Proposta Radicale 18 2024
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La tecnologia al servizio della morte

di Giorgio Parisi

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La libertà è terapeutica: i 100 anni dalla nascita di Basaglia

di Maria Antonietta Farina Coscioni

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Fotografo l’orrore, what I do is this

di Ted Baxter

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Il ritorno dei taliban è una catastrofe per le donne

di Lynsey Addario

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Le “foglie al vento” di Aki Kaurismäki

di Gualtiero Donati

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In/giustizia: Landolfi storia di un’odissea giudiziaria

di Michele Minorita

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La tecnologia al servizio della morte

La tecnologia al servizio della morte

di Giorgio Parisi

Sappiamo tutti che la scienza è un’arma a doppio taglio. La scienza aumenta il potere dell’uomo, che può scegliere la direzione in cui usare questo potere. Ogni volta che si compiono grandi progressi è necessaria una profonda riflessione su cosa sia lecito fare e su cosa non si debba fare. L’intelligenza artificiale (IA) non sfugge a queste considerazioni. Nel 2019 le accademie dei paesi del G7, le cui delegazioni erano riunite a Parigi, hanno firmato all’unanimità una dichiarazione su intelligenza artificiale e società (dal titolo: Artificial Intelligence and Society). Personalmente sono affezionato a questa dichiarazione in quanto come Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei guidavo la delegazione italiana. Nella premessa il documento dichiara che l’intelligenza artificiale è una delle tecnologie che sta trasformando la nostra società e molti aspetti della nostra vita quotidiana. La IA ha già apportato molti benefici positivi e può essere fonte di una considerevole prosperità economica. Ma l’intelligenza artificiale solleva anche questioni relative all’occupazione, alla riservatezza dei dati, alla privacy, alla violazione dei valori etici e alla fiducia nei risultati ottenuti.

Tra i vari punti sollevati c’è una dichiarazione estremamente importante che riguarda proprio le armi autonome. Cito testualmente: “L’intelligenza artificiale apre nuove possibilità per le applicazioni militari, in particolare per quanto riguarda i sistemi d’arma con significativa autonomia nelle funzioni critiche di selezione e attacco dei bersagli. Tali armi autonome potrebbero portare a una nuova corsa agli armamenti, abbassare la soglia della guerra o diventare uno strumento per oppressori o terroristi. Alcune organizzazioni chiedono un divieto sulle armi autonome, simile alle convenzioni in materia di armi chimiche o biologiche. Tale proibizione richiederebbe una definizione precisa di armi e di autonomia. In assenza di un divieto di sistemi di armi autonome letali (Lethal Autonomous Weapons Systems, LAWS), dovrebbe essere garantita la conformità di qualsiasi sistema d’arma al Diritto Internazionale Umanitario. Queste armi dovrebbero essere integrate nelle strutture di comando e controllo esistenti in modo tale che la responsabilità e la responsabilità legale rimangano associate a specifici attori umani. C’è una chiara necessità di trasparenza e di discussione pubblica delle questioni sollevate in questo settore”.

Si tratta di un problema estremamente delicato che deve essere affrontato con grande energia per essere risolto. Non è facile. La guerra si basa sul di-segno, sulla fabbricazione e sullo schieramento, virtuale o attuale, di arma-menti sempre più sofisticati. In questa prospettiva un autentico salto di qualità che potrebbe cambiare i connotati dei conflitti, sarebbe rappresentato dalle armi autonome, cioè da sistemi dotati di una IA in grado di “ragionare” e agire in assenza dell’uomo che li ha “istruiti”.

L’interesse dei militari ad espandere l’uso di armi autonome ha delle motivazioni chiarissime e giustificate dal loro punto di vista. Tuttavia, non possiamo permettere che un algoritmo debba risolvere problemi etici delicatissimi come per esempio:

• Uccidere o non uccidere persone che sembrano combattenti nemici, ma forse non lo sono?

• Quanti civili morti sono un danno collaterale accettabile (espressione usata specialmente quando i morti non sono nostri o dei nostri alleati)?

• Come evitare in particolare danni gravissimi a bambini?

I trattati internazionali sono fondamentali per evitare catastrofi future. È una storia di insuccessi, di successi e di successi parziali. L’insuccesso più clamoroso è stato il trattato dell’Aia del 1899 in cui si vietavano i gas asfissianti (non ratificato dagli Stati Uniti), tra i tanti successi ricordiamo il Com-prehensive Test Ban, ovvero il divieto assoluto di fare test di bombe nucleari, mentre tra i successi parziali metterei il trattato di non proliferazione (1968).

Può sembrare strano affermare che questo trattato abbia avuto un successo parziale: infatti è uno dei principali strumenti per evitare guerre nucleari ed è stato determinante per arrestare la proliferazione delle armi nucleari. L’importanza di questo trattato è stata immensa, ma non è stato pienamente applicato. In particolare, l’articolo VI afferma che ciascuna delle Parti del Trattato si impegna a perseguire in buona fede negoziati su misure efficaci relative alla cessazione della corsa agli armamenti nucleari in tempi brevi e al disarmo nucleare, nonché su un trattato sul disarmo nucleare generale e completo sotto un controllo internazionale rigoroso ed efficace.

Purtroppo, un trattato sul disarmo generale e completo è ancora molto lontano, e non si sono praticamente visti negoziati sull’eliminazione completa delle armi nucleari. È ancora più preoccupante l’attuale impossibilità di arrivare a un trattato in cui gli stati nucleari si impegnino a non usare per primi le bombe nucleari, in quanto stati chiave, come gli Stati Uniti, la Russia, il Regno Unito, la Francia e il Pakistan, hanno ripetutamente dichiarato che si riservano l’uso di armi atomiche anche in caso di un attacco puramente convenzionale. Queste difficoltà sui trattati concernenti le armi nucleari non ci devono far pensare che sia impossibile un trattato internazionale che vieti armi autonome letali. Un simile trattato è possibile ma è assolutamente necessario fare una riflessione chiara su tutti gli aspetti connessi. Un passo estremamente importante in questa direzione è fornito da questo volume che affronta nei suoi vari capitoli problematiche molto differenti.

Bisogna anche mobilitare l’opinione pubblica che sta assistendo rassegnata, come ad un fatto ineluttabile, alla progressiva introduzione di queste armi letali. Gli scienziati (sia delle scienze naturali e sociali, come coloro che hanno contribuito a questo libro) hanno una grande responsabilità nel comunicare questi aspetti delicati in maniera comprensibile ad una opinione ignara. Ma un compito estremamente importante spetta ai mezzi di informazione in maniera che venga esercitata una pressione sui decisori politici, che devono farei passi concreti per proteggere l’umanità dai danni più crudeli delle guerre.

Il volume affronta la questione delle armi semi-autonome (droni) e autonome (i cosiddetti robot-killer). Numerosi miti ed episodi storici alludono alla possibilità di affidare in tutto o in parte le attività di combattimento alle macchine: anticipazioni simboliche dell’Intelligenza Artificiale che, applicata alla guerra, sta ispirando la ricerca, lo sviluppo e la futura operatività delle armi letali autonome (LAWS). Protagoniste del processo sono le principali potenze mondiali: Stati Uniti, Cina, Russia e alcuni Stati europei. A questo gruppo di testa potrebbero unirsi vari Paesi in via di industrializzazione, efficienti fornitori di droni, come la Turchia e l’Iran, nel conflitto russo-ucraino. Anche attori non statali, come alcune formazioni terroristiche e criminali, hanno già iniziato a utilizzare velivoli senza pilota.

In alternativa all’incombente proliferazione di macchine che sfuggono al controllo umano, due sono le possibili soluzioni. La prima è rappresentata dalla società civile, nella duplice articolazione delle prese di posizione della comunità scientifica internazionale e della mobilitazione dell’opinione pubblica; la seconda dagli accordi internazionali per il controllo delle armi semi autonome e per la prevenzione e il divieto delle armi letali autonome.

(prefazione al libro curato da Francesca Farruggia Dai Droni alle armi autonome. Lasciare l’Apocalisse alle armi automatiche? (Franco Angeli editore). Farruggia è ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dell’Università La Sapienza di Roma e segretaria generale di Archivio Disarmo. Nel volume scritti di Fabrizio Battistelli, Sofia Bertieri, Francesca Farruggia, Barbara Gallo, Adriano Iaria, Diego Latella, Michael Malinconi, Giorgio Parisi, Juan Carlos Rossi, Maurizio Simoncelli, Gian Piero Siroli, Guglielmo Tamburrini).

La libertà è terapeutica: i 100 anni dalla nascita di Basaglia

La libertà è terapeutica: i 100 anni dalla nascita di Basaglia

di Maria Antonietta Farina Coscioni

Il lungo “dossier” televisivo realizzato da Sergio Zavoli per la RAI: “I giardini di Abele” sarà per tanti una riscoperta. Nel 1968 Zavoli incontra Franco Basaglia, che a quel tempo lavora nel manicomio di Gorizia. Le telecamere della RAI entrano per la prima volta in quel luogo di dolore e sofferenza. È lo stesso anno in cui Basaglia dà alle stampe un libro destinato a diventare un piccolo classico: L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico: racconta proprio l’esperienza goriziana. Sono gli anni delle assemblee con i lavoratori e i pazienti; della critica agli apparati psichiatrici vigenti; si comincia a eliminare l’inumana pratica della contenzione forzosa; il paziente è considerato per quello che è: una persona sofferente di cui prendersi cura e non da esorcizzare negandolo e relegandolo. A un certo punto, Zavoli chiede: “È più interessato al malato o alla malattia?”. Basaglia senza esitazione, risponde: “Decisamente al malato”. Sembra una domanda neppure da fare; una risposta perfino scontata. Oggi. Ma nel 1968 solo quel chiedere e quella breve e fulminea risposta, sono una piccola, grande rivoluzione. Si mette in discussione una consolidata prassi: una mentalità che nessuno osava contestare.

Basaglia è lo psichiatra che avvia la prima esperienza anti-istituzionale della cura dei malati di mente: supera la vecchia, crudele, normativa del 1904: che consente di internare persone per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano “pericolose e di pubblico scandalo”. Una punizione, più che una cura, una colpa e una vergogna, più che una malattia.

Brutalmente definiti matti: diversi e per questo perversi, per loro l’unica cura è la camicia di forza, l’elettroshock, psicofarmaci a gogò. Grazie a Basaglia si avvia un nuovo approccio con il malato di mente. Un precursore; di fatto, “fonda” una scuola; molti dei suoi “allievi” proseguono, sostenuti da amministrazioni locali avvedute e “illuminate”, il percorso che ha iniziato. Coraggiose, isolate esperienze: anticipano la rivoluzione culturale che il 13 maggio 1978 sfocia nella legge 180: abolisce la istituzione manicomiale e restituisce dignità ai malati psichiatrici. Legge rivoluzionaria che il Parlamento approva in fretta e furia, una corsa contro il tempo per evitare il referendum indetto dal Partito Radicale. Gli stessi radicali denunciano come la fretta sia una cattiva consigliera: Marco Pannella invano denuncia la mancanza di copertura economica che svilisce così la riforma. Il primo monito per i problemi che si sarebbero sorti in seguito. A disconoscere la legge che ancor oggi porta il suo nome, è lo stesso Basaglia: “attenzione alle facili euforie”, ammonisce. Non si deve credere di aver trovato la panacea a tutti i problemi del malato di mente. È un lavoro lungo, quotidiano, paziente; che richiede disponibilità, dedizione, sacrificio; amore, non si deve aver paura delle parole. La legge 180: una legge rivoluzionaria nello spirito, ma ancora immatura per realizzare una autentica psichiatria di comunità. La sua realizzazione presupponeva strutture idonee, ma il percorso per la costruzione di un dipartimento di salute mentale completo e integrato è stato lungo e travagliato. Non vi è dubbio che per anni e anni la carenza di strutture residenziali e semiresidenziali abbia comportato non soltanto percorsi di trattamento, ma anche un rilevante impegno per nuclei familiari impreparati ad affrontare la nuova realtà e non sempre adeguatamente supportati.

La 180 è comunque una legge epocale: il risultato non solo dell’azione umanizzante e pionieristica di Basaglia, ma del profondo cambiamento culturale e di civiltà che, a partire dalla psichiatria, coinvolse l’intero servizio sanitario e l’intera società italiana.

Le differenze fra la psichiatria di comunità attuale e l’assistenza manicomiale sono incommensurabili; eppure è necessario non dimenticare che i processi di istituzionalizzazione sono sempre operanti e il nostro moderno sistema non ne è esente. De-istituzionalizzare rimane dunque la parola d’ordine, l’imperativo categorico, oggi come allora.

L’altro punto cardine del pensiero basagliano – il ruolo del contesto sociale – è altrettanto importante. Oggi la psichiatria è dominata dal paradigma biologico: i disturbi mentali sono disturbi del cervello. In realtà, tutte le evidenze ci dicono che i disturbi mentali sono indissolubilmente legati anche a gravi problemi nei contesti di convivenza e nelle condizioni sociali. Basti pensare agli effetti dell’urbanizzazione, delle migrazioni, dell’invecchiamento, dell’anomia.

Non vi è dubbio che oggi il contesto sociale è complesso, disorganizzato ed espulsivo. Oggi più di allora la psichiatria ha bisogno, oltre che di risorse adeguate, di nuove conoscenze derivanti dalle scienze sociali per poter assolvere al meglio il proprio compito. Il modo migliore per onorare il lavoro e il patrimonio culturale e ideale che ci ha lasciato Basaglia, a 100 anni dalla sua nascita, è certamente quello di ricordare quello che ha fatto, ma soprattutto non dimenticare mai quelle poche, semplici parole, in risposta alla domanda di Zavoli: interessarsi ancora e sempre, come allora, “decisamente, al malato”.

Fotografo l’orrore, what I do is this

Fotografo l’orrore, what I do is this

di Ted Baxter

È una delle immagini simbolo dell’orrore della guerra in Ucraina: una donna e i suoi figli, morti. Riversa sul selciato, la figlia di otto anni poco lontano, indossa ancora lo zainetto; vicino un ragazzino e il suo trolley. Accanto ai tre il marito gravemente ferito, il volto una maschera di sangue, alcuni militari ucraini lo soccorrono. I quattro tentavano di sottrarsi all’avanzata dei russi, quando sono stati falciati dagli ordigni esplosi dagli invasori. Avevano scelto una strada che corre parallela a un ponte fatto saltare dagli ucraini per rallentare i carri armati russi. Decine di persone percorrono a piccoli gruppi quel tratto di un centinaio di metri. All’improvviso i russi aprono il fuoco con colpi di mortaio: non c’è riparo, per i tre non c’è scampo. Il New York Times pubblica in prima pagina la fotografia. È di Lynsey Addario. “Il giorno prima”, racconta, “tanti giornalisti si trovavano al ponte di Irpin dove era in corso un’evacuazione: scene drammatiche di gente che trasportava anziani, malati, bambini, animali. Volevo andarci perché rappresenta il costo umano della guerra. Il giorno dopo alle 8 eravamo lì, l’auto parcheggiata a duecento metri. Ci siamo nascosti dietro un muro…Sentivamo l’artiglieria. Nel giro di pochi minuti c’è stato un colpo di mortaio vicino all’auto. La milizia ucraina ha risposto e mi sono detta: ok, si stanno lanciando la palla tra di loro. È la guerra. Non toccheranno i civili…Intanto fotografavo con un teleobiettivo le persone. Un altro colpo di mortaio, più vicino. Mi sono acquattata, poi mi sono alzata e continuato a scattare. C’è stata un’esplosione e il caos. Ho sentito male al collo come se fossi stata colpita da una scheggia, ho urlato merda, merda, merda! C’era polvere ovunque non si vedeva nulla. Poi ho sentito chiamare un medico, è stato allora che ho visto i corpi, le valigie e una bambina. Sembravano morti. Volevo scattare ma non volevo mancare di rispetto. Ero sotto shock, non riuscivo a pensare in modo coerente. Ho scattato. Poi ho visto il corpo di una donna, non sapevo fosse la mamma, sembrava molto giovane. Due soldati le stavano prendendo il polso. Mi sono messa davanti pensando che non avrebbero mai usato quella foto. D’altra parte, dovevo documentare un crimine di guerra. Sono arrivati altri colpi di mortaio, siamo scappati nel bosco che poteva essere minato. È andata bene…”.

Lynsey Addario è nata a Norwalk, Connecticut. La prima macchina fotografica, una Nikon FG, per i suoi 12 anni. Diploma alla Staples High School di Westport, università del Wisconsin-Madison, laurea in relazioni internazionali; a Bologna studia economia e scienze politiche, i primi reportages a Praga, Bucarest, in Sicilia. Soggiorna lungamente in Argentina. Uno scatto “rubato” a Madonna sul set di Evita le procura un impiego al Buenos Aires Herald, poi freelance per Associated Press. A New York realizza un reportage sulle prostitute transessuali, pubblica su Time, Newsweek, New York Times. Documenta la condizione delle donne nell’Afghanistan oppresso dai taliban. Nel 2015 pubblica la sua autobiografia: In amore e in guerra – La mia vita di fotografa di frontiera (It’s What I Do: A Photographer’s Life of Love and War). Ha fatto sua la massima di Robert Capa: “Se le tue foto non sono buone è perché non sei abbastanza vicino”. Reporter di aree calde del mondo: le sue immagini raccontano le guerre in Afghanistan, Irak, Darfur, Yemen. Due volte rapita, a Falluja e in Libia; ferita in un grave incidente automobilistico. La risposta al “ne vale la pena?”, è un semplice: “What I do is this”, quello che faccio è questo. Premiata con un Pulitzer nel 2009, l’anno dopo con il MacArthur Fellowship. Tanti orrori visti e documentati, vissuti con razionalità che nulla concede al cinismo. Una sintesi di esperienza e di istinto, mescolate a ironia: “Quando ho iniziato non potevo permettermi quei corsi da cinquemila dollari a settimana che ti insegnano cosa fare quando vieni rapita. Quando ho iniziato a guadagnare ero già stata rapita, mi sono detta: ok, ormai so come sopravvivere. Adesso so da che parte arriva o parte un colpo, se devo buttarmi a terra o contro un muro, se c’è vetro o cemento. Se sono per strada individuo un riparo nel caso un cecchino inizi a sparare, in modo da avere una vita di uscita. Ho sviluppato una consapevolezza situazionale”.

Se le chiedete perché fa quello che fa, la risposta è: “Le storie, la voglia di raccontare, di far conoscere altre realtà, le persone”. Poi aggiunge che il suo lavoro è insieme “amore e tortura”: “Non sono mai soddisfatta: la luce, l’angolo, la prospettiva, l’inquadratura. C’è sempre qualcosa che avrei potuto fare meglio. A volte ci metto anni ad ammettere, sì, quella era una bella foto”.

Come sopravvivere a tanto orrore senza scadere nel cinismo? “Sicuramente mi porto dentro ciò che vedo. Cerco di parlarne il più possibile e di esternizzare. È importante. Credo di doverlo alla mia famiglia. Siamo ottimi comunicatori”. Aggiunge: “Tutto lascia un segno. Sono fortunata. Ho attorno a me persone che adoro e che mi hanno aiutato tantissimo. Due nonne italiane, tre sorelle, due genitori, un marito che fa il giornalista e capisce esattamente i miei dilemmi, un bambino. Ovunque io sia, sento di avere attorno a me questa famiglia straordinaria, non mi sento mai sola”.

Il ritorno dei taliban è una catastrofe per le donne

Il ritorno dei taliban è una catastrofe per le donne

di Lynsey Addario

Una mattina d’estate del 1999 Shukriya Barakzai si è svegliata avvertendo vertigini e febbre. Secondo le regole dei taliban, per uscire di casa e andare dal medico le serviva un maharram, un custode di sesso maschile. Suo marito era al lavoro e non aveva figli maschi. Così ha rasato la testa della figlia di due anni, l’ha vestita con abiti maschili per farla passare per un guardiano e si è infilata un burqa. Le pieghe blu nascondevano le unghie delle mani, laccate di rosso in violazione del divieto di usare lo smalto imposto dai taliban. Ha chiesto alla sua vicina di accompagnarla a piedi dal medico, nel centro di Kabul. Alle 16.30 circa è uscita dall’ambulatorio del medico con una ricetta. Stavano andando in farmacia quando un camion pieno di taliban del ministero per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio ha frenato accanto a loro. Gli uomini erano soliti scorrazzare a Kabul a bordo di pick-up a caccia di afgani da infamare pubblicamente e punire per aver violato il loro codice morale. Gli uomini sono saltati fuori dal camion e hanno cominciato a frustare Barakzai con un cavo di gomma e sono andati avanti anche dopo che era caduta a terra. Quando hanno finito, lei si è alzata piangendo. Era scioccata e umiliata. Non era mai stata picchiata prima di allora. “Hai presente quello che definiamo sadismo?”, mi ha chiesto Barakzai quando abbiamo parlato, non molto tempo fa. “Non sanno nemmeno loro perché lo fanno, ma cercano di picchiarti, farti male, mancarti di rispetto. Gli piace proprio questo. Anche se non sanno perché”. Nel suo racconto è stato quello il momento in cui è cominciata la sua vita da attivista. Prima che la capitale afgana precipitasse nella guerra civile, nel 1992, Barakzai studiava idrometeorologia e geofisica all’università di Kabul. Quando i taliban, una milizia relativamente nuova, hanno riportato la vittoria nel 1996, le donne afgane sono state costrette a lasciare gli studi. Mentre si riprendeva dalle percosse, Barakzai ha preso una decisione: avrebbe organizzato lezioni segrete per le bambine nel grande complesso di condomini in cui, insieme alla sua, vivevano altre 45 famiglie. Barakzai avrebbe in seguito contribuito a stendere la bozza della costituzione dell’Afghanistan e avrebbe completato due mandati da parlamentare. Sono stata per la prima volta in Afghanistan nel 2000, a 26 anni. All’epoca vivevo in India e da fotoreporter mi occupavo di questioni femminili nell’Asia meridionale. La vita delle donne sotto i taliban mi incuriosiva. L’Afghanistan emergeva all’epoca da vent’anni di conflitti brutali, prima con l’occupazione sovietica e poi con una lunga guerra civile. Kabul era piena di buche e con poche infrastrutture funzionanti. A metà degli anni ‘90 i taliban avevano promesso di porre fine alla violenza e molti afgani, esausti dopo anni di insicurezza e distruzione senza fine, non hanno opposto resistenza al gruppo fondamentalista islamico. La pace però ha avuto un costo altissimo in termini di libertà sociali, politiche e religiose. All’epoca della mia prima visita, i taliban avevano messo in atto la loro interpretazione della sharia, o legge islamica. L’istruzione per le donne e le ragazze era proibita in quasi tutti i casi e le donne (con l’eccezione di dottoresse selezionate e approvate) non avevano il permesso di lavorare fuori casa o addirittura di uscire di casa senza un custode. Le donne che uscivano dovevano indossare i burqa, un indumento tradizionale che aderisce alla testa e scende fino alle caviglie, coprendo interamente la donna e rendendola non identificabile in pubblico. Ogni forma di intrattenimento è stata proibita per chiunque: musica, televisione, socializzazione tra sessi al di fuori della famiglia. Gli afgani più istruiti erano già fuggiti nel vicino Pakistan e altrove; quelli che erano rimasti hanno dovuto cambiare le loro vite per adattarsi alle norme del regime oppressivo. In quanto donna americana single, dovevo trovare un modo per spostarmi in Afghanistan con un sostituto di marito e per scattare foto senza essere catturata (sotto i taliban era vietato fotografare qualsiasi essere vivente). Ho preso contatti con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, una delle poche organizzazioni internazionali ancora presenti in Afghanistan, e con il Programma per gli afgani con disabilità, un’agenzia delle Nazioni Unite che si occupava della riabilitazione delle persone ferite dalle molte mine sparse in tutto il paese. Queste organizzazioni mi hanno messo a disposizione uomini che mi avrebbero accompagnato, assieme ad autisti e traduttori, nelle province di Ghazni, Logar, Wardak, Nangarhar, Herat e Kabul, per fotografare e intervistare di nascosto le afgane. Ho imparato molto presto il vantaggio di essere una fotoreporter, nonostante tutte le difficoltà: avevo libero accesso alle donne in spazi in cui agli uomini era culturalmente o legalmente precluso l’ingresso. Dal maggio del 2000 al marzo del 2001, nel corso di tre diverse spedizioni, ho viaggiato con le mie macchine fotografiche e i rullini nascosti in una piccola borsa, visitando abitazioni private, ospedali femminili, scuole segrete per bambine. Ho partecipato a feste di matrimonio miste clandestine in cui la colonna sonora di Titanic rimbalzava tra le pareti di cemento dei seminterrati mentre uomini e donne dal trucco pesante (con lo smalto) ballavano insieme in un turbinio di pura gioia, un semplice piacere punibile con la morte dal regime che controllava le strade lì fuori. Forse la cosa che mi ha impressionata di più della vita sotto i taliban era il silenzio. C’erano poche auto, niente musica, niente televisione, niente telefoni e nessuna conversazione oziosa sui marciapiedi. Le strade polverose erano piene di vedove che avevano perso i mariti nella lunga guerra; non potendo lavorare, potevano sostentarsi solo chiedendo la carità. La gente era terrorizzata, dentro e fuori casa. Chi aveva abbastanza coraggio da avventurarsi fuori parlava sottovoce per timore di provocare una punizione da parte dei taliban per un’infrazione qualsiasi, come una barba non abbastanza lunga (per gli uomini) o un burqa non abbastanza lungo (per le donne), e in alcuni casi senza alcun motivo. Dappertutto – dagli alberi, dai cavi, dai segnali stradali e dai pali – pendevano scintillanti nastri di audiocassette, un ammonimento per chi osava ascoltare musica in privato. Nello stadio Ghazi di Kabul le partite erano state sostituite dalle esecuzioni pubbliche del venerdì, dopo la preghiera. I funzionari taliban usavano le ruspe o i carri armati per abbattere muri addosso a uomini accusati di omosessualità. A chi rubava veniva tagliata una mano, gli adulteri venivano lapidati a morte. In questi viaggi ho visto con i miei occhi la forza e la resilienza delle donne afgane. Mi sono chiesta spesso cosa ne sarebbe stato dell’Afghanistan se i taliban fossero caduti. Immaginavo che gli uomini e le donne che mi avevano dimostrato una tale ospitalità, senso dell’umorismo e forza avrebbero prosperato e che gli afgani fuggiti dal loro paese sarebbero finalmente potuti tornare a casa. Mesi dopo c’è stato l’attacco dell’11 settembre 2001, seguito a breve distanza dall’invasione statunitense dell’Afghanistan. I taliban sono caduti e le donne si sono rapidamente dimostrate preziosissime nel lavoro di ricostruzione e gestione del paese. C’è stata una grande esplosione di ottimismo, determinazione e fiducia nello sviluppo e nel futuro dell’Afghanistan. Tuttavia, anche se i taliban erano spariti ritirandosi tra le pieghe di città e villaggi, molti dei loro valori conservatori, con profonde radici nella società afgana, sono sopravvissuti. Ho fotografato la sconfitta dei taliban a Kandahar alla fine del 2001 e nei successivi vent’anni sono tornata nel paese con la mia macchina fotografica almeno una decina di volte. Da Kabul a Kandahar, da Herat al Badakhshan, ho fotografato donne che frequentavano scuole, che si laureavano nelle università, che si formavano per diventare chirurghe, far nascere bambini, fare le ostetriche, che si candidavano al parlamento ed entravano a far parte del governo, guidavano, venivano addestrate per diventare poliziotte, recitavano in film, lavoravano come giornaliste, traduttrici, presentatrici televisive o in organizzazioni internazionali. Molte se la dovevano vedere con l’impresa impossibile di trovare un equilibrio tra il lavoro fuori casa e la cura dei bambini, di essere una moglie, una madre, una sorella o una figlia in un posto in cui le donne infrangevano quotidianamente soffitti di cristallo, spesso correndo gravi rischi. Una delle persone incontrate durante i miei viaggi è stata Manizha Naderi, co-fondatrice di Women for Afghan women. Per più di dieci anni in Afghanistan la sua organizzazione ha contribuito a creare una rete di rifugi e servizi di mediazione familiare, counseling e supporto legale per donne che avevano problemi in famiglia, erano vittime di maltrattamenti o si trovavano in carcere senza essere rappresentate. Oggi Naderi vive a New York con la sua famiglia. Quando abbiamo parlato, di recente, le ho chiesto se a suo parere in Afghanistan le cose fossero migliorate per le donne negli ultimi vent’anni. Assolutamente sì”, mi ha risposto. “Prima che gli Stati Uniti invadessero l’Afghanistan non c’era nulla, nessuna infrastruttura, nessun sistema legale, nessun sistema educativo, niente. E negli ultimi vent’anni nel paese è stato ricreato tutto, dall’istruzione al sistema legale, dai servizi sociali all’economia… e donne hanno guadagnato tutto. Non solo le donne, ma gli afgani in generale hanno fatto molte conquiste”. Adesso naturalmente sembra che quelle conquiste stiano per sparire. Nell’ultima settimana i taliban hanno conquistato quasi tutte le più grandi città del paese; le loro truppe hanno fatto irruzione a Kabul e il presidente Ashraf Ghani ha lasciato il paese. I miliziani hanno aperto le porte delle prigioni e liberato migliaia di prigionieri, hanno rispedito a casa le donne che si trovavano al lavoro e hanno tolto da scuola le bambine. Nella loro avanzata verso la capitale le forze taliban hanno distrutto strutture sanitarie, ucciso civili e costretto alla fuga migliaia di afgani. Alcuni sostengono che i taliban hanno preteso che le donne dei villaggi conquistati sposassero i loro combattenti non ancora sposati (sebbene il gruppo respinga queste accuse).

Fawzia Koofi, un’altra donna che ho conosciuto in Afghanistan, ha dedicato la vita al suo paese da quando i taliban sono saliti al potere nel 1996. Anche lei a metà degli anni ‘90 ha dato vita a una rete clandestina di scuole per bambine nella sua provincia di origine, il Badakhshan. Koofi è stata parlamentare dal 2005 al 2019 ed è stata una delle rappresentanti della Repubblica dell’Afghanistan ai negoziati di pace con i taliban precedenti al ritiro delle truppe americane dal paese. Quando l’ho conosciuta, nel 2009, andava da una parte all’altra di Kabul, seguita da una piccola folla di consiglieri uomini e da un contingente di sicurezza, e dopo le lunghe giornate di lavoro in parlamento rientrava a casa per affrontare sulla soglia di casa una lunga coda di suoi elettori che chiedevano di dare voce alle loro preoccupazioni su diverse questioni. Stava crescendo da sola due figlie: nel 2003 il marito era morto di tubercolosi, contratta mentre era in carcere per volere dei taliban. Koofi sembrava non fermarsi né stancarsi mai. I taliban avevano cercato di assassinarla due volte. Portava sempre con sé una lettera scritta a mano per le sue figlie, per ogni evenienza.

Quando ho chiamato Koofi qualche settimana fa a Kabul, i taliban stavano già guadagnando terreno in tutto il paese. Koofi non credeva alle promesse del gruppo di voler consentire alle donne di continuare a studiare e lavorare fuori casa. A suo parere c’era un totale scollamento tra quello che i funzionari taliban dicevano durante i negoziati di pace in Qatar e ciò che le riferivano i suoi contatti circa le violazioni dei diritti umani commesse dai soldati sul campo. Le ho chiesto se avesse paura.

“Sinceramente non ho paura di essere assassinata”, mi ha risposto. “Ho paura che il paese possa cadere di nuovo nel caos”. Mentre i taliban conquistavano una città dopo l’altra, Koofi trascorreva gran parte del suo tempo rispondendo a telefonate di uomini e donne terrorizzati dalle implicazioni di una loro presa del potere. Era molto frustrata per il fatto di non poter offrire molto. Poco prima di parlare con me Koofi aveva ricevuto la telefonata di una donna incinta da Faizabad, capitale del Badakhshan – un posto che ho visitato nel 2009 per documentare gli alti tassi di mortalità materna nella provincia. Nel corso dell’ultimo decennio grazie a numerosi progressi quei numeri sono diminuiti. La donna che chiamava Koofi doveva partorire con un cesareo ma i taliban si stavano avvicinando e lei aveva paura di non riuscire ad andare in ospedale per l’intervento. Le erano rimaste solo tre settimane prima della data del parto e non poteva lasciare la sua abitazione. Cosa poteva fare? Senza un parto cesareo rischiava di morire, ma Koofi non sapeva come aiutarla da Kabul. La scorsa settimana Faizabad è caduta in mano ai taliban. Di recente il prezzo dei burqa è raddoppiato e in alcuni casi è aumentato anche di più del doppio. Le donne stanno acquistando la migliore armatura per proteggersi dai taliban: il velo. Nel fine settimana, mentre i taliban circondavano Kabul, ho chiesto a Koofi come stava e se era stata trasferita. Ha lasciato casa sua il 15 agosto e adesso è nascosta in Afghanistan. “Nessuno ci aiuta”, mi ha detto. “Puoi parlare con gli americani?”. Ricevo ogni giorno messaggi come questo da ex traduttrici che mi raccontano le loro paure e mi chiedono come poter uscire dall’Afghanistan.

Le “foglie al vento” di Aki Kaurismäki

Le “foglie al vento” di Aki Kaurismäki

di Gualtiero Donati

E tre! Aki Kaurismäki con il suo Kuolleet lehdet (Foglie al vento), completa il trittico cominciato ne 2011 con Le Havre (Miracolo a Le Havre) e proseguito sei anni dopo con Toivon tuolla puolen (L’altro volto della speranza). La “chiave” interpretativa di questo suo piccolo capolavoro è nella musica: la serenata di Schubert, il tango Arrabal amargo di Carlos Gardel; e ancora la sesta sinfonia di Caikovskij, il Mambo italiano in finlandese; naturalmente l’immortale canzone di Joseph Kosma e Jacques Prévert. Poi certo: i silenzi, gli sguardi sapientemente catturati dalla telecamera; la storia: così densa e al tempo stesso “minima”: episodi e situazioni surreali e insieme normali, una catena di avvenimenti e “incidenti” intrisi di umorismo velato di amarezza tipici di certa letteratura dei paesi del Nord Europa: ironia fredda che non scade nel cinismo.

Storia di storie: Ansa e Holappa si conoscono una prima volta; si danno appuntamento per un film che più strampalato non si potrebbe. “Ci rivedremo?” fa lui finita la proiezione. “A te piacerebbe?” fa lei. “Moltissimo” replica lui. “Ti do il mio numero” sorride lei. Comincia una sorta di tenero hellzapoppin’: si cercano, si perdono, si trovano; situazioni a volte da puro slapstick. Ansa e Holappa devono entrambi fare i conti con i loro fantasmi, i loro guai, tutto sembra congiurare perché i due non debbano trovare pace. Ansa l’hanno licenziata dal supermercato che la sfruttava: ha “rubato” confezioni di cibo scaduto; Holappa, operaio, ha anche lui i suoi problemi: beve troppo. Intorno a loro poi: un martellante mondo impazzito e cattivo, lo scandire ossessivo delle atrocità che i tagliagole di Vladimir Putin consumano in Ucraina… Tutto sembra perso, smarrito per sempre, irrecuperabile. Sembra, appunto. Anche in questo Foglie al vento, come in Miracolo a Le Havre e L’altro volto della speranza, qualcosa a cui aggrapparsi e che impedisce di andare a fondo si trova, Kaurismäki lo trova.

Commuove e diverte, Kaurismäki. Con “leggerezza” racconta i drammi del nostro tempo: gli immigrati clandestini, la solidarietà solida e disinteressata degli “ultimi”, capace di far breccia anche nel cuore di un poliziotto ligio al suo dovere; il dramma dei siriani a cui non si riconosce lo status di rifugiato, incarnato nella storia di Khaled; il mondo disperato dei sottoproletari del nuovo secolo come Ansa e Holappa…

Kaurismäki è uno spiritaccio che dissacra ogni valore costituito per vocazione e missione. Ha cominciato come giornalista, critico per la rivista Filmihullu. Il primo lavoro con la cinepresa è del 1981, un documentario realizzato con il fratello Mike, La sindrome del lago Saimaa. Poi fonda una società di produzione, la Sputnik, con la quale realizza tutti i suoi film. Una ventina di film: La fiammiferaia; Nuvole in viaggio; Juha; L’uomo senza passato; Le luci della sera, per citarne alcuni.

Anni fa il Festival del cinema di Locarno gli ha dedicato una bella retrospettiva. Qualcuno gli ha chiesto il senso dei suoi film, e lui: “Volevo dimostrare che i miracoli non li fa solo De Sica a Milano”. Più che parole, suoni: smozzicati e stentati; per di più a bassa voce. Il viso una maschera impassibile, anche dopo un numero imprecisato di bicchierini di vodka, anche quando ti prende in giro, anche quando prende in giro sé stesso. Un maestro in humor nero, che pratica da sempre. Alto, goffo, imprevedibile, bizzarro, iconoclasta, trasgressivo, con inconfondibili zampate anarco-libertarie, quelle non mancano mai.

Sono un ragazzo di campagna”, racconta. “Poco intelligente, senza idee, sprovvisto di fantasia”. Balle, naturalmente. Autodidatta, dopo che la scuola di cinema lo rifiuta “perché troppo cinico”; in realtà è un lettore coltissimo e onnivoro, cinefilo raffinato. I suoi protagonisti hanno sempre un’origine proletaria perché lui ce l’ha a morte con la borghesia, ma parlano come libri stampati, battute infarcite di citazioni e rimandi. Dopo la prima trilogia sulla classe operaia (Ombre nel Paradiso, Ariel, Fiammiferaia), allarga il suo spettro, ne inventa una seconda (Nuvole in viaggio, L’uomo senza passato, Le luci della sera) quella dei “perdenti; è il cantore dei diseredati, gli outsider, i non integrati: “Adoro i perdenti. Sono un perdente anch’io. Mi piace la gente che di solito è nascosta, che non compare, i “brutti” come dicono i critici. Ma io vado avanti imperterrito, con la mia gente brutta”.

Il ritratto che emerge dalle trilogie kaurismakiane è di una Finlandia senza luce e speranza, cupa: “Una volta ci si stava bene, ma oggi è il Paese più americano che c’è. Tutti i miei sei film sono una drammatizzazione della vita quotidiana in Finlandia. Se si vuole lo si può chiamare realismo nordico, ma non saprei dire quanto suoni bene. Probabilmente la felicità comincia a sud del Polo Nord”.

Per i primi quindici anni lavora vorticosamente, un film dietro l’altro, una furia. Ora però sembra come placato. Scuote la testa: “La rabbia non mi appartiene e non credo nel cinema troppo arrabbiato. L’idea iniziale viene dalla nostalgia per gli anni del dopo guerra, quando le persone si guardavano negli occhi e le porte non erano sbarrate. Ma provo vergogna per come trattiamo gli immigrati, in tutti i paesi europei”. Poi nega di essere diventato più lento sul lavoro, emerge un lato intimo, personale: “La sceneggiatura l’ho scritta in appena tre giorni. Il resto del tempo l’ho passato andando a pescare, a piantare patate e raccogliere funghi… Il mio sogno è coltivare vigne. Vorrei che un giorno fosse la mia sola attività. Ma forse sono troppo vecchio per imparare un nuovo mestiere. L’unica cosa che so fare è il cinema, ma è sempre più difficile. Ho deciso che prenderò un break, nel quale forse scriverò un libro. E quando tornerò, sarà con un capolavoro”. Lo aveva detto nel 2006. Per fortuna Kaurismäki continua a fare buon cinema: come questo Foglie al vento.

In/giustizia: Landolfi storia di un’odissea giudiziaria

In/giustizia: Landolfi storia di un’odissea giudiziaria

di Michele Minorita

Beh: guardiamoci nel bianco degli occhi: è un politico, e già questo è indizio; qualcosa deve aver fatto. Cinque legislature, dal 1994 al 2013: c’è anche la continuità, la pervicacia… È un politico di maggioranza, ricopre importanti cariche istituzionali nel governo Berlusconi: indizi con aggravanti plurime. Meridionale, campano: sospetto legittimo, l’anticamera della verità. Di Mondragone: olé! Terra di camorra, casalesi, altri potenti e spietati boss: questo bisogna cucinarlo ben bene. Non resta che trovare movente e prove. Su, che la caccia cominci…

È il 2007. La Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli accusa il politico in questione di corruzione e truffa aggravate dall’articolo 7, che sta per “agevolazione di associazione mafiosa”. I Casalesi, per capirci. Nel dettaglio: si indaga su un consorzio di smaltimento dei rifiuti; un consigliere comunale di Mondragone si dimette; mancano pochi giorni dalla naturale scadenza. La cosa puzza. Perché lo fa? C’è sicuramente di mezzo lo zampino del politico: le dimissioni servono per garantire una maggioranza amica degli amici e continuare con i traffici legati al consorzio; in premio la moglie dell’ormai ex consigliere la si assume nel consorzio. Un teorema dove tutto combacia. Di cosa vuoi dubitare?

A questo punto basta istruire il processo, si stanga il politico che si è fatto trovare con le dita dentro il barattolo di marmellata e si passa ad altro. Quando lo facciamo questo processo? Calma, non c’è fretta. Intanto diamo la notizia, la pubblica opinione sappia che razza di tipo scalda la poltrona di parlamentare. Passa un anno. Passa un secondo anno. Si arriva a dodici anni. Finalmente si arriva al processo. Subito cade l’aggravante. Non sta proprio in piedi, perfino la procura se ne rende conto, rinuncia all’appello. Resta la finalità mafiosa. Valla a provare…Poi è passato tanto tempo: il reato si è estinto. No, capa tosta, il politico rinuncia alla prescrizione. È pazzo? Oppure, vedi mai, è strasicuro della sua innocenza? Andiamo avanti, dunque. Ecco che tutta una serie di presunti reati “collaterali” cadono; alla fine resta la corruzione semplice. Che poi anch’essa va pur provata. “Hanno parlato di una sorta di effetto domino”, racconta il politico, “che avrebbe travolto il centrodestra se avesse perso Mondragone, cosa che abbiamo ampiamente dimostrato coi numeri non sarebbe successa. Io sono residente a Mondragone, faceva parte del mio collegio elettorale”. Tutto qui? Comunque, sufficiente per rimediare una condanna a due anni, mitigata dalla sospensione condizionale e non menzione nel casellario giudiziario. La prova? Le parole di un “pentito”: Giuseppe Valente, condannato per reati aggravati al fine di agevolare la camorra e i vertici di quel consorzio per la raccolta d’immondizia.

In soldoni: l’originario castello accusatorio praticamente demolito, sfaldato nel tempo. Sedici anni di processi per fatti che sarebbero accaduti una ventina d’anni fa. Un labirinto di carte, documenti, faldoni in cui ci si perde. Un calvario e costi umani irrisarcibili. Una macchina del fango e un tritacarne giudiziario che hanno rovinato il politico, sparito dalla scena nazionale e locale.

Ps.: protagonista di questa kafkiana vicenda è Mario Landolfi, dirigente di Alleanza Nazionale, parlamentare, ministro delle comunicazioni nel governo Berlusconi III.

(Qui si è riassunta una vicenda ampiamente trattata nel corso di un dibattito svoltosi l’11 dicembre 2023 presso la sede della Fondazione Marco Pannella con Mario Landolfi, Alessandro Barbano, Giampaolo Catanzariti, Maurizio Gasparri, Simona Musco, Maurizio Turco; evento trasmesso integralmente da Radio Radicale).

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