino di assistenza ebraica per gli ebrei superstiti.

Finita la guerra lavora come giornalista a L’Opinione, il quotidiano diretto da Franco Antonicelli e Giulio De Benedetti; raccontava sempre di quando nei giorni precedenti il voto sul referendum Monarchia-Repubblica incontra in Via Roma il Re Umberto di Savoia ‘il Re di Maggio’ in borghese al quale chiede “Mi scusi signore, lei per cosa voterà il 2 giugno?” E lui, quando si accorge della presa in giro si allontana velocemente verso la Prefettura senza rispondere.

Segretario dell’Associazione torinese contro l’intolleranza e il razzismo, nel 1949 fonda L’Incontro, giornale impegnato nella difesa dei diritti civili, contro il razzismo e l’antisemitismo, per il disarmo e la pace nel mondo; lo dirige fino al 2018. A 100 anni non ce la fa più a fare il direttore, il redattore e il “postino”; grazie all’avvocato Riccardo Rossotto ne salva la testata, divenuta online.

Finita la guerra può finalmente fare l’avvocato, cosa che il fascismo gli aveva impedito a causa delle leggi razziali. Era amico di Aldo Capitini che nel 1949 gli chiede di difendere il primo obiettore di coscienza totale: Pietro Pinna, storico esponente della nonviolenza gandhiana, incarcerato a Torino e che doveva essere processato davanti al Tribunale militare. Segre chiama a testimoniare il parlamentare socialista piemontese Umberto Calosso, storico protagonista della lotta al fascismo, già redattore di Radio Londra, studioso e professore universitario, in esilio per molti anni, membro della Costituente e poi parlamentare nella prima legislatura nelle liste del Psiup. Al processo Calosso esordisce dicendo: “Egregi signori, sono venuto qui a insegnarvi a non perdere la terza guerra mondiale”. Pinna viene poi liberato per un problema cardiaco. Segre continua a difendere gli obiettori di coscienza totali fino al 1972 quando grazie alla Lega Obiettori di Coscienza promossa dal Partito Radicale e alle campagne di disobbedienza civile ormai diffuse in tutta Italia, viene approvata la legge che consente un servizio civile alternativo a quello militare.

Nella primavera 1966 nasce a Roma la LID, Lega Italiana per l’Istituzione del Divorzio. Segre ricorda: “Andai a Roma poco dopo per chiedere a Marco Pannella di autorizzarmi ad aprire la sede della LID a Torino, conobbi molte persone e Pannella venne a Torino per sostenermi in questa iniziativa. Per promuovere una manifestazione organizzata da Loris Fortuna e il Partito Radicale e per il timore che andasse deserta causa l’ostracismo dei media, noleggiai un piccolo aeroplano e buttammo sulla città 10.000 volantini con su scritto “Il divorzio non viene dal cielo ma lo porta la Legge Fortuna/Baslini” invitando tutti all’incontro. Il Teatro era strapieno e centinaia di persone rimasero fuori perché tutto esaurito”.

Segre è stato da sempre impegnato nelle lotte anticlericali, contro i privilegi della Chiesa cattolica, per l’abolizione della da lui sempre definita “legge truffa dell’8 per mille”. È stato promotore delle campagne dello ‘sbattezzo’ insieme a decine di migliaia di attivisti, oltre che di iniziative di ogni genere per togliere i crocifissi dai luoghi pubblici e contro l’insegnamento dell’ora di religione nelle scuole con le relative nomine degli insegnanti da parte della Chiesa cattolica. Era Presidente onorario dell’Associazione nazionale del Libero Pensiero Giordano Bruno la cui sede torinese era ospitata presso il suo storico studio di Via della Consolata e per molti anni direttore della rivista culturale “Libero Pensiero”, tra i rarissimi periodici che in Italia promuovono una cultura laica e contro i privilegi delle chiese. Grazie alla stretta amicizia e collaborazione con la Presidente Maria Mantello, ogni anno, fino allo scorso 20 settembre ha promosso e partecipato con i Radicali, l’Associazione Marco Pannella e molte altre Associazioni, all’anniversario della Breccia di Porta Pia sotto l’obelisco di Piazza Savoia a Torino, unico monumento alla laicità dello Stato in Italia. L’obelisco fu eretto nel 1862 grazie al contributo di 800 Comuni italiani per ricordare le Leggi Siccardi del 1850 che abolivano i privilegi della Chiesa cattolica nel Regno d’Italia. 

Nei suoi racconti si vantava con orgoglio di essere il pronipote del Capitano Giacomo Segre che il 20 settembre 1870 spara il primo colpo di cannone a Porta Pia causando la famosa breccia che consente ai 50mila soldati piemontesi di entrare a Roma. Cadorna decide di farlo sparare ad un ebreo per evitare la scomunica che il Papa ha annunciato contro i soldati piemontesi. Pare che la scelta sia dipesa anche dalle sue capacità balistiche.

È stato presidente della Federazione provinciale torinese dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (ANPPIA). Dal 1958 al 1968 è stato consigliere degli Ospedali Psichiatrici di Torino, Collegno, Grugliasco fondando la rivista Nuovi Orizzonti cui collaborarono anche i malati di mente; è stato Presidente per 40 anni della Federazione delle Società per la cremazione cui dedica la rivista L’Ara, e Consigliere dell’Ordine regionale Piemonte-Valle d’Aosta dei giornalisti oltre che Consigliere nazionale della Federazione Nazionale Stampa Italiana. Dal 1975 al 1980 capogruppo del PSI nel Consiglio Comunale di Torino; dal 1980 al 1990 presidente effettivo dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino. Era iscritto all’Associazione Marco Pannella di Torino e ha contribuito con donazioni di documenti che lo hanno visto protagonista, conservati in diversi archivi, il più importante presso il Polo del 900 di Torino.  Era per la legalizzazione della droga: “meglio la diffusione responsabile che i pusher”. Durante l’incontro con i finalisti del Premio Morrione ottobre 2021 disse: “Posso ben dire con Brecht che ‘chi combatte può perdere, ma chi non combatte ha già perduto’ nella battaglia a favore della eterna libertà e alla necessaria dignità”.

La sua casa-studi era piena di libri, riviste, documenti e archivi e spesso faceva dono dei suoi libri ai suoi visitatori, tra gli altri: Non mi sono mai arreso; Quelli di Via Asti. Memorie di un detenuto nelle carceri fasciste nell’anno 1944; Aforismi. Cultura e Divertimento. 

Negli ultimi giorni aveva perso le forze. Diceva sempre che “le leggi della natura non concedono né armistizi né condoni” e non poteva sottrarsi a loro. Il 26 gennaio ha chiesto alla sua fedele collaboratrice Simona Becchi di scrivere sotto sua dettatura questo comunicato stampa:

“E’ improvvisamente deceduto a Torino il compagno Bruno Segre, noto quale difensore degli obiettori di coscienza in anni lontani facendo approvare la legge che Capitini istituì con il Servizio Civile. Egli è stato il compagno che ha sostituito il servizio militare obbligatorio. Inoltre, egli ha fatto numerosi processi a sostegno delle libertà civili e soprattutto ha promosso con estremo impegno il compito di ottenere l’approvazione della legge sul divorzio, che ha rotto i vincoli con cui la Chiesa esercitava il suo potere nel settore matrimoniale.    Era Presidente dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti ANPPIA e un indice di sicura garanzia nella lotta Antifascista.    I funerali si svolgeranno alla presenza dell’ANPI e delle altre associazioni antifasciste presso (il Polo del 900 dove dalle 11 alle 14,30 sarà allestita la camera ardente e alle 15,30 l’ultimo saluto presso la sala del commiato n.d.r.)”. 

Bruno Segre è morto il giorno dopo, il 27 gennaio 2024 nel Giorno della Memoria. Al suo funerale a Torino il 30 gennaio alla presenza del figlio Spartaco e dei nipoti; commuovente l’orazione funebre del nipote Ruben. È stato omaggiato da migliaia di cittadini presso la camera ardente allestita al Polo del 900 e poi al cimitero monumentale, alla Sala del Tempio crematorio con la presenza del Presidente della Regione Alberto Cirio, del Sindaco di Torino Stefano Lo Russo e le massime autorità istituzionali della città. Un uomo d’altri tempi? Forse si, speriamo quelli futuri, come amava dire Marco Pannella.

Arrestato per rapina, condannato. Ma quel giorno era all’estero

Arrestato per rapina, condannato. Ma quel giorno era all’estero

di Michele Minorita

Arrestato per rapina: N.K., 31 anni, serbo, è accusato di fare parte di una banda di malviventi che tra le varie cose ha preso d’assalto una villa nel veronese. Non poteva essere lui. La notte della rapina lui è nel suo paese, ma ci vogliono 365 giorni per accertarlo, lui li trascorre in carcere. Semplicemente perché le indagini sono state mal condotte. “costruite” su uno scambio di persona.

La storia comincia il 3 gennaio 2013. Quattro rapinatori fanno irruzione in una villa di Gazzolo d’Arcole nel Veronese. I quattro sono molto violenti, sparano, feriscono un diciannovenne, F.A., alla gamba sinistra. Alcuni testimoni riferiscono che i rapinatori parlano una lingua molto probabilmente slava. Gli investigatori si convincono di aver individuato il feritore del diciannovenne, N. K. appunto. Ottengono che sia arrestato mentre a casa sua, in Serbia, festeggia l’anno appena cominciato.

Comincia l’odissea. Racconta N.K.: “Dodici mesi di carcere. È stata un’esperienza durissima. Ho trascorso due mesi e mezzo in un carcere croato e per me che sono serbo è stato difficilissimo, stare lì non era per niente piacevole, un grande stress, mentale e fisico”. Quando viene estradato in Italia, le cose vanno un po’ meglio: “Le condizioni in cella erano migliori, ma anche lì per me è stato molto difficile perché, quando è venuta a trovarmi mia madre non pesava nemmeno 30 chilogrammi dal dispiacere per me. Le dissi ‘mamma, non venire mai più a trovarmi’, perché mi era molto difficile vederla in quello stato. Mio padre è venuto in Italia per starmi più vicino, e non potrò mai dimenticare che per mettere da parte ogni denaro per me, ha preso il cibo dalla Croce Rossa. Quel periodo è stato atroce, ma dovevo essere forte soprattutto per mia madre, che ha anche avuto un infarto”.

In primo grado, il 28 febbraio 2019, N.K. è ritenuto colpevole e condannato a dodici anni di carcere. Spiega, inutilmente, che la sera della rapina lui era in Serbia. Dunque, non poteva materialmente aver fatto parte di quella banda di malviventi. Niente da fare. In attesa del processo d’appello, N.K. è rimesso in libertà per scadenza dei termini della carcerazione. Devono trascorrere ben sei anni prima che la Corte d’appello di Venezia emetta una sentenza su questa vicenda: il nuovo processo comincerà ben quattro anni dopo. Per la nuova sentenza bisogna attendere altri sei anni. In tutto dieci anni: “Vivevo sotto stress e nella continua paura di ciò che il nuovo giorno avrebbe portato, dopo tutto quello che io e la mia famiglia avevamo già passato onestamente era molto difficile andare avanti. Non è facile convivere con quel pensiero, è terribile non sapere cosa avrebbe portato il domani”. La paura principale era quella di dover tornare in carcere: “Ne ero terrorizzato, perché se avessero confermato la condanna sarei tornato dentro e chissà quando mi avrebbero rilasciato”.

La Corte d’Appello di Venezia capovolge il verdetto di primo grado, N.K. è assolto per non aver commesso il fatto: “Non appena ho sentito il giudice pronunciare l’assoluzione, ho pianto a dirotto. Ora mi sento come chi è appena uscito dall’inferno, ho vissuto gli ultimi dieci anni in un incubo che non augurerei a nessuno: sono stato trattato da criminale senza aver commesso reati, ma soprattutto senza essere creduto dai giudici. Tremendo, un’atroce sensazione di impotenza. Ci sono voluti dieci anni, ma ora che la mia innocenza è stata finalmente riconosciuta”.

Ucraina, le immagini di una resistenza

Ucraina, le immagini di una resistenza

di Ted Baxter

L’italiana Arianna Arcara, il polacco Rafal Milach, l’ucraino Mykhaylo Palinchak, la tedesca Sandra Schildwächter: a loro dobbiamo uno struggente percorso fotografico, racconto e documento dell’impatto del conflitto in Ucraina sulle comunità colpite dalla guerra. Immagini scattate tra i palazzi distrutti nel Donetsk, nella regione di Kharkiv, nei rifugi di Kjiv. Momenti di quotidianità e sullo sfondo i segni della guerra: civili che si addestrano per diventare soldati, volontari che non possono andare in prima linea e contribuiscono allestendo mense improvvisate, pasti caldi per militari, medici, giornalisti. Una mostra che offre l’occasione per riflettere sulle cause di un conflitto scoppiato molto prima di quando, due anni fa, l’Occidente ha mostrato di accorgersene.

Arcara, Milach, Palinchak e Schildwächter sono stati scelti nell’ambito dell’International Visitor Leadership Program (IVLP), uno dei programmi di scambio culturale istituiti dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti: ogni anno vengono coinvolti circa 4.500 giovani specializzati in diversi settori. Nel 2021 i quattro fotografi sono stati selezionati per A global Moment in Time, un programma con cui si voleva indagare visivamente sulle conseguenze sociali del COVID-19 che ha colpito il mondo intero. Successivamente sono stati coinvolti nel progetto collettivo sull’Ucraina; obiettivo: mostrare, con le loro immagini, storie di resistenza della popolazione ucraina e il territorio martoriato dalla guerra. Così è nato Ucraina. Storie di resistenza.

Ciascuno”, spiega Arcara, “ha lavorato in maniera autonoma. Mykhaylo, ha seguito l’invasione russa dal suo inizio e i riscontri della guerra nel suo Paese. Io ho documentato le persone che scappavano dai territori colpiti, per poi continuare a lavorarci, nei due anni successivi, fotografando e raccogliendo testimonianze di civili che hanno subito l’invasione. Sandra ha fotografato delle famiglie ucraine rifugiate e accolte in Germania. Rafal si è concentrato sulle storie di persone che scappavano dall’invasione, raccogliendo testimonianze lungo il confine polacco con l’Ucraina, a Leopoli in Ucraina e poi a Varsavia”.

Il committente, gli Stati Uniti, assicura, non hanno influenzato il lavoro. Se Piuttosto, aleggia la “presenza” di Andy Rocchelli, uno dei co-fondatori del collettivo Cesura di cui Arcara fa parte. Rocchelli è stato ucciso in Ucraina nel 2014, mentre documentava il conflitto nel Donbass: “Il mio viaggio, per questo progetto, parte proprio da lì. Inizialmente ciò che mi ha spinto a intraprendere questa documentazione era continuare il suo lavoro; poi le mie motivazioni di partenza si sono evolute: più proseguivo, più entravo in contatto con i civili ucraini, creando così una mia visione personale del conflitto”.

I civili, in qualsiasi conflitto, sono i soggetti più colpiti. I quattro raccontano i traumi che la popolazione ucraina si porterà dietro per generazioni. L’“idea” del racconto fotografico è ritrarre persone, situazioni, paesaggi, attraverso dettagli: un fiore ghiacciato, una porta crivellata. “Nella mia parte di lavoro”, spiega Arcara, “le fotografie del paesaggio e quelle che colgono le persone si fortificano vicendevolmente, è tramite questo approccio che trovo il mio equilibrio, emotivamente e stilisticamente”.

Arcara non si reputa una reporter di prima linea: “Non avevo mai lavorato all’interno di un conflitto, solitamente mi occupo di fotografia documentaria. In Ucraina ho portato la stessa visione e autorialità che metto in campo anche in altri miei progetti: principalmente ho scattato con fotocamere medio formato e grande formato e ho passato diverso tempo a parlare con le persone e trascrivere quello che mi raccontavano. Questo non rende il mio lavoro migliore o diverso da quello degli altri, ma credo che le immagini prodotte e il modo in cui le sto esibendo, si distacchino dagli stereotipi ai quali siamo abituati”.

Tra le mille storie che ha raccolto, quella che l’ha colpita è quella di Dasha: “Durante l’occupazione, i russi ci terrorizzavano sostenevano che dovevamo evacuare con loro: gli ucraini, nella loro controffensiva, avrebbero distrutto tutto. Ci mandavano sms con scritto: “Evacuate, vi daremo certificati, nuovi documenti e soldi”. I miei genitori cominciarono a preoccuparsi, portarono me e mio fratello dalla nonna, sulla riva sinistra del fiume, dove restammo per un anno. Poi i russi arrivarono anche lì, con degli assistenti sociali che volevano deportarci perché non eravamo con i nostri genitori e nostra nonna non aveva documenti né autorizzazioni per dimostrare che potevamo stare con lei. Erano molto insistenti, dicevano che dovevano prenderci in custodia e mandarci in Russia per farci adottare. Fortunatamente mia madre, tramite conoscenti, è riuscita ad entrare in contatto con l’organizzazione Save Ukraine, che si occupa di bambini deportati in Russia. A 17 luglio, era un mercoledì, la mamma è venuta a prenderci con i volontari. Il giorno dopo sarebbero dovuti venire gli assistenti sociali russi per portarci via. Quando siamo arrivati ​​a Mykolaiv, non appena ho visto papà, ho sentito che era finita. Avevo pianto quando la mamma era venuta a prenderci, ma quando ho visto papà sono impazzita. Gli sono corsa incontro e mi sono gettata tra le sue braccia dicendo: “Papà, papà”, mentre le lacrime mi rigavano le guance”.

Henri Verneuil, il cinema perduto

Henri Verneuil, il cinema perduto

di Gualtiero Donati

Hélas, le cinéma français du passé… Henri Verneuil, origine armena, nato a Rodosto in Turchia il 25 ottobre 1920. In Francia quattro anni dopo, studi a Marsiglia, poi ad Aix-en-Provence. Giornalista, autore radiofonico, nel cinema dal 1945. Il primo film: Le table aux crevés; seguono, tra i tanti: Brélan d’as; Le fruit defendu; Le boulanger de Valorgue; L’ennemi public n.1; Le grand chef; Le Président; La 25e heure; La bataille de San Sebastian; Le clan des siciliens; Peur sur la ville; Mille miliards de dollars…

Racconta come può nascere un film: “Adoro i libri. I soldi che spendo di più li spendo in libreria…”. C’è un reparto che attraversa senza prestare particolare attenzione: quello dell’economia, “materia grigia che non fa per me”. Quel giorno no. L’occhio cade su un libro, Mille miliardi di dollari. Verneuil ne è attratto: “Lo prendo, lo leggo, naturalmente non capisco niente. Ma mi attira il nome dell’autore, Robert Lattès. Avevo conosciuto un Lattès al mare, un ometto simpatico che, quando mi aveva riconosciuto era venuto a dirmi, bontà sua, che gli piacevano i miei film”.

Verneuil trova un numero di telefono di Lattès, si danno appuntamento per un caffè, si fa spiegare il libro: “Capisco tutto e scopro che l’Italia, la Francia, gli Stati Uniti non sono niente a petto di multinazionali che magari si cifrano X,Y,Z, ma che hanno più potere dell’ONU…”. Verneuil si mette al lavoro, fruga in archivi, biblioteche, banche dati per un paio d’anni, nasce così il film sulle multinazionali.

Il film ha più di quarant’anni, ma è più che mai attuale: “Mi sono detto: un potere così, dei bilanci così e, contemporaneamente, una presenza così scarsa nel tessuto sociale del nostro tempo, come può reggersi, su cosa può basarsi. Chissà la corruzione, i delitti… e sono andato a cercare sugli archivi questa corruzione. Roba da accapponare la pelle. In politica, per esempio. Anno 1937. La multinazionale con casa madre negli Stati Uniti ha una filiale in Germania. Niente di male anche se c’è il nazismo. Gli affari sono gli affari. Ma scoppia la guerra, e la multinazionale che tratta metalli e armi, tramite la Spagna e la Svizzera, continua i suoi rapporti con la filiale tedesca. E continua i suoi guadagni. Tramite la Svizzera le arriva un giorno l’interrogativo: cosa fare d questi tuoi guadagni che giacciono qua? Risposta: investiteli nelle fabbriche d’armi tedesche. Di più. A Cincinnati, i tecnici al servizio della multinazionale, mettono a punto un sistema per scovare i sottomarini sul fondo del mare. Meraviglioso, sarà la fine della guerra sottomarina tedesca! Neanche per sogno. Lautamente pagato, il brevetto, tramite la Spagna arriva alla filiale tedesca che lo vende alla Marina nazista. E avanti seguitando, con un finale più allucinante di tutto il resto. Finita la guerra, siccome la filiale in Germania della nostra multinazionale era stata bombardata dall’aviazione alleata, la multinazionale chiede i danni al Pentagono. E ottiene 27 milioni di dollari. Piove sempre sul bagnato!”.

Sa come coniugare spettacolo con qualcosa da comunicare a chi vede il film, Verneuil: “Bisogna dire alla maniera del cinema, s’intende: non dicendo. Prima regola: tacere costruendo una storia in modo che qualcosa faccia intendere, insinui, sussurri. Attraverso strade che sono l’opposto esatto del messaggio, della polemica. Il film giallo, ad esempio, le storie poliziesche…il mio principio, quando scrivo una storia, è sempre questo: bisogna inventare dei personaggi che, se debbono rivelare qualcosa allo spettatore, debbono a loro volta scoprirla insieme con lo spettatore nel corso di una indagine”.

Ecco, dunque, che Verneuil immagina come protagonista della sua storia un giornalista, lo mette al centro di una vicenda in cui si trova coinvolto senza volerlo. Una seria uno sconosciuto lo contatta per dirgli che ha le prove che un politico si è venduto a una grande multinazionale, se vuole può fare uno scoop. Il giornalista fa le sue verifiche, capisce che c’è del vero, lo scandalo è grosso, gravido di conseguenze. La prima è che il politico si suicida. “Facile no? Tutto chiaro. Invece niente. A poco a poco si verrà a sapere che quel politico è stato ucciso e ci si è serviti del giornalista per far esplodere lo scandalo…”.

Verneuil, tra i protagonisti di una stagione irripetibile del cinema francese, muore l’11 gennaio del 2002. Sotto l’occhio della sua cinepresa mostri sacri del calibro di Jean Gabin, Alain Delon, Lino Ventura, Jean-Paul Belmondo      

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