A quando la fine dell’Olocausto?
di Angiolo Bandinelli
Questo libro ha in copertina uno strillo: “Alle origini dello Stato moderno”. Il lettore si sarà chiesto che cosa esso possa voler dire, collocato ad epigrafe di una raccolta di saggi e interventi che hanno come argomento l’attentato partigiano compiuto a Via Rasella il 23 marzo 1944, il giudizio politico, storico, civile e morale che di quell’episodio si debba oggi pronunciare e, soprattutto, l’interpretazione e il giudizio comunque datone da Marco Pannella con il suo famoso intervento al congresso straordinario del partito radicale del marzo 1979; quando egli puntò un dito che parve accusatore verso il “nostro compagno Bentivegna”, la “nostra compagna Capponi” per chiedere conto, ma non solo a loro, della strage – terroristica? – che spense insieme le vite dei miliziani altoatesini e dei detenuti italiani di Regina Coeli. Che ha a che fare Via Rasella, quell’episodio resistenziale controverso ma ormai lontano, con le origini dello Stato moderno?
L’episodio è noto almeno nei suoi essenziali tratti; ma dando per scontata e forse irreparabile, l’oscurità su particolari e nessi anche non secondari, così come sul ruolo di alcuni tra i protagonisti, o indiziati come tali. Tuttavia è proprio in grazia di queste oscurità che possiamo dire oggi che la vicenda proietta la sua ombra ben lontano negli anni seguenti; e anzi, scavalcando la scansione dei minuti, delle ore e dei giorni in cui essa si produsse e produsse i suoi sanguinosi effetti, giunge a lambire le nostre ore, il tempo della nostra cronaca: provocando, accanto alle tante altre cose, persino questo ennesimo libro. Non saremmo però troppo pretestuosi e sleali se dicessimo – come diciamo – che la storia più densa e duratura di Via Rasella e proprio quella che comincia e scorre “dopo”; dopo, e ben oltre, lo scoppio della carica esplosiva nascosta dentro il carrettino di legno della nettezza urbana collocato a metà della centrale viuzza romana; ben oltre il massacro dei 335 detenuti di Regina Coeli. Via Rasella produce i suoi più laceranti effetti, ci pare, nelle vicende che legano assieme, ancora molti anni dopo, denunce e martirologi, querele e attestati, accuse e medaglie, lungo l’arco incredibile di quaranta anni; fino all’ultimo episodio, di pochi giorni fa, del ritrovamento da parte del Ministro della difesa, Lelio Lagorio, della dimenticata – smarrita? – medaglia d’oro al valore decretata al partigiano Rosario Bentivegna e mai a lui consegnata; un episodio dai risvolti meschini, emblematico del clima in cui si svolge oggi il confronto civile e politico nella nostra Repubblica.
Se i fatti accaduti in quel marzo 1944 sono in parte, e per alcuni dei loro nessi essenziali oscuri, più oscura ci pare sia questa seconda e più lunga storia piena anche essa di interrogativi e di sospetti, di strumentalità e di grottesco, di cose non dette, di altre non investite dalla luce della critica: tanto che quando interviene un richiamo all’episodio – come lo ha fatto Pannella al congresso del suo partito del mano 1979 – ecco risvegliarsi echi avvelenati e sferrarsi attacchi perentori, ultimativi: “Via Rasella non si tocca”. Perché questa acrimonia? Che c’è, dietro Via Rasella?
Ma è chiaro: la vicenda di Via Rasella non è ancora stata consegnata alla discorsività di un giudizio; essa è intoccabile ingiudicabile. È questa, meglio che l’altra, l’epigrafe che dovremmo porre in testa a questa raccolta. Per questa chiusura, così brucianti sono state le reazioni all’intervento di Pannella; che era innanzitutto, appunto, un giudizio e chiedeva che su Via Rasella, sull’episodio del marzo 1944, sia infine lecito dare un giudizio – giudizio di parte – senza incorrere in anatemi. Eppure, basta scorrere gli interventi qui raccolti; e si vedrà quanto sia difficile raccogliere sotto un unico denominatore i giudizi possibili sull’episodio. Dopo quaranta anni – dopo tante attestazioni! – il giudizio dovrebbe essere unico monocromo; invece, nel momento in cui l’uno o l’altro degli interpellati si appresta a rispondere, finisce per aggrovigliarsi in una matassa densa di aporie e di dilemmi.
Da una parte il tentativo di consegnare Via Rasella alla fissità del mito o del rito; dall’altra, ecco le prove che quell’episodio solleva ancora un turbine di perplessità, di dubbi, di questioni che non trovano conciliazione: eppure, tra gli interpellati che qui rispondono non c’è una sola personalità che provenga da quella destra che da sempre ha condannato l’episodio con pertinacia ed anche – diciamolo – con strumentale scaltrezza. Via Rasella è episodio insomma, emblematico. Come tale, esso partecipa di due modi d’essere, l’uno e l’altro con la pretesa di essere l’autentico e il necessario.
È pur vero che sul proscenio della storia l’ambiguità è di casa. Qui l’uomo ha da sempre collocato a fronteggiarsi il bene e il male, il vero e l’utile, il “terribile dovere” (o l’assoluto della purezza) e l’esigenza della moralità, il machiavello e l’autentico, la necessità storica e le pretese della libertà; tutta la serie delle endiadi, delle contraddizioni ed aporie sulle quali si affatica il farsi della storia e della società civile.
Quando si parla, oggi di autonomia del politico si intende parlare di questo accadere sul proscenio della storia come di una recita per la quale sono poste regole e leggi altre da quelle che vigono nel quotidiano. L’autonomia è assunta a sinonimo di assolutezza. Ora, è vero che l’autonomia del politico della storia, è il “luogo” dove accadono e si intrecciano gli unici avvenimenti portatori di valori e di fini universali; e che in nessun altro “luogo” valori e fini si pongono e si svolgono. Ma il rischio è che valori e fini cerchino di svincolarsi dal farsi e dall’accadere (o, all’opposto, questi da quelli) per irrigidirsi nella fissità del rito e del mito. In questo caso l’accadere cede il posto allo spettacolo, cioè alla rappresentazione della storia; che, a differenza della storia vera, può ripetersi, essere ripetuta, quindi “giocata” e resa inoffensiva; quindi in qualche modo accessibile, rispetto alla drammaticità unica e irripetibile dell’accadere storico. Se della storia, della politica, può essere fatta solo narrazione, quando la narrazione non è più sufficiente si ritorna – si è ritornati – allo spettacolo, al teatro, come modellistica dei valori che consenta di riprodurli in maniera conclusiva e probante; fino alla catarsi che spiega e purifica. Nel teatro – nello spettacolo – lo svolgimento dei conflitti etici giunge ad una risoluzione. Laddove la “scienza” non riesce ad arrivare se non per frazioni e settori, vanamente anelanti a una pretesa di totalità (nell’ovvia impossibilità di fare ricorso ad un metalinguaggio che consenta di accertare “scientificamente” il totale dell’accadere) il teatro riesce a organizzare simboli adeguatamente esplicativi. Solo che si tratta di simboli, di riti e – come ci hanno insegnato i greci, presso la cui rivoluzionaria cultura nascono assieme la storiografia e il teatro – di miti.
Nella storia, dunque, gli avvenimenti possono essere solo narrati; la possibilità che ha l’uomo di comprenderli è solo nella capacità che ha di narrarli, raccontarli e, nel raccontarli, di giudicarli cioè riempirli della sua moralità. Ma gli è impossibile spiegarli, collocarli entro schemi semplificatori. Qui c’è in agguato, appunto, il mito, il rito. In una sua recente intervista, uno dei protagonisti dell’attentato di Via Rasella, Antonello Trombadori, alla domanda su cosa pensasse dell’affermazione che quell’episodio debba essere considerato come una “tragica necessità”, rispondeva di condividere il giudizio: “Per me – egli aggiungeva – che mi onoro di essere un marxista di estrazione hegeliana, agire secondo “necessità” significa agire secondo il corso della storia…”. Trombadori avrebbe dovuto ricordare che non da una sola parte venne opposto ad Hegel il diritto alla irriducibilità del singolo alle pretese della storia, quando questa sia ridotta dentro uno schema talmudico, sia pure quello del cosiddetto “corso della storia”.
Conciliare gli inconciliabili è impossibile, come ogni pretesa di semplificare le aporie della eticità. Si scorrano queste pagine. Ecco: Via Rasella fu un episodio di guerra necessario e giusto; oppure, al contrario, Via Rasella fu un’azione condannabile e inutile (o anche, pensate, necessaria “e” ingiusta, o – persino – condannabile ma “utile”; le combinazioni sono infinite, e tutte accettabili e “verificabili”). La storicità, anche in questa vicenda, non accetta, non consente semplificazioni, secondo faglie di rottura semplici e “scientifiche”. Bisogna rassegnarsi, accettare la drammaticità dell’accadere storico e scegliere a proprio rischio, realizzando in tal modo la propria eticità. Null’altro. Nel concreto confronto, nello scontro storico, si realizzano i valori, l’etica diventa, essa stessa, struttura essenziale del reale, della storia nella sua unica dimensione comprensibile, quella politica. A volte, anche nella storia, la storia vera, laddove il narrare non sia possibile o viene impedito, cadiamo nella dimensione altra (non errata, ma “altra”) dello spettacolo, del rito, del mito: teatro, insomma, ripetizione della storia, gioco del politico, che sotto la parvenza del diverso in realtà obbedisce alla legge (maschera) dell’identico.
Intorno a Via Rasella, evento – ripetiamo – altamente emblematico, si è subito operata una tale inversione di ruoli. Il fatto viene qui mostrato come rito immutabile, mito. Su Via Rasella non può darsi giudizio storico. Robert Katz viene condannato dal Tribunale di Roma per aver osato pronunciarne sul comportamento di Pio XII; Pannella è querelato per vilipendio della Resistenza. La risposta ad una interpellanza parlamentare accredita più di un documento d’archivio.
Siamo franchi; la verità su Via Rasella non può essere detta non perché vi sia una verità nascosta, ma solo perché l’episodio è diventato emblematico dell’intera vicenda, dell’intera moralità della Resistenza, che è il certo fondamento della Repubblica antifascista. A Via Rasella è toccata la sorte di Caporetto e di Vittorio Veneto, riti e miti per altre generazioni di italiani. Via Rasella sta a garantire la cesura col fascismo, col passato fascista. Questa è l’asserzione fondamentale su cui si regge il mito di Via Rasella. Da Via Rasella nasce e trova corpo la moralità resistenziale. Episodio di parte quale fu, Via Rasella ha finito col superare i confini della parte che ne fu protagonista, e col colorare di sé l’intera vicenda resistenziale. Che sia stata costruzione ideale e rituale a posteriori, intessuta su una complessa operazione culturale, non muta le cose, anzi. L’operazione era necessaria, e per questa necessità venne di fatto accettata anche da coloro che all’inizio furono estranei, o condannarono l’episodio. Ciò di cui gli uni e gli altri avevano bisogno era una giustificazione e il consenso delle grandi masse popolari. Che questa esigenza sia nata e si sia sviluppata con maggiore urgenza e forza nella dirigenza comunista dimostra semmai che questa dirigenza era già, a quel momento, portatrice – con chiarezza o meno – di una complessa ideologia di tipo nazionalpopolare che la radicava nel paese; la stessa che provocava, poco dopo, la svolta di Salerno; non nata, quindi, per caso o all’improvviso.
Eppure – qui il nostro giudizio diverge – nel momento in cui si manifesta in tale forma e accentua la necessaria frattura con il passato fascista, questa ideologia non fa che confermare la propria continuità con il passato, persino – paradossalmente – col fascismo. E in questa intuizione un altro aspetto della ambiguità di Togliatti, uomo attento al fenomeno fascista ben più spregiudicatamente dell’altra componente dell’antifascismo, quella illuminista, liberale e garantista, con le sue interpretazioni solennemente – e, ahimè, vanamente! – racchiuse nello heri dicebamus di un Benedetto Croce orgoglioso e cieco. Via Rasella fa corpo con l’intuizione togliattiana, sia stato egli, o meno, partecipe o al corrente della decisione del comando partigiano. Via Rasella cancella e assorbe, insieme, i due grandi simboli di sangue sui quali è stato eretto lo Stato italiano: il Milite Ignoto e i Martiri della Rivoluzione Fascista. Nel fondare il nuovo mito nazionalpopolare rinnova il vecchio o i vecchi; attira dentro la cultura nazionalpopolare una lotta, quella resistenziale, fino a quel momento lontana dalle risposte delle grandi masse. Via Rasella accredita e rinverdisce i valori del vecchio Stato, dello Stato nazionale, infine.
Lo Stato nazionale è in buona misura un problema della storia e della politica. E difficile trovare analisi soddisfacenti del suo nascere, del nascere di questo complicato fenomeno. La “nazione” che gli dà il nome e il corpo è prodotto culturale, che si sovrappone a processi di vario carattere, e li copre perfino malamente. Proprio in questi ultimi due decenni, attraverso il processo di formazione degli Stati nazionali nei territori già coloniali, ci avvediamo di questa artificiosità. Lo Stato-nazione, per lo più, si afferma sul massacro di nazioni etnicamente, culturalmente e linguisticamente molto ben sviluppate e percepibili; come quelle che, nell’affievolirsi della forma-Stato, affiorano di nuovo oggi in tutta Europa, attraverso movimenti e persino conati di rivolta. Lo Stato nazionale è un fatto esso stesso di colonialismo, nel quale il momento culturale è fortissimo, determinante.
Momento culturale del formarsi dello Stato-nazione è un rito di sangue. CRL Schmitt ha ragione quando individua nel “sangue rituale” un cemento storico dello Stato-nazione, e non è affatto un reazionario quando riconosce nello Stato hitleriano un modello stilizzato ed emblematico dello Stato moderno, in una sua essenza ineliminabile. Questo rituale del sangue ha bisogno di rinnovarsi periodicamente. In Italia c’è quindi Vittorio Veneto e c’è il Milite Ignoto; e c’è il suo equivalente in tutti i paesi d’Europa, quando in ciascuno di essi ci si rende conto che occorre rafforzare e motivare il consenso presso le immense masse contadine portate al macello di una guerra che esse non hanno capito e non hanno voluto, e nella quale sono state trascinate dalle moderne tecnologie del Progresso. Queste plebi hanno vissuto il massacro come cataclisma e maledizione: quando Papa Benedetto XIV definisce la Grande Guerra come una “inutile strage” può farlo con la forza che gli viene dalla secolare, intima esperienza della Chiesa in fatto di sentimenti e di valori plebei e contadini. Per piegare la sorda resistenza di questi valori, che non accettano di essere sconvolti e massacrati in nome della Storia, occorre immergere ritualmente quelle plebi in un lavacro di sangue purificatore.
Il fascismo replica tale rito, coi suoi eroi e martiri assurti più o meno credibilmente nella simbologia nazionale. L’operazione riesce comunque bene perché il processo di sviluppo dello Stato è da noi appena iniziato. Così lo Stato fascista è il primo compiuto realizzarsi dello Stato-nazione italiano. Tra Vittorio Veneto e la Rivoluzione fascista vi è continuità nella cesura: un risultato che, nel mondo dei riti, è possibile e neppure troppo raro. A sua volta Via Rasella, nel momento in cui apre al nuovo, ribadisce la piena continuità col vecchio, il vecchio Stato, di cui assorbe e perpetua i valori. O cerca di farlo; ma è lo stesso. Via Rasella fu dunque davvero un atto necessario, una “tragica necessità”.
Il fatto politico chiede oggi una interpretazione simbolica, non si contenta di essere spiegato nell’ambito del razionale. Non si contenta di essere, insomma, narrato e giudicato. Da quando il trono e l’altare si sono separati, e l’investitura non è più per grazia di Dio, il politico ha avuto bisogno di ritualizzarsi e di sacralizzarsi esso stesso, nei suoi valori e processi. Storicità e rito coesistono. L’intellettuale laico, se non è stato coinvolto e non ha secondato, ha guardato con smarrimento e ha condannato; allora l’uomo politico lo ha respinto, e molto spesso lo ha liquidato con la violenza, per impedirgli di gridare la sua sgomenta protesta. La storia contemporanea è piena di questi assassini, nei quali però l’omicida può accampare, a propria difesa, i diritti della Storia, la dura necessità, quella stessa che oggi è invocata per giustificare Via Rasella. Mussolini assassino di Matteotti viene assassinato con le identiche sue giustificazioni etiche e politiche.
La follia è il lato oscuro della ragione, in questo teatro bifronte e ineluttabile della storia, ma è equamente divisa. Emilio Lussu ha descritto come un pazzo il generale che visita l’avamposto, ma chi non capisce le supreme ragioni dello Stato rappresentato da questo pazzo è egli stesso un pazzo; sia fucilato; nelle retrovie del Piave o in un castello rococò di retrovia, come ci hanno raccontato Ernest Hemingway o Stanley Kubrick. Da questo groviglio, l’opposto scontrarsi del giudicare e del punire. L’etica non è mediabile: è sempre, comunque, rischio.
Lo Stato moderno è la Storia moderna. E per questo è impossibile giudicarlo e punirlo. Norimberga è un dramma di questo equivoco. Le stesse potenze, gli stessi poteri che impongono quel processo, pochi anni più tardi fanno assassinare Dag Hammarskjoeld, che si sforza di trarne conseguenze operative. E bagnata di sangue è la ricerca, ossessiva, da parte dello Stato ebraico, dei torturatori dell’Olocausto; i quali, quando vengono scovati e sono processati, appaiono essere figure del tutto inadeguate e sopportare la giustizia che li condanna in nome di ineccepibili e razionali logiche giuridiche e norme etiche. E poche cose sono penose a concepire quanto la vita di Rosario Bentivegna, da quaranta anni impigliato nella rete delle accuse e dei processi, delle ingenerosità e dei tormenti, delle carte bollate e delle giustificazioni a posteriori, nella ricerca capziosa del più insignificante scarto ermeneutico che consentisse una più favorevole lettura e interpretazione del gesto che lo vide protagonista, e che certo venne compiuto nel più assoluto rigore delle scelte etiche personali. Per quanto possa sforzarsi, Bentivegna non ce la farà mai a fare chiarezza attorno al proprio gesto. Ma sarebbe ingeneroso chiedergliela, come si fa da destra, un settore culturale dove certi procedimenti e riti sono di casa e se ne conosce, strumentalmente, tutte le molle segrete.
Pare a noi, a questo punto, di poter azzardare che in fondo Pannella, con il suo intervento congressuale, ha proprio cercato di spezzare il ciclo, di interporvi una cesura ideale. Pannella ha respinto Via Rasella non da destra, ma in nome di un principio più profondo e diverso. La ricerca di una politica della nonviolenza pone il problema di innovare su questi fondamentali processi, facile o non che sia questa ricerca: il nonviolento respinge la fatalità del “morire”, del morire necessario, anche “per la patria”.
La disobbedienza civile, la politica dei diritti civili già esigono distacco dallo Stato nazione e dalla sua ipostasi, fondata sul rito del sangue: è il rifiuto classico del garantismo e del libertarismo combinati. Ma non basta. La nonviolenza aggiunge un qualcosa di più, di più complesso. Da una parte, insomma, appare continuità tra Ernesto Rossi e Pannella. Rossi fu il lucido politico che avvertì il pericolo della continuità tra Stato fascista e Stato post-resistenziale, continuità persino nelle sue classi dirigenti. Questo Stato avvertì essere inadeguata cornice per ricomporre unità di valori indifferenziati; perciò di “questo” Stato egli fu fervido antagonista, e attraverso la sua opera ha potuto trovare corpo la coscienza di una irriducibile alterità democratica, di una religione della libertà che si candidi come valore alternativo paradigmatico e quindi eterno, anche nel momento della sua contingente sconfitta. Pannella cerca di ampliare il discorso. La questione del nostro tempo è come recuperare in termini laici la componente “religiosa” dell’odierno fare politica, in forme alternative alla pulsione di sangue e di morte che è nello Stato contemporaneo. È possibile, in definitiva, nelle condizioni date dal mondo moderno, nello Stato moderno, attuare una politica che abbia, senza cadere nell’irenismo, non il sangue ma la vita a suo fondamento?
Quando Pannella concede a Nuova Repubblica, il giornale di Randolfo Pacciardi, all’inizio degli anni ‘60, l’intervista che gli valse la scomunica di Mario Alicata, quando i radicali individuano la continuità tra le classi dirigenti antifasciste e lo Stato fascista, si rendono conto che è necessario fare i conti con questa sfida, se si vuole fare sviluppare l’eredità liberale e riproporla al paese come scelta antagonista rigorosa. E tuttavia, nel momento in cui cominciano a dare corpo a tale disegno politico, i radicali sanno bene che nemmeno essi saranno immuni dalla maledizione fascista.
Il rapporto nuovo con la gente, il linguaggio diretto e lo stile narrativo, la “religiosità” divenuta intrinseca al fare politica, tutto questo rappresenta la presa di coscienza, a livello teorico, dell’ineluttabilità dell’esperienza storica del fascismo. Nulla di originale, comunisti e cattolici, anche essi, si sono appropriati di cospicui segmenti di questa eredità. Ma per i radicali è essenziale il riconoscimento del debito, il rifiuto ad alzare barriere e frapporre artificiosi steccati, al metodo della condanna. Il fascista è in noi. Siamo fascisti, tutti, sette volte al giorno. È così che i radicali possono anche irridere chi si scandalizza perché un piccolo intellettuale errabondo, transfuga dalle file fasciste, viene a bussare alla loro porta, chiede la loro tessera. Così, con il suo intervento congressuale, Pannella ha inferto un altro colpo ad una immagine della Resistenza che rappresenta ormai una intollerabile occlusione, rispetto ad una comprensione più matura e drammatica della storia del Paese. Bentivegna e la Capponi sono nostri, “nostri compagni” anche perché quanto si è costruito in questi quaranta anni su di loro grava ambiguamente sulle nostre spalle, rispetto ad una verità che va infine detta.
La Resistenza è stata un elemento totalizzante dell’orizzonte culturale e politico della Repubblica, e come tutti i fenomeni totalizzanti rischia di essere un passivo. Il fenomeno tiene ancora, anche se è possibile pensare che il suo peso reale sul quotidiano sia ormai eroso. Su questa tenuta occorre forse oggi fare una verifica; perché ad esempio, mantenere in vita, con i suoi attributi e il suo specifico, un fenomeno archeologico come è il Movimento Sociale, con la sua etichetta di portatore dell’eredità, del virus fascista? Recandosi al congresso del Msi, Pannella ha di certo voluto esibire l’incongruenza di questo retaggio antistorico e strumentale, mantenuto in piedi dall’interesse combinato di tutti; il Msi per drenare e accaparrarsi il suo quoziente di consensi, i partiti dell’arco costituzionale per costituirsi un antagonista a buon mercato. Non si tratta neppure più di spezzare una spirale antistorica, quanto proprio di demolire un altro mito su cui fanno conto troppe ambiguità e troppi ammiccamenti.
Non è il MSI il portatore dell’eredità del fascismo. L’eredità del fascismo è proprio in noi, innanzitutto, e con essa dobbiamo fare quotidianamente i conti; è poi in gran parte dell’edificio repubblicano, in leggi e in una economia di cui storicamente si riconoscono ancora i lineamenti corporativi. C’è fascismo storico nell’ostinazione della cultura comunista e marxiana a respingere ogni modello liberale e libertaria per conseguire piuttosto, con una coerenza che ha la sua grandezza e dignità il »superamento dello Stato liberale; c’è fascismo storico nell’illusione di larghi settori socialisti di raccogliere un più largo consenso attraverso l’esaltazione dei nuovi corporativismi emergenti protesi ambiziosamente a sostituire – semplicemente sostituire sui piano sociologico – le vecchie suddivisioni di classe d’una ormai remota società italiana, arata e definitivamente sconvolta dall’effetto del progresso tecnologico e dell’omologazione culturale.
Tutto fascismo attorno a noi? L’obiezione, accolta, è irritante, perché è impossibile darle una risposta evidente e recisa. Il fascismo è una componente essenziale della storia moderna; comunque questo è assodato, e proprio da più recenti – spesso compiaciuti, talvolta allarmati – studi di parte marxiana. Per il resto, è evidente che lo scavo e la ricerca debbono continuare. E a questo punto, non ci si può dimenticare nemmeno il fatto che i radicali hanno assunto – per definire e individuare il dramma della morte per fame nel mondo – lo stesso termine col quale venne definito e individuato il più grave e irreducibile dei delitti di cui si macchiò il fascismo e il nazismo: l’Olocausto. La fame nel mondo è l’Olocausto del nostro tempo, dicono i radicali; e qui le cose sono due: o essi sono irresponsabili propalatori di notizie false e tendenziose, oppure il nostro tempo e il nostro comportamento, la nostra responsabilità di fronte alla strage per fame è il nuovo aspetto del nazismo e del fascismo che ritornano.
Qui è il nocciolo del dilemma tra fascismo e ragione tra sangue e vita. È possibile che il nostro tempo possa accettare nell’indifferenza la morte per strage dei milioni (e fosse pur un solo uomo, il diritto e la verità, quelle dell’antifascismo che va in galera per testimoniarle, sono già mortalmente offese) solo perché questi non sono i nostri vicini di casa, legati a noi dalle consuetudini del sangue e della lingua? Non c’è bisogno dell’oscenità di un Louis-Ferdinand Céline per essere antisemiti, per consegnare alla storia del nostro tempo un dramma e una responsabilità immani, non meno blasfeme del linguaggio del letterato collaborazionista. Forse, addirittura, questa nostra storia è più cieca di quella che, nella prima metà del secolo, trovò forza di esprimersi con le grida violente del dramma e dell’ossessione.
Considerati questi elementi, davvero il dibattito su Via Rasella assume una proporzione, dimensioni diverse. Possiamo uscire con qualche ragionevole cinismo dalle ambiguità di scelte che hanno ormai trasparenze esauste. Fu azione giusta, o ingiusta? Fu necessaria o colpevole? Le azioni si giudicano e si giustificano anche con le azioni, vale a dire con la responsabilità dei comportamenti, con l’eticità delle scelte, terreno vastissimo e incolto ormai, nell’indifferenza di una storia e di una politica che si fanno giudicare solo attraverso complesse e rituali trasposizioni e mediazioni linguistiche, dai chierici dell’odierno anti-umanesimo.
Il fascismo fu certamente la riappropriazione carismatica di un diverso e diretto rapporto del duce verso le masse. Mussolini come Nasser e Gandhi, contro le sorde élites sulle quali la politologia degli inizi del secolo costruiva complessi e dubitanti modelli pieni di pessimismo e di paure; o contro, anche, le grandi avventure intellettuali che hanno cercato di imporre alla Storia in mutamento le grandi opzioni della Ragione illuminata, confortata – per la prima volta da sempre – dalla forza del processo e dalla moltiplicazione delle risorse; certo, anche contro il progresso. Quindi reazionario. Ma con un dato di verità al suo fianco che riduce, se non distrugge, l’infamia di quell’etichetta di irrazionale carismaticità che lo rende persino – e volutamente – incomprensibile e non giudicabile. Carisma è non solo, ma anche, strumento di riappropriazione del politico, della parola, dell’individuale eticità da parte di masse secolarmente spossessate dalle mediazioni dei ceti e delle classi dominanti. Nel tempo dei partiti nuovi, dei grandi partiti etici, rivoluzionari, dei partiti della parola, dei partiti religiosi, il fascismo va restituito ad una intelligenza storica che, per essere drammatica, non può accettare le scorciatoie della demonizzazione e della rimozione. Fare questo, sarebbe esporci alla più cocente delle disillusioni.
Ecco quindi tornare a noi Via Rasella. Se non vogliamo essere “fascisti”, cioè se non vogliamo accettare anche noi l’ineluttabilità del rito e del mito, se vogliamo davvero essere eredi e continuatori dell’illuminismo che faticosamente cerca di restituire alla politica la dimensione del possibile, dobbiamo respingerla anche noi, dobbiamo dire no alla carica di dinamite che falciò i miliziani altoatesini delle SS. Dobbiamo cercare insomma, per essere gli antagonisti del peggio del nostro tempo, di modificare una volta per sempre quello che è il corso apparentemente ineluttabile delle nostre storie.
Nonostante le apparenze, chi si ponga su questa strada è meno solo di quanto possa a prima vista apparire. Si deteriora e si sfuoca l’immagine di Via Rasella, quell’immagine sulla quale è stato edificato mezzo secolo, quasi, di storia repubblicana. A far deteriorare l’immagine è anche la violenza e l’idiozia delle nostre classi dirigenti Lelio Lagorio utilizza l’episodio per mettere in difficoltà i comunisti, ricordando loro, strumentalmente, un momento difficile della loro storia. Nel suo deteriorarsi, l’immagine trascina con sé in basso, e rende sempre più illeggibili e vane, le dispute sul significato etico dell’episodio e sulle aporie che attorno ad esso si sono immediatamente divaricate, aporie necessarie, come sempre necessarie sono le domande che un fatto storico consegna ai posteri, e già ai suoi contemporanei. La sentenza, quando arriva, è forse ormai priva di senso e di spessore: è quanto capita, spesso, alle sentenze, appunto. E in questo voltare pagina, forse, già sentiamo che è la Repubblica, la Repubblica nata dall’antifascismo ed eretta sul mito di Via Rasella, che sta mutando e diventando altra.
N.B. – C’è stato un momento, nelle vicende di questi ultimi anni, nel quale i temi e i problemi che qui abbiamo cercato di sollevare sono tornati di attualità e anzi, con il loro scatenarsi conflittuale, hanno mostrato quanto siano labili gli equilibri sui quali poggia la nostra società. Questo momento è costituito dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro. Se è vero che le Brigate Rosse hanno cercato, attraverso la morte dello statista, di destabilizzare (morte contro morte) l’edificio statuale, come non vedere, nella filigrana dei gesti e delle mosse compiute in quei cinquantacinque giorni dalle forze politiche strettesi nel partito detto della “fermezza” – o magari soprattutto nei loro silenzi, nelle loro inerzie ed omissioni – il calcolo di sollevare la nuova vittima sacrificale a insperato fondamento e simbolo di una ritrovata “unità nazionale”, di un patto di consenso capace di ridare forza ad una gestione del “politico” screditata e da tutti data per agonizzante? In uno scambio insospettabile, da diverse sponde, furono molti coloro che intesero offrire la morte di Moro, come una “tragica necessità”, alla Storia o al calcolo eretto sulla Storia.
E, d’altra parte, come non scorgere, nei suoi tentativi sempre più lucidamente incalzanti per salvarsi, nel dialogo da lui disperatamente chiesto alle forze politiche e ai suoi rapitori, agli uomini “forti” della vicenda, proprio la accorata consapevolezza – in Moro – di questo inganno, della morsa che attorno a lui e alla sua vita si stava ineluttabilmente stringendo? E quindi il rifiuto di una sentenza alla quale proprio lui, l’uomo del Potere e del Palazzo, non riconosceva in alcun modo un fondamento di credibilità e di validità? Come pochi Moro – e non solo da cattolico – si rese conto forse in quei momenti della assoluta insostenibilità delle pretese dello Stato “forte”, dello Stato “etico”, ad arrogarsi un diritto di vita e di morte in ragione dei propri fini. Moro respinge la tesi del “fine che giustifica il mezzo”, perché sa che nelle condizioni storiche moderne lo Stato non può più sostenere quel ruolo – essere quel “fine” – che forze pur grandi e progressiste gli assegnarono per farne una tappa necessaria nel cammino di liberazione dell’uomo.
Così il cattolico Moro, che riprende il vecchio e disprezzato grido dell’“inutile strage”, ci riporta su uno spartiacque che si fa ogni giorno più attuale ed urgente. Il ritorno dei nazionalismi, le chiusure degli Stati e delle forze politiche (persino di quelle più legate ad antiche speranze internazionaliste) nei loro nuovi nazionalsocialismi lo squillare trionfante delle trombe della guerra che finalmente torna, tutto ciò chiede ormai qualcosa di più che la denuncia o magari il rifiuto. Tutto questo chiede che si metta in opera una drastica revisione dei valori, una rifondazione di propositi e di obiettivi, una chiamata a raccolta di volontà per respingere e dichiarare non più accettabili le coordinate di una storia che pretende invece di essere senza alternative. Il problema si pone con chiarezza e semplicità: è possibile individuare e mettere in opera una politica che sia fondata sulla vita e non sulla morte, sul diritto e non sulla forza, sui valori e non sullo “scambio”, sulla pace e non sulla guerra? È possibile pensare ed edificare uno Stato diverso?