di Valter Vecellio
È il 2 settembre del 1980. Due giornalisti italiani, Graziella De Palo e Italo Toni, andati in Libano per indagare su un traffico di armi da Beirut, scompaiono senza lasciare traccia. I loro corpi non si sono mai trovati. Provo un po’ di imbarazzo: Graziella l’ho conosciuta, frequentata; era parte di un piccolo gruppo di principianti del giornalismo, ogni giorno si “fabbricava” una piccola agenzia, “Notizie Radicali”, in un paio di sgabuzzini nella sede del Partito Radicale a Roma: con strumenti desueti, in uso un tempo stellarmente lontano: ciclostile, matrici, macchina per scrivere, telefono fisso. Ogni giorno si mettono insieme un pacco di fogli battuti a macchina, li si recapita a mano nelle sedi romane dei giornali: dal lunedì al sabato, 9-14 orario continuato. A parte i comunicati e le dichiarazioni di Marco Pannella e degli altri dirigenti, ci si sforza di inventare qualcosa che di interesse per i giornali e offrire qualcosa di radicale al di là del Partito. Una buona palestra, non solo per me.
Ogni tanto la sfoglio quella raccolta di “Notizie Radicali”: ne sorrido per le ingenuità e anche le castronerie che ci siamo concessi. Naturalmente lo dico con gli occhi del poi; però non è da tutti essere riusciti, con due fogli al ciclostile, a far andare in bestia Eugenio Scalfari, il patriarca di “Repubblica”, che ci dedica un giorno cinque colonne di fuoco per un corsivetto perfino stampato male… Quell’esperienza dura un paio d’anni; come tutte le cose che si fanno da giovani, ci si è sostanzialmente divertiti.
Graziella intanto professionalmente cresce, collabora a giornali e riviste; anche il campo dei suoi interessi si allarga, i suoi articoli richiesti, le sue inchieste apprezzate.
Per un giornale che ora non c’è più, “Paese Sera”, comincia a occuparsi di un mondo infido e pericoloso, dove ruotano una quantità di interessi corposi, indicibili: quello dei servizi segreti, del traffico di armi, con tutto quello che vi è connesso. Assieme a Italo Toni, un altro dell’ex gruppo di “Notizie Radicali” che in passato ha bazzicato il Medio Oriente, si reca in Libano. Un Libano già martoriato, terra senza legge e ordine; dove opera uno che la sa lunga, non credo sapremo mai con esattezza che cosa abbia fatto, come, con chi, per chi. Non ha mai aperto bocca: parlo del colonnello Stefano Giovannone; quel Giovannone che Aldo Moro invoca, in uno dei suoi scritti, durante i 55 giorni del suo sequestro da parte delle Brigate Rosse.
Per assicurare all’Italia di non essere insanguinata da attentati e stragi da parte dei gruppi terroristici ed estremisti palestinesi, come invece accaduto in Francia, Regno Unito, Germania, non c’è dubbio che si sono pagati indicibili prezzi; un ruolo di primo piano lo ha sicuramente giocato Giovannone. Che, ripeto, non ha mai detto quello che sapeva, riferito quello che faceva; in nome di una atroce ragione di stato. Di sicuro Giovannone, che ha la sua stazione operativa proprio a Beirut, per quel che riguarda l’efficienza richiesta a un agente segreto, nulla ha da apprendere dai suoi colleghi della CIA, dello SDECE, dell’MI5 e 6, dal KGB, dal Mossad; anzi, lui probabilmente qualcosa insegna.
Giovannone è morto. Sono convinto che abbia saputo fin da subito che fine hanno fatto Italo Toni e Graziella, usciti il 2 settembre dall’hotel Triumph dove hanno preso alloggio, e mai più tornati indietro. Sono convinto che anche Yasser Arafat sapeva, anche lui fin da subito. Non ho prova alcuna, posso ipotizzare che siano stati eliminati forse per un equivoco. Qualcuno deve aver forse creduto che fossero “altro” da quello che erano. Forse Graziella e Italo hanno solo fatto il loro mestiere: è possibile che abbiano fatto la domanda giusta alla persona sbagliata, o la domanda sbagliata alla persona giusta. Di sicuro c’è che il viaggio in Libano via Damasco lo organizza Nemer Hammad, rappresentante dell’OLP in Italia (anche lui deceduto). Ed è Al Fatah, la principale organizzazione dell’OLP guidata da Arafat, che offre a Graziella e a Italo una stanza all’Hotel Triumph; fornisce tutto il resto dell’aiuto logistico necessario, interprete compreso.
Hanno visto qualcosa che non dovevano vedere, hanno sentito qualcosa che non dovevano sentire? Hanno insospettito qualcuno che non ci pensa due volte a eliminarli? Qui si scivola nel terreno della spy story.
L’ambasciata italiana si allerta solo alla fine di settembre, e su sollecitazione della famiglia di Graziella. Ufficialmente solo a ottobre Giovannone viene incaricato di cercare di fare luce sulla scomparsa dei due giornalisti. Tutto molto anomalo. Come tanto altro, in questa misteriosa e complicata vicenda. I depistaggi non si contano.
Mi chiedo se abbiamo fatto tutto quello che si doveva e si poteva, almeno per sapere la verità. Una verità che sarebbe importante conoscere anche dopo tanto tempo. La risposta è no. Non l’abbiamo fatto.
Faccio il giornalista da cinquant’anni. È capitato di vederne e raccontare tante brutte storie: quasi tutte le stragi e i delitti di mafia, dal generale Dalla Chiesa in poi, Capaci e via D’Amelio compreso; sette di fanatici che in nome di deliranti credenze hanno ucciso donne e bambini, poi si sono uccisi; qualche colpo di stato, il terrorismo di destra e di sinistra. Riesco a mantenere controllo e lucidità, e tuttavia confesso che uno dei servizi più difficili e che più emotivamente mi ha colpito è quando sono andato a casa dei De Palo, per registrare un appello della mamma di Graziella, la signora Renata: lo sa che sua figlia è morta, non si fa più illusioni. Chiede solo di sapere dove, per avere la possibilità di portare un fiore sul luogo dove è sepolta. Parla a fatica, ripetiamo la registrazione più volte.
Una delle letture che più mi ha messo malinconia e insieme un sentimento di dolcezza e nostalgia, è “L’arrivo di Saturno”, il libro di Loredana Lipperini, dove si racconta l’amicizia di due ragazze, Graziella e Loredana appunto, il loro esser giovani e belle, che si affacciano al Partito Radicale, e poi… Poi accade quello che è accaduto.
di Otello Lupacchini
In magistratura dal 1979, ora in pensione, componente della Commissione per l’applicazione delle speciali misure di protezione ai testimoni ed ai collaboratori di giustizia, consulente delle Commissioni Parlamentari d’inchiesta Antimafia e Mitrokin, impegnato da sempre sui fronti caldi della criminalità organizzata, comune, politica e mafiosa, Otello Lupacchini si è occupato, fra l’altro, degli omicidi del PM Mario Amato, del banchiere Roberto Calvi, del generale americano Lemmon Hunt, del professor Massimo D’Antona, della strage di Bologna e della strage brigatista di via Prati di Papa. Di seguito un brano dall’ultimo suo libro “De iniustitiae execratione” (La città del Sole).
Non sono mai stato a Mosca, mi son sempre rifiutato di farlo in passato né intendo assolutamente andarci in futuro, ma ero al Lido di Venezia quando, quattro anni or sono, venne presentato fuori concorso alla Biennale Cinema il film-documentario “Process” del regista bielorusso, cresciuto tuttavia in Ucraina, Sergei Loznitsa: la Sala grande del Palazzo del cinema, per due ore diventò la Sala delle colonne della Casa del Sindacato di Mosca. Il film di montaggio, basato su uno straordinario materiale d’archivio rimasto fino ad allora inedito, ricostruisce la storia di uno dei primi «processi farsa» architettati da Stalin, quando nell’Urss del 1930 un gruppo di economisti e ingegneri venne accusato di avere organizzato un colpo di Stato contro il governo sovietico attraverso un fantomatico «Partito dell’Industria», mai esistito. È la macchina del Terrore che inizia il suo lavoro: alla sbarra c’è l’«intelligencija tecnica» moscovita, l’élite alla quale viene addossata la colpa di aver boicottato la buona riuscita dei piani economici per distruggere il potere sovietico e restaurare il capitalismo con l’aiuto segreto delle potenze occidentali.
Sono loro, quasi muti, remissivi, docili nell’offrire il capo alla sentenza dei giudici, le vittime sacrificali della difficile situazione economia e sociale dell’Unione sovietica. La tragedia era reale, ma il processo falso: Stalin aveva bisogno di dare in pasto al Paese i responsabili della sua sofferenza, quindi allestì una performance perfetta. Gli imputati, sembra che recitino. I «sabotatori», costretti platealmente a confessare crimini mai commessi, vennero condannati, mentre fuori manifestazioni di piazza chiedevano giustizia, ma non finirono fucilati, né imprigionati, solo «riconvertiti» ad altre mansioni. Il popolo, accecato dallo slogan «La menzogna è verità», poté continuare a dormire tranquillo all’ombra del Partito. Quel processo era pubblico, le riprese mostrate a tutti, e gli atti pubblicati: fu un uso scientifico dei media per nascondere i problemi politici. Oggi il meccanismo è lo stesso, perfezionato dalla tecnologia: le tv e Facebook portano tutto su un piano più vasto, complicando ancora di più le cose.
L’Unione sovietica, tuttavia, nel triennio 1936-1939, fu sconvolta da altri e ben più gravi «processi farsa», e ottant’anni dopo, fatto ancor più sconvolgente, qualcuno ha ribadito che le repressioni staliniane erano giustificate dalla «durezza dei tempi» e dall’accerchiamento dell’imperialismo; dunque, che i processi di Mosca furono giusti, salvo il fatto che Nikolaj Ivanovič Ežov, nel 1937, aveva esagerato, in quanto trozkista e spia; per fortuna, Stalin l’aveva rimpiazzato con Lavrentij Pavlovič Berija, poi infamato dopo la morte di Stalin da Nikita Sergeevič Chruščëv. Insomma, prima e dopo Ežov e la sua infelice parentesi, «terribile periodo», il socialismo avrebbe regnato evidentemente indisturbato, a parte naturalmente i «complotti dei trockijsti». Non una sola parola di verità in questa incredibile dissertazione, ma un tentativo temerario: attribuire ai trockijsti persino i crimini di cui furono vittime, con una cinica offesa non solo alla storia, ma addirittura alla logica.
Basta porsi alcune domande elementari per vedere crollare il castello di queste menzogne: se Ežov era trotskista e spia, per quale ragione avrebbe sterminato prima di tutto i trotskisti, in Urss e nel mondo, incluso Sedov, figlio di Trotskij? Stalin aveva nominato… un trotskista a capo della polizia politica? Un esule perseguitato e senza potere poteva addirittura reclutare il capo della Polizia politica di Stalin? Il capo della polizia politica, nel 1937 si badi, era in grado di pianificare 750.000 esecuzioni all’insaputa di Stalin o addirittura contro la sua volontà? In ogni caso, è sufficiente ricordare il senso delle accuse nei processi moscoviti per coglierne la totale assurdità e l’infamia. Il fatto che nei processi l’accusa fosse sostenuta da Andrej Januar’evič Vyšinskij, menscevico e controrivoluzionario dichiarato nel 1917, rende il tutto ancora più grottesco. Non solo. Se quelle accuse avessero un fondamento, si dovrebbe trarne l’unica possibile conclusione logica: la Rivoluzione d’ottobre fu voluta e diretta da potenze straniere attraverso i loro agenti prezzolati. La stessa accusa, insomma, rivolta contro Lenin e i bolscevichi, «agenti dei tedeschi», sin dalle giornate del luglio 1917, e ancor più dopo l’Ottobre. Ed è una solenne idiozia giustificare la repressione con la «durezza dei tempi» e «l’accerchiamento delle forze imperialiste»: la condanna a morte di centinaia di migliaia di comunisti innocenti è, in sé, un crimine orrendo contro la rivoluzione, e non a sua difesa. Oltre tutto, tra il 1918 e il 1921 l’Urss di Lenin e di Trotskij non visse forse tempi ancora più duri, aggredita da ben quattordici armate straniere, dopo gli anni della Grande guerra e in un dissesto economico pauroso? Eppure, erano gli anni in cui il bolscevismo dibatteva liberamente, teneva liberi congressi ogni anno, con piattaforma di maggioranza e minoranze, e così facevano l’Internazionale Comunista e i suoi partiti. Infine, mentre Stalin e i suoi boia sterminavano la vecchia guardia bolscevica accusandola di essere agente dell’imperialismo, i governi e la stampa imperialista applaudivano i processi di Mosca e coprivano le calunnie di Stalin: storici, giuristi, diplomatici occidentali assicuravano all’opinione pubblica europea che i processi si erano tenuti nel rispetto della legalità; se l’ambasciatore americano Joseph Davies informava il proprio governo che «le prove a sostegno del verdetto di colpevolezza vanno oltre ogni ragionevole dubbio», il grosso della socialdemocrazia internazionale seguiva a ruota; il democratico imperialismo inglese negava l’editore a “La Fattoria degli animali” di George Orwell, per salvaguardare i buoni rapporti con Stalin; il grande scrittore George Bernard Shaw sentiva il bisogno di rassicurare il mondo sul «buon carattere» di Stalin; larga parte della stampa borghese francese riconosceva ai processi di Mosca la patente di processi antifascisti; e questo mentre a Trotskij s’impediva di fare causa ai quotidiani europei che pubblicarono le calunnie enunciate da Vyšinskij nei processi. Insomma, tutte le potenze capitaliste, per ragioni diverse, trovarono un proprio interesse nello sterminio dei comunisti per mano di Stalin. Meritevole, finalmente, di uno sguardo il punto di vista di Michail Afanas’evič Bulgakov sulla Mosca del 1937, sede di processi politici manovrati, dietro le quinte, dall’Nkvd, precursore del Kgb, nei quali con metodo top-down si decidono le vittime da fucilare; e, al tempo stesso, città in cui si vive in uno stato di esaltazione, tra architetture oniriche, piazze e viali metafisici, futurismo monumentale; istantanea di un punto nello spazio e nel tempo dove l’idea di essere a un passo dal più radioso dei paradisi terrestri ha coinciso per milioni di persone con la paura di essere svegliati all’alba dalla polizia ed eliminati entro poche ore senza nemmeno sapere il perché.
Per capire a fondo cosa fosse la Mosca in quell’annus horribilis, basterà leggere in controluce alcune pagine de “Il Maestro e Margherita” (Einaudi, 1967; Mondadori, 1991), scritte proprio nel 1937. Vi trovano posto, innanzitutto, pressoché tutti i luoghi che fungono da palcoscenico per il dramma di Mosca in quel periodo: la città gloriosa e l’orrore delle abitazioni collettive; i luoghi pubblici e il loro vociare isterico; l’ambientazione dei processi farsa; il luogo delle esecuzioni; ma anche i rifugi in cui le persone cercavano un po’ di felicità, il caos estremo, il dissolversi di qualsiasi distinzione netta, le onde d’urto create dall’irruzione di forze ignote e innominate nella vita della gente comune, la paura e la disperazione; la morte distribuita con disinvoltura, morbosità e piacere. Quanto a coloro che rimangono vivi, non soltanto non lasciano sperare in alcun ravvedimento, ma non ce n’è uno, non uno in tutta quanta la Mosca bulgakoviana, con il quale ci si fermerebbe a scambiare due chiacchiere: tutta gente spregevole, meschina, feroce. Poffarbacco, ma non v’è in questo un’impressionante similitudine tra il regime sanguinario stalinista e il nostro traballante, ma per fortuna ancora ampio stato di diritto? Improvvisa un’illuminazione rischiara la mia mente, mentre vi rimbombano le garbatissime esortazioni che il procuratore Andrej Januar’evič Vyšinskij rivolse ai giudici del «processo dei sedici»: «Uccidete questi cani rabbiosi. Morte a questa banda che nasconde al popolo i suoi denti feroci, i suoi artigli d’aquila! Abbasso questi animali immondi! Mettiamo fine per sempre a questi ibridi miserabili di volpi e porci, a questi cadaveri puzzolenti!». Esse, al netto del fatto che costui era troppo colto, troppo abile, troppo esperto per lasciarsi andare a cadute di stile, fanno il paio con le invettive del normofobo derattizzatore calabrese e, più in generale con i toni della campagna moralizzatrice in atto nel nostro Paese, dove la ricerca della parola più odiosa, dell’oltraggio, dell’umiliazione del sospetto è ispirata dall’idea che solo trovando una filiera di colpevoli infami, non ha importanza colpevoli di cosa, si possa garantire la propria onestà e la stabilità di un potere molto fragile.
Agghiacciante, peraltro, l’imperioso richiamo all’oggi del radunarsi di migliaia di persone nelle fabbriche per affluire nelle piazze e chiedere la morte degli imputati: il vero successo del processo farsa quale «rituale di liquidazione».
Come, mutatis mutandis, non vedere nella folla di centinaia di migliaia di persone trasformatasi in una «massa aizzata e furiosa», che marcia sulla Piazza Rossa in un «plebiscito di morte», l’orda canagliesca degli odierni demodementi che reclamano a gran voce sul web il linciaggio, per mano dei tribunali e del Sinedrio disciplinare dell’organo di autogoverno della magistratura, di quel «mucchietto di traditori e avventurieri, cagnolini e bassotti che mordono furiosi le zampe di un elefante», per tale intendendosi non la Magistratura nel suo complesso, ma il corpaccione marcescente dell’aristocrazia togata.
di Enrico Sbriglia
È un testo che mi ha sempre inquietato, forse perché osserva, con un umanesimo spietato, le nostre società e i nostri modelli di Stato, che presumeremmo avanzati in tema di democrazia, quantomeno dichiarata, ancorché malamente praticata. Il titolo del libro, di Josè Saramago, è “Saggio sulla lucidità”. Descrive uno scenario di delusione verso la politica, le istituzioni e i suoi rappresentanti, esprimendo una insofferenza verso i governanti che assomiglia terribilmente ai momenti drammatici che stiamo vivendo, seppure pare che quest’ultimi siano percepiti in modo banale, distante, dalla generalità. Al massimo, avvertiti e tradotti visibilmente negli aumenti progressivi del costo del gas, nel rialzo dell’inflazione; nell’invito, al momento ancora silenziato, ad adottare stili di vita più sobri in tema di consumi, soprattutto di quelli riferiti all’energia e alla mobilità, nonché nei trasporti.
Il libro racconta di ciò che accade in una indefinita città del Portogallo, in occasione di una tornata elettorale nel corso della quale si registra un’astensione massiccia, maggioritaria, del corpo elettorale e di come tale accadimento venga interpretato dalle forze politiche di Governo e di opposizione come fatto eversivo. Una testimonianza palese di un ordito di trame finalizzate a sovvertire il sacro ordine costituito. Una congiura, forse, ispirata da potenze straniere e nemiche che intendono in tal modo sovvertire il sistema. Da lì una reazione governativa progressiva e violenta verso i cittadini, che risulteranno tutti sospettati di far parte della trama, mentre per converso i politici che l’autore, premio Nobel per la letteratura nel 1998, indica come appartenenti al partito di mezzo, oppure di destra o di sinistra, non si discostano assolutamente da una lettura condivisa e univoca che vede negli elettori non più la fonte d’ispirazione delle proprie azioni e programmi politici, ma il nemico: il nemico d’abbattere. Nel racconto, che si sviluppa come un giallo, c’è il richiamo a una epidemia che ha colpito il Paese qualche tempo prima, determinando la cecità di quanti si siano infettati: quanta similitudine con il dramma del Covid che abbiamo vissuto in questi due ultimi anni e che ancora stiamo combattendo. O meglio, subendo!
Nel frattempo, però, per noi cittadini italiani, sempre più involuti nel ruolo di sudditi che intendono imporci, l’ennesima incomprensibile scadenza elettorale, quasi come se non fossimo in uno stato di guerra, ancorché non palesemente dichiarata, mentre i parolai di una politica senza più pensiero critico, dopo avere umiliato e mutilato il Parlamento con una legge suicida, ingaggiano tra loro la sfida delle promesse vuote e impossibili, sventolando il cencio di un Eldorado, ognuno con la propria visione di un avvenire radioso e progressivo, dimentichi tutti delle regole basilari dell’economia politica, del fatto che andrebbero sempre indicati i cespiti certificati delle risorse che si potrebbero impiegare. E poi quali redditi verrebbero effettivamente penalizzati, quali politiche economiche – in un’ottica di armonizzazione con quelle dell’Unione europea e confortata da essa – si dovrebbero intraprendere, quali ulteriori e necessari sacrifici dovremmo intraprendere.
No, meglio esibire le paillette e mostrine, meglio ostentare a ogni piè sospinto i crocifissi al collo di Cristi con il capo inclinato. Così, almeno loro, non vedranno e sentiranno le cose che si propinano agli elettori. Meglio lanciare promesse sulla flat-tax, con la solita tiritera degli aiuti alle famiglie, aggiungendo semmai la proposta di ripristinare il servizio di leva obbligatorio per i nostri giovani, mostrando un tempismo e una capacità di leggere i tempi terribili che stiamo vivendo che, ancora una volta, sanno raccontare della lontananza della politica dalla sensibilità e dai timori diffusi tra la gente, nelle famiglie, qualunque esse siano, monocellulari, ordinarie, allargate, multicolori.
Chi, infatti, affiderebbe a questa amorfa classe politica le proprie figlie e i propri figli, o la nipoteria, soprattutto nei momenti difficili che il Paese sta vivendo. Chi si fiderebbe di loro, della loro autorevolezza e del loro senso dello Stato, della loro ragionevolezza e capacità di ponderazione? I sacrari militari, che costellano il nostro Paese, dove riposano inquieti migliaia di ragazzini dai più diversi dialetti e dalle uniformi bucherellate, che non ebbero la fortuna di tornare a provare la carezza di una madre, che non conobbero l’amore di una donna, il piacere di accarezzare un figlio, d’impegnarsi nel lavoro e nella società, ormai sembra che non contino più niente, mentre cresce in tanti la consapevolezza che una sparuta minoranza di cittadini, quelli che il 25 settembre hanno espresso una scelta partitica, consentiranno a delle forze politiche, qualunque esse saranno, di governare con numeri insignificanti, con percentuali che un tempo sarebbero state intestate alla minoranza, un’Italia piegata.
Sì, è proprio il trionfo di una politica sinistra, che nulla ha di liberale e convintamente democratico e partecipativo. E nessun Saramago italiano sembra più in grado di descriverla. Che almeno la smettessero di dire bugie!