Via Rasella, il terrorismo, la sinistra, il fascismo
di Marco Pannella
Compagni e compagne,
chi aveva detto, chi continua a dire che nell’Università di Roma e nelle altre università italiane impera la violenza e si impedisce che la democrazia abbia libero corso? Chi sostiene che gli autonomi o i violenti vogliono in ogni caso impedire che si celebrino nelle nostre scuole dibattiti democratici?
Noi siamo oggi giunti alla fine di un congresso durato cinque giorni e svoltosi all’interno dell’Università di Roma, a due passi da Via dei Volsci e dalla Casa dello studente, non abbiamo avuto nessun servizio d’ordine e abbiamo sempre detto con chiarezza quale sia la nostra opposizione irrinunciabile alla violenza, emblemizzata in modo drammatico a Torino, con Adelaide fra i giurati (noi che siamo abituati ad essere imputati e carcerati) e Curcio e compagni chiusi nelle gabbie degli imputati.
Io non ho risposta a tutto questo.
Ieri ho ascoltato, al congresso comunista, il compagno Imbeni (il cui linguaggio risente del suo passaggio attraverso il ‘68) denunciare che persino nella democratica e civile Bologna (luogo centrale della democrazia, dei partiti della classe operaia, della loro organizzazione) dilagava l’intolleranza. E abbiamo sentito il sindaco Novelli difendere il famoso questionario, cercando di spiegare che la delazione di massa è cosa giusta e doverosa, senza capire che – come noi crediamo – quando ci si affida non alla ricerca dell’indizio e della prova, quando si va al di fuori (e voi lo fate, compagno Novelli, voi che credete di poter parlare contro di noi in nome dello Stato) delle garanzie di diritto (magari quelle dei codici Rocco), quando si ricerca il sospetto come elemento di eccitamento e della verità, le giuste denunce finiscono per annegare nell’oceano delle delazioni di massa. E così (come per il caso Moro) coloro che, da De Lorenzo in poi, dal tempo del centro-sinistra, annidati nel cuore di Roma e delle istituzioni repubblicane, ospitano i tenutari della strategia della violenza e del terrorismo, possono, in un clima di delazione di massa, meglio operare per fare quello che il generale Mengarelli e il procuratore della Repubblica Pascoli hanno fatto sui cadaveri ancora caldi dei tre carabinieri di Peteano, cioè per confondere le acque ed evitare la ricerca degli assassini.
Certi compagni del Partito comunista, abituati a governare se stessi attraverso il centralismo burocratico e democratico, nel momento in cui si sono dovuti porre il problema dell’amministrazione pluralistica (cosi la chiamano loro, mentre noi preferiamo chiamarla costituzionale e democratica) dello Stato, si sono rivelati incapaci di concepirne la differenza con il centralismo democratico e burocratico, con cui hanno governato il loro dissenso e i loro errori per trent’anni, e hanno tentato di imporre in Parlamento e in tutti i momenti della vita dello Stato la cultura del centralismo democratico e burocratico come mezzo di ricerca della giustizia e della libertà.
Questo però non è possibile, se è vero (compagni del Manifesto) che tutta la storia del Partito comunista dimostra che, anche quando sono state apprese esteriormente le buone maniere, chiunque dissenta viene espulso. Ma noi non possiamo permetterci il lusso di espellere il dissenso: è una tremenda illusione quella di sperare di poter così espellere la disperazione e i suoi prodotti dalla società che li ha prodotti e dallo Stato che li ha nutriti.
Abbiamo un elemento di riflessione da dare ai compagni Imbeni e Pecchioli e a tutti coloro che spacciano l’Università come luogo in cui non è possibile parlare altro che il linguaggio che vorrebbero imporre con la violenza gli autonomi; e che sostengono che l’unico modo di esprimersi degli autonomi è sempre quello di cercare di impedire a chiunque altro di manifestare le proprie opinioni.
Autogestire se stessi per autogestire la società
Noi possiamo dire queste cose perché crediamo nella linea della vera autogestione. Ma, cari compagni, se non si autogestisce se stessi non si può autogestire lo Stato; se si ha bisogno di un servizio di ordine imposto, non si può creare un ordine democratico fondato sul consenso e sulla partecipazione. Se non si sa faticosamente ricercare il modo di gestire i nostri stati d’animo, i nostri modi di essere diversi, nella vita politica di ogni giorno e nelle strutture di un partito, non si può arrivare mai a dar corpo alle tecnologie dell’autogestione, quelle che comprendono in loro stesse la necessità di governare anche il momento della produzione attraverso l’autogestione, il rovesciamento dei rapporti produttivi attuali.
Sono intenerito del pensiero che Huguette e i compagni del PSU hanno avuto regalandomi questo orologio di “chez” Lip. Poiché a lungo si è loro impedito di sapere chi veramente fossimo; i compagni del Psu non sanno, ad esempio, che sono stato per molto tempo a Parigi, quando ero giornalista e corrispondente de Il Giorno. Poiché a me le cose più belle accade di farle soprattutto di notte, come spero accada anche a voi, ricordo che andavo la notte in giro a scrivere sui muri, le scritte GAR, quelle dei compagni del PSU antiterrorismo, anti OAS, nel corso della guerra algerina, quando decine e decine di arabi venivano torturati e buttati nella Senna. Passavo quelle notti sorridendo e pensando al giornale Il Giorno, meravigliando i compagni del PSU che, essendo molto giovani, si stupivano che un “vecchio” di 29 anni andasse con loro a rischiare le “ratonnades” dei poliziotti della V Repubblica, allora molto spesso complici dell’OAS. Da quelle notti, la vita con i compagni del PSU è stata per me una regola ed ho seguito con piacere della loro grande lotta alla Lip. Sapevo che avevano dei grossi problemi e che la loro era una ricerca da cui non poteva certo nascere un modello di autogestione buono per tutto il mondo.
Ma non può esserci autogestione senza ricerca applicata, senza dare corpo a tutti i problemi, a tutti i conflitti. Ricordo le tremende notti in cui i compagni di Lip litigavano disperatamente fra di loro accusandosi a vicenda di essere uno indebolito, l’altro magari traditore. Poi non avevo più avuto notizie sul Lip e sono grato ad Huguette anche per avermi ricordato che l’autogestione di Lip va ancora avanti, come può andare avanti qualcosa che è ormai salda, quasi normale: ed è un qualcosa che, sia pure per un miliardesimo, informa oggi la realtà francese e concorre ad una diversa configurazione di quell’assetto produttivo. Non voglio affliggervi di nuovo a lungo e passo subito ad alcune notazioni.
Vi informo subito che questa mattina abbiamo speso diversi milioni del nostro finanziamento pubblico per far pubblicare su Il Messaggero e su Il Tempo l’annuncio che oggi la Radio radicale trasmetterà per due volte integralmente i discorsi del compagno Enrico Berlinguer, di Amendola, di Lama e quelli che loro hanno chiamato i miei discorsi fascisti. Così, tutti i romani (comunisti democristiani, indipendenti) potranno conoscere esattamente come stanno le cose e tutti i giornalisti, nel momento in cui sta scoppiando un’aspra guerra su questi temi, potranno conoscere e giudicare direttamente dove sia stato il fascismo, in questi giorni di congresso radicale e di congresso comunista.
Intendo poi ringraziare (anche se so che di questo pubblico ringraziamento me ne vorrà, come al solito, nella sua qualità di compagno davvero di sempre) Bruno Zevi, che ha dato corpo e vita a Teleroma 56, che farà le stesse cose per quanto riguarda le riprese televisive.
Noi siamo ora associati al lavoro e alla responsabilità di Zevi e dobbiamo offrire a tutti la possibilità di comprendere anche le difficoltà di Enrico Berlinguer e dei compagni del Partito comunista, di capire il meglio possibile, per cercare di circoscrivere i motivi di dissenso e quelli di consenso, perché il dialogo è sempre drammatico quando è serio e vero (nella vita pubblica come nella vita privata) ma deve avvenire non sulla base di denunce e anatemi, non dicendo a masse di compagni menzogne di stampo goebbelsiano, che possono venir fuori da qui o da lì ma sempre per impedire di conoscere e di giudicare quello che i partiti (sia quello radicale che quello comunista) hanno il diritto e il dovere di fare o di non fare.
Pannella: metà vampiro, metà Dracula?
Un’altra notazione. Ieri, tutti i colleghi presenti al congresso comunista mi hanno visto – metà vampiro, metà Dracula, metà Amleto – ergermi platealmente tutto solo, mentre l’insulto e la scomunica roventi erano selvaggiamente e freneticamente applauditi, avvolto in un mantello nero, il volto pallido…! Tutti lo hanno scritto. Andate a leggerlo. Evidentemente, io sono a tal punto bravo, demoniaco (o angelico, se volete), che ieri sapevo che sarei arrivato proprio nel momento in cui stava parlando il compagno Lama e che, proprio nel momento in cui mi sedevo, egli avrebbe pronunciato le sue minacce contro i socialisti e le sue scomuniche contro di noi. Mi ero allora portato, per meglio fare scena, il mantello nero! Lo hanno scritto tutti i giornalisti. E apparentemente una quisquilia, ma ha il suo significato. La realtà è che, dal mese di gennaio (quando l’ho acquistato una sera, a Trieste, con una mezza bora, perché avevo l’impressione di crepare di freddo) l’unica cosa che porto sempre è quel loden blu che conoscete, che vedete lì sul tavolo. Penso che sia una conseguenza dei lunghi digiuni, ma il fatto è che da un po’ di tempo è sempre piuttosto freddo ed anche l’altra sera avevo sulle spalle quel pastrano, che non avevo lasciato al guardaroba: è vero, le persone civili le armi le lasciano al guardaroba, ma non pensavo che anche un pastrano sarebbe diventato un’arma con cui colpirmi (applausi).
Io ero consapevole, l’altra sera, di aprire, qui, in tali circostanze, un contenzioso grave e drammatico, ma ero anche consapevole del fatto che quest’anno ci saranno nel mondo 30 milioni di morti di fame, morti di fronte ai quali ormai ci limitiamo a dire “ah!”, per una specie di perversione che ci fa rimanere indifferenti di fronte ad uno sterminio di massa peggiore di quelli nazisti e stalinisti messi insieme. Lo consideriamo come un messaggio della natura, solo perché è una cosa che accade non proprio sotto i nostri occhi, anche se la distanza che ci separa dal cuore di quei 30 milioni di morti è – in termini di trasporto – non superiore a quella che esisteva al tempo dei miei nonni tra Teramo e Roma: ma già allora i fatti delle due città erano considerati comuni.
Toccando la realtà tragica del nostro paese, gli insuccessi di tutte le nostre generazioni (da quella dei sedicenni a quella degli ottantenni), sapevo bene che si sarebbero scossi dei tabù, che molti sarebbero stati costretti ad una introspezione crudele perché autentica.
La storia della violenza va ripercorsa e rivista
Vorrei però ricordare che io ieri, muovendo quelle accuse e quelle critiche così gravi, ho sempre detto “noi che facciamo queste cose”, “queste cose fanno parte della nostra storia”. Ho sempre detto “noi”, non “loro”. Ho detto che “la “compagna”, medaglia d’oro della Resistenza Carla Capponi. Come dovevo dire? Cosa dovevo dire, più che “Carla Capponi”, “compagna”, “Medaglia d’oro”? Non ho detto nemmeno “Trombadori”, ho detto “Antonello, del comitato per il disarmo e la pace, contro la fame”. E ho detto Giorgio Amendola, perché è evidente che chi conosce la storia di Giovanni, di Giorgio, di Pietro Amendola, sa che è anche la “nostra” storia: non è la “loro” storia. Ho scelto questi nomi nella loro diversità, ma ho anche detto che, così come certe estreme necessità sono l’unica cosa che riesco ad immaginare dinanzi a 30 milioni di morti (fermezza, certezza dell’amore, della difesa del diritto naturale e civile effettivo) così penso che, nel momento in cui il terrorismo e la violenza inducono disperazione e sono frutto di una strategia, tutta la storia della violenza vada ripercorsa e rivista. Ma chi può pensare che uno solo di noi, avendo le idee che ha oggi, essendo un militante e non una persona qualunque, non avrebbe potuto essere tra coloro che non solo eseguivano, ma ordinavano l’attentato di via Rasella? Nessuno vuole avere le mani pulite in questo modo, così come non esiste necessariamente l’innocenza nella verginità. Esiste l’innocenza (che è una cosa che si conquista) ed esiste la verginità, che è una cosa diversa e inutile. Le mani pulite le hanno coloro che sanno lavarsele anche se toccano il fango in cui devono vivere, magari il fango del fallimento dei momenti di disperazione, dell’impasto di lacrime e di cattiveria delle inadeguatezze fatali della vita di ogni individuo.
Questo è un congresso di nonviolenti. Un congresso, me lo lascino dire i compagni comunisti, nel quale, forse, non solo per puro masochismo, c’è una “direzione” di partito che ancora nel 1979 è composta per i sette decimi di cittadini in libertà provvisoria, non nel senso in cui tutti lo siamo, ma gente che è andata in galera in questi anni con le proprie idee, non dico per le proprie idee, e che per un altro verso vive questa storia delle lotte non violente e dei digiuni; digiuni che sono sicuramente qualcosa di imponderabile e per i quali forse, anzi sicuramente, c’è una compensazione se sono ben fatti, se davvero sono privi di polemica e fatti solo di volontà creativa e propositiva.
Con i digiuni certo i tessuti delle cellule si bruciano più velocemente e quindi si bruciano anni, ma per un altro verso c’è come una compensazione. L’amore e la felicità di queste lotte è tanta. Certo il digiuno è anche questo, c’è un po’ di autofagia, il corpo si nutre e divora se stesso, le cellule bruciano più velocemente e i capelli diventano più velocemente bianchi, ma il bianco era l’emblema della forza nell’Antico Testamento ed anche nei migliori pittori del Rinascimento. Innocenza, purezza; l’ira dell’innocenza era di Mosè. La terza età non era stata ancora colpita perché non idonea ai processi produttivi della società industriale. Avevano l’idea della forza e della conquista: si “va” verso l’innocenza e la forza; non le si “ha” dietro; le si perde; e c’è bisogno di essere affrancati da un peccato originale, senza di che si è corrotti dal primo momento ed il proprio destino e la corruzione.
Mentre dobbiamo fare i conti con il terrorismo, dobbiamo dirci che il terrorismo fa parte della nostra storia. Della nostra storia fa parte Dostojevski e il nichilismo. Che cos’è un compagno brigatista se non appunto quello che ripete probabilmente anche i tormenti ed i dialoghi notturni – con una diversa organizzazione – che ci sono stati descritti nelle pagine contemporanee di Dostojevki? Parlare della violenza cosa significa se non parlare innanzi tutto della nostra illusione violenta, che ci portiamo dietro minuto per minuto e solo in quel modo, con una sberla in un rapporto d’amore, di coppia o altro? L’illusione che con un momento d’ira si riuscirà a superare ed a ottenere quello che sembra sfuggire, quando si ha paura. Ma quando si ha paura che una cosa sfugga, già l’abbiamo persa, già l’abbiamo ammazzata: la donna, l’uomo, i due uomini, le due donne.
Essere libertari significa continuare indomiti nella ricerca di questa liberazione e non avere la liberazione in banca; e per farne che cosa? Vivere di rendita è impossibile. Non voglio indorare la pillola, voglio precisarla. Le leggi militari; quante volte ho detto: guai a noi, compagni, siamo più una sinistra clausewitziana che marxiana, una sinistra più militare: “avanguardia”, “retroguardia”, “strategia”, “tattica”; tutto un linguaggio mutuato dall’arte militare e mai invece da un linguaggio laico rispetto al militare.
Organizzazione “militare” o “capitalistica”:
quanto esatta la previsione di Marx-Engels!
Marx e Engels avevano un previsto che nel momento in cui il capitalismo diventa imperialismo, nel momento in cui la società industriale sarebbe stata al suo punto massimo e le candidature socialiste le candidature per l’oggi, coloro che credono e vorranno difendere contro il socialismo i meccanismi del profitto, del plus-valore e dell’organizzazione capitalistica, avranno pronti per l’intera società i moduli di organizzazione militare, i valori militari, come unica alternativa all’organizzazione socialista. Quanto esatta questa previsione di Marx ed Engels!
Ricordiamo che il terrorismo è nella nostra storia. Ricordiamo da non violenti che occorre liberarsi dall’etica del sacrificio nostro e degli altri, dal modo di propiziare gli dei e di lavare le nostre mani scannando l’agnello. Dobbiamo conquistare la convinzione che è necessario non credere che esista una guerra sacra e santa e un’altra che non lo è – crociata laica o no – e che solo ammazzando e distruggendo il nemico noi restiamo liberi nell’espansione del nostro orizzonte.
Ricordiamo – l’ho scritto ormai molti, molti anni fa – che se guardiamo per un istante il nemico come ci appare e ci togliamo dagli occhi l’abitudine di vedere demoni all’infuori di noi (che poi sono quelli che noi proiettiamo ed incolliamo sui volti degli altri) ci rendiamo conto che quell’essere lì ci è necessario, perché con lui, di notte e di giorno, sono possibili dialoghi, chiarezze e tante splendide cose che potrebbero essere fatte.
Condannare via Rasella non è insultare la Resistenza
In questo congresso come non rivendicare alto, non – Lietta Tornabuoni! – come insulto alla Resistenza, ma come coerenza per noi, il diritto di non ritenere di poter crocefiggere Curcio solo perché nella sua storia cattolica trasferisce oggi le sue idee sulla guerra giusta e santa, come quella che ricordavo, di San Gabriele, San Michele e San Giorgio che armati schiacciano il demonio del capitalismo, del male, e quindi schiacciano il bene e il dovere dell’uomo che vuole onorare la sua fede, quella che ha nel cuore; noi disconosciamo che sia questo, Curcio, con questa matrice e con il volto che il Partito comunista ed anche il Partito socialista ci hanno ingiunto di cessare di cercare in questi due anni. Per i ministri e per i Presidenti del Consiglio ricattati e ricattabili si è impedita la ricerca della verità per quindici anni a qualsiasi livello. Ecco allora insieme alle storie di Curcio il disegno terroristico chiaro della Rosa dei venti, sul quale – Lietta Tornabuoni, te lo ripeto! – da l’Unità al Secolo d’ltalia, a sette-otto anni dai fatti e forse anche a dieci anni, nessuno si alza per chiedere ai tanto denigrati giudici, quando si parla della Banca d’ltalia, che cosa fanno in quella istruttoria per la quale Spiazzi, com’è giusto per i termini di carcerazione trascorsi, è libero. Non solo si sta consentendo l’inquinamento della verità, ma si consente a costoro di continuare il disegno della Rosa dei venti con l’impunità del processo che non si farà mai o non si farebbe mai senza le nostre denunzie.
Ricordare che erano sud-tirolesi i ragazzi di via Rasella è fare insulto alla Resistenza? È fare un omaggio alla tragedia incomparabile che uomini sicuramente non violenti e non crudeli vivevano se si decidevano a fare quello: gente comunista e socialista che sa (perché questo era divenuta socialista e comunista) che il popolo in armi quello che porta la divisa, è un fratello come me che devo portare la divisa.
…E dico (non l’ho detto ieri ma voglio dirlo oggi) che vorrei poter portare fiori sulle tombe di quei 40 ragazzi, il cui nome non è scritto da nessuna parte, se non nella nostra convinzione che non si trattava di cose (come qualcuno sembra credere) ma di persone, di uomini che avevano delle madri, delle mogli, dei figli, che erano capaci di pensare, di sentire, di baciare.
È questo un insulto alla Resistenza o non lo è piuttosto pensare che quell’azione militare deve essere vissuta come unanime decisione? Forse che coloro che amano la Resistenza non hanno il dovere di dire che certamente Giorgio Amendola, Antonello Trombadori, Carla Capponi e tutti gli altri compagni del comando militare di Roma si saranno a lungo interrogati (me lo auguro, anzi sono certo che sia così) per decidere se non fosse loro dovere fare quello che fece il povero carabiniere Salvo, che si consegnò per farsi giustiziare e tentare di salvare dieci o venti persone? Forse si dirà che da quella parte esisteva una coscienza dell’organizzazione di classe che il carabiniere non aveva, ma forse dobbiamo per questo pensare che non fu atroce decidere di mettere quella bomba per ammazzare quei ragazzi, sapendo che poi sarebbero stati ammazzati 400 ostaggi? E dobbiamo pensare che non fu un tormento la decisione di non consegnarsi? E un’offesa, un oltraggio alla Resistenza dire che i 370 delle Fosse Ardeatine sono morti perché non ci siano mai più 400 ragazzi altoatesini come quelli ammazzati? È un’offesa dire che coloro che giacciono alle Fosse Ardeatine gridano che non vogliono più nessun morto? Nella ricerca tragica e drammatica di affermare i grandi valori socialisti, pensammo di affermarli anche a via Rasella. Allora era quello il modo giusto, ma non è un oltraggio dire che per domani le cose devono essere diverse, che è assurdo che i sud tirolesi cominciano già a chiamare noi oggi poliziotti: questo non è un qualcosa che divide in due l’umanità, ma è qualcosa che contrappone l’umanità da un lato alla barbarie dall’altro.
I contadini massacrati sul Volga, non nel Vietnam…
Compagni comunisti, voi avete reagito in modo tale che noi dovremo, campagna elettorale o no, non abbandonare questi argomenti, perché questo è un punto essenziale da chiarire, se vogliamo che il nostro discorso sul futuro della società socialista, e anche sul nostro modo di vivere insieme, sia diverso.
Colleghi de l’Unità, la vostra violenza continua. Anche oggi, sul vostro giornale, c’è un titolo apparentemente esatto (per il quale, ve lo annuncio, ho querelato l’Unità con ampia facoltà di prova) ma che fa vedere quanto sia triste dover avere fiducia più nella giustizia borghese, magari quella degli Infelisi e dei Vitalone (con rispetto parlando) che nella capacità e nella onestà dei compagni comunisti.
Oggi è stato scritto che Pannella difende Reder ed Hess. Sembra quasi vero, ma cosa può pensare chi legge una cosa del genere? Che, alla vigilia della campagna elettorale, Pannella per guadagnare voti, si mette a difendere l’operato di Hess e Reder. Solo questo può significare quel titolo, ma in realtà io difendevo una cosa diversa. Quello che più mi spaventa è che queste cose debbano essere piegate a giornalisti de l’Unità che sono al di sotto degli 80 anni ed anzi addirittura dei 40. Perché – parliamoci chiaro – alla fine si è difesa anche gente molto peggiore di Hess e di Reder, che operavano all’interno delle vostre leggi militari, che noi consideriamo tutte barbare. Si è difeso chi ammazza e tortura i propri compagni migliori, con i quali ha lottato per 40 anni, ciascuno composto di 365 giorni e di 365 notti passate a discutere su cosa fare all’indomani; si è difeso chi ha dato un pasto nei processi, organizzati con le confessioni strappate con sistemi ancora più tremendi di quelli dell’Inquisizione, coloro che sono dovuti passare, di fronte ai propri figli e alle proprie mogli, come ignobili traditori venduti; si è difeso chi si è scatenato a cercare fin nel Messico Trotskij, tappato indomito a scrivere, per farlo ammazzare da un sicario: e ne sa qualcosa un compagno che amo, Vittorio Vidali, che con questo passato era ed è un gran compagno.
Come è possibile dire che io difendo Reder o che tutti noi lo stiamo difendendo, quando voi appartenete ad una cultura, ad un sentimento per i quali quella è roba passata, peripezie della storia, fatti dolorosi? Voi che tanto sentivate i contadini del Vietnam che morivano, ma non siete stati capaci di sentire i milioni, milioni e milioni di contadini del Volga e del Don sterminati peggio che nel Vietnam. Significa essere fascisti, dire questo? Significa insultare quella Lietta Tornabuoni che, avendo letto l’Unità, ha creduto queste cose, ha cercato di fare un pezzo tollerante come quello di oggi, ma ha finito per scrivere che noi insultiamo la Resistenza. Come se in questo congresso ci fosse qualcuno che può insultare la Resistenza: “noi non gli faremmo violenza, ma rimarrebbe solo con la sua sconfitta”.
Lo ripetiamo: “diritti civili” anche per Reder
Noi insisteremo su questo, perché dobbiamo difendere la democrazia. Personalmente ribadisco che ovunque vi sia un uomo chiuso per sempre, fino a che morte non giunga, ovunque vi siano mura che tengono un uomo rinchiuso per l’intera vita, quelle mura sono barbarie e fascismo, indipendentemente da chi rinchiudono. Compagni dell’Unità, scrivete bene quello che dico: noi vogliamo espugnare le Bastiglie anche (ripeto anche) di Hess e di Reder, perché se anche quelle due Bastiglie fossero espugnate non vi sarebbe più, in nessun luogo, uomo che avremmo il diritto di condannare all’ergastolo. Questo, vi siete dimenticati di scriverlo. Io avevo detto: “persino per Reder”, e così difendevo noi, non lui, perché la storia e sempre fatta di prigioni. Le Bastiglie vanno abbattute prima che siano vuotate dalla morte.
Dovremmo fare un dibattito in televisione… Ma di che dovremmo mai parlare – per creare problemi a Curcio – se non di questo? Di questo dovremmo parlare, anche se non con il tuo tono, Antonello Trombadori, che è quello della disperazione, e non con il tuo tono, Giorgio Amendola, che è quello di chi ha rimorsi, di chi non vuole parlare, di chi ha paura. Dovremmo andare a dire: io c’ero e lo considero una gloria, esserci stato. Io allora avevo 14 anni e non posso dirlo, ma vorrei poter dire di essere stato uno di voi, assassini per amore del proprio paese, assassini costretti ad essere tali dall’aver accettato la logica della guerra che tutti noi accettavamo, tranne pochissimi, tranne i Capitini, i Calogero, i laici; tranne poi il solitario ammaestramento reso da noi, solitari del socialismo pacifista, internazionalista, non violento, quello che in passato ha fornito il patrimonio da sciupare ai socialismi scientifici reali, quello che ha all’inizio del secolo trionfato nelle campagne e nelle fabbriche di tutta Europa, appunto con il libero amore, appunto con la »pace per tutti , appunto con il disarmo, appunto con la volontà di non dare un soldo a nessun esercito.
Se facessimo un dibattito alla televisione su questo, forse potremmo dibattere con coloro che, nella loro disperazione, dovendo essere ortodossi rispetto ad alcune delle chiese principali della nostra storia, dicono che un nemico si combatte e che alla violenza si risponde con la violenza.
Questo grande dibattito è necessario – Diego Novelli! – a Torino, anche (me lo consenta il compagno Pietro Ingrao) per una democrazia partecipata e associativa che finisce per ancorarsi sino al portiere, al responsabile di fabbricato, quello che avevamo negli anni ‘30, quando il portiere era quasi un pubblico ufficiale. Ed è strano che nutrano illusioni sulla delazione di massa, cioè sulla possibilità di fare giustizia attraverso la massa, proprio quei compagni che hanno constatato la inanità del fascismo quando, proprio contro di loro hanno giocato solo la carta del portiere di palazzo e del consiglio di fabbricato, perché in genere quelli andavano a raccontare storie su coloro che gli erano antipatici e non sui rivoluzionari seri che, in quanto tali, non davano nessun sospetto, non apparivano affatto criminali o terroristi.
Il discorso su Curcio passa anche per il discorso su Togliatti
Io non sto discutendo coi compagni autonomi né, se ci sono (e ce ne sono, come Curcio) con i compagni e fratelli assassini e suicidi. L’altro giorno, io non ho detto Mara Cagol, ho detto Mara. E chiedo loro se la vita che vogliamo costruire per noi sia quella delle centinaia di persone oggi in carcere o quella di Mara, cioè quella fatta della morte del compagno-eroico-combattente. Questo mi ricorda il modello oleografico capitalista con cui si riusciva a portare tutti noi a combattere: era bella la morte nei disegni di Beltrame sulla Domenica del Corriere! De Andrè è stato il primo a poter usare la radio per indurre a riflettere, per dire che quei due nemici erano fatti per amarsi: Benelli e italiani perbene permettendo, perché quelli erano due compagni uomini, che però erano ugualmente fatti per amarsi, per darsi carezze invece che per stringersi la mano morente nel momento in cui s’erano ormai fatti l’un l’altro fuori.
Noi andremo avanti, perché il discorso su Curcio passa anche attraverso il discorso su Togliatti. È così, non possiamo farne a meno, dobbiamo fare questo discorso. Pensate a quel dibattito in televisione: ci sarebbero tutti, anche quelli che parlano di “quegli assassini dei comunisti e dei partigiani che a Roma si dovevano consegnare”.
Ma noi li vinceremmo, potremmo convincerli che sbagliano. Noi possiamo sconfiggere la destra bolsa del nostro paese, perché noi parliamo anche a tutti coloro che hanno un’idea sbagliata dell’ordine della giustizia e che magari credono che il generale possa essere un buon ministro della difesa o il banchiere un buon ministro delle finanze, perché così li hanno abituati a pensare. Noi possiamo andar loro a dire che le leggi migliori sono quelle che sono, che dobbiamo dare soldi per salvare quella gente, che l’obiettore di coscienza è davvero qualcuno che lotta anche per loro. Ma vedrete, contraddittori su questo non ce ne saranno o saranno molto difficili.
Cerchiamo di vederci chiaro fino in fondo: non ce l’abbiamo con voi, ma con i vostri datori di lavoro. Ieri mi diceva un operaio della televisione, che stava qui, che quando io li attacco loro si sentono offesi. Io ho risposto: scusate, è come se quando io attacco Agnelli gli operai della Fiat si sentissero offesi; in realtà, si fregano le mani. Noi ripetiamo che i Grassi e i Barbato, con le attuali strutture della televisione, sono dei destabilizzatori, e che il loro terrorismo contro la verità democratica è tale per cui, se ci fossero tre posti liberi nelle carceri italiane ed io dovessi decidere se metterci Curcio, Vallanzasca e Concutelli (che ammazzano mille democratici) o Grassi, Barbato e gli altri, che contribuiscono ad ammazzare la democrazia, io, pur essendo un libertario che giustifica un arresto solo come prevenzione sociale, ci metterei questi ultimi. E non dico questo per insultare, ma perché sono convinto che questa sia la realtà.
Dovrete poi notare che in questi giorni ci sono stati per noi maggiori margini forse nelle reti cattoliche. Dobbiamo dirci fino in fondo queste cose, per capire e per far capire altre cose incomprensibili ai compagni più giovani. Nel 1948 gli Ernesto Rossi, i Salvemini, gli Einaudi, i Calosso, addirittura i compagni anarchici di Massa e di Carrara, sembrarono scegliere, secondo i canoni che ci vengono propinati, il capitalismo e l’America contro il fronte popolare di Togliatti e di Nenni. Addirittura sembrarono scegliere non solo la Democrazia cristiana ma addirittura la Chiesa, che in quel momento faceva piangere santi da tutte le parti, con un feticismo ed una utilizzazione temporalista della religione che uccideva la religiosità e le cose di cui dovrebbe essere custode. Ma perché fecero quella scelta?
Quando si attacca l’arroganza del potere della Dc, si dimentica il modo in cui per anni e anni si sono ingannati i lettori de l’Unità su fatti storicamente veri e il mondo in cui l’anno scorso si è andati in televisione a recitare bugie sulla legge Reale per ingannare i compagni comunisti; bugie che nessun fascista, nemmeno ufficiale, aveva il coraggio di raccontare. Ma chi sequestra verità, ammazza democrazia e socialismo, e non solo quello autogestionale, ma anche quello democratico. È per questo che dobbiamo andare fino in fondo in questo processo.
Ho l’impressione, compagni, che sarà il Partito comunista a tentare di impegnare il suo vertice, per paura della sua base, per far sì che anche le reti cattoliche mantengano il massimo di silenzio e di discriminazione nei nostri confronti, in questa campagna elettorale, nonché per ottenere la massima riduzione delle tribune elettorali. Questo perché i metodi di organizzazione del consenso della Democrazia cristiana non passano attraverso il silenzio sulle accuse che noi le portiamo, ma attraverso mille altri meccanismi di classe molto più articolati. Invece, il Partito comunista e gli altri partiti operai si mobiliteranno, perché loro hanno paura del contraddittorio sulla legge Reale, magari su Via Rasella e su Togliatti, perché discutere del passato significa anche discutere del futuro. E bene faceva un compagno a ricordare (lui credeva a voi, ma in realtà a se stesso) che non bisogna mai avere idoli, perché ogni idolo porta con sé il destino di diventare, sempre e inevitabilmente, un idolo infranto; e sono i cuori che si infrangono poi sugli idoli infranti.
I due protagonisti: Partito Comunista e Partito Radicale
Questo significa rimettere le cose in discussione ed ho proprio l’impressione che se noi difenderemo i diritti del Partito comunista e di tutti gli altri in questa campagna elettorale, i due protagonisti di essa saranno – come è giusto che sia nel mondo moderno – all’interno della sinistra italiana, come è già accaduto per i referendum. Se vi fosse verità, i due protagonisti sarebbero il Partito Comunista e ii Partito Radicale, con le loro tesi a confronto: la tesi basata, ancora una volta, sulla illusione della industrializzazione, delle costruzione dello Stato capace di resistere al regime capitalistico, capace anche di ammazzare la verità (se non la vita di milioni e milioni di contadini) per poter poi costruire il socialismo; e quella nostra, oggi più robusta grazie a quanto è successo in tutto il mondo, che ha dimostrato che ciò che si è conquistato con l’assassinio, voluto e sostenuto da Palmiro Togliatti, di milioni di compagni e di contadini non è il socialismo, ma lo Stato dell’Unione Sovietica di oggi, quello che con gli Stati Uniti (e forse più di quelli) spende 400 mila miliardi per gli armamenti, perché ne ha bisogno per l’esterno.
Abbiamo detto che a sinistra e da sinistra c’è la risposta ai problemi di libertà. Sarà una lotta dura, saremo irriconoscibili, come Pasolini ci chiedeva, non perché non vogliamo essere riconosciuti ma perché tali ci faranno diventare le menzogne (di oggi, di ieri e anche di domani) cui sono dannati, fino a quando non cambierà la loro politica, i colleghi de l’Unità e i tenutari del controllo della televisione e della radio di Stato. Tutto questo costringerà la gente a ritenerci tutti un po’ dei mostri, dei blasfemi, dei denigratori del socialismo e della Resistenza.
Ci si cercherà di vincere per lo meno ammazzando la nostra identità, visto che per il momento ancora non abbiamo motivo di ritenere di essere – ma probabilmente lo siamo – sotto il mirino delle Brigate cosiddette rosse e di chi oggi le comanda – non sappiamo chi è, sappiamo che non è Curcio, può avere galloni ufficiali oltre che galloni non ufficiali sulle proprie spalle. Sappiamo – e siamo sereni per questo, non vogliamo scorte, non vogliamo mutare vita – che in questa società molto spesso sembra – cerchiamo di fare in modo che non sia così – che il destino dei non violenti sia quello di morire assassinati, da Gandhi a Martin Luther King, a Pino Pinelli, compagno anarchico, anche lui nonviolento.
Sappiamo costoro che se rivendichiamo come nostra storia via Rasella – e come nostra storia la vogliamo rivedere, superare e farcene ricchi e forti – non è storia nostra – e la rifiutiamo – quella di coloro che oggi combattono come combatte e sta combattendo il vertice del Partito Comunista troppo spesso – lo ripeto – come Ugo Spagnoli alla televisione e come te, collega, che hai scritto l’articolo in modo che fosse possibile il tuo direttore affermare che Pannella e i radicali difendono Reder e Hess.
Metodi goebbelsiani nelle campagne dell’Unità
È falso. Voi siete responsabili di una campagna che ha toni goebbelsiani e matrice stalinista. Non è perché non siete armati di altre armi che potrete affrancarvi dalla responsabilità di quello che può accadere. A Roma, nella città delle Fosse Ardeatine, si viene a dire che al congresso radicale Marco Pannella ha insultato la Resistenza e ha fatto l’apologia dei nazisti e delle vittime naziste. Ebbene, chi dice che a proposito di queste cose ha fatto la Resistenza, se costui poi arma le mani e non solo lo spirito di qualcuno che non ne può più della merda in cui è crollata la speranza della Resistenza: e che prenda e spari…
Quello che diciamo ai compagni comunisti è che sbagliano. Noi rimproveriamo loro delle tremende responsabilità passate e mentre lo facciamo diciamo: le responsabilità che noi con voi allora avemmo. A scanso di equivoci, perché la classe è qualcosa che si si sceglie non sono rose e fiori; sono anche chiodi che scegliamo di prendere per noi per essere inchiodati alla milizia di classe.
A gennaio mi arrivavano – è vero, Marisa, Emma, Franco? – centinaia di lettere da tutta Italia: erano lettere di persone dalla cui calligrafia si comprendeva che sicuramente era gente – come si direbbe e non è un valore che mi riguarda – “autentica”; spesso analfabeti di ritorno.
In queste lettere mi si diceva che ero peggio dei nazisti, che ero un assassino dei feti. Di fronte a queste lettere ho capito molte cose. Guardavo dentro di me a Benelli e a Paolo VI; questi uomini che dovrebbero essere di amore e di pace e che sicuramente in quel modo ritenevano di difendere la vita, la fede e la carità e che armavano necessariamente in prospettiva la mano di qualcuno. Infatti, se io fossi veramente un cattolico che crede al Papa e a Benelli, che annuncia che nei prossimi anni per colpa nostra ci saranno più morti assassinati di quanti non ne fece tutta la guerra mondiale – ed è questo che disse con una omelia il cardinale Benelli – se io fossi una persona semplice e credessi a Paolo che prima di morire ha reinsegnato che il demonio esiste in questo mondo; se sapessi che si stanno per ammazzare milioni e milioni di persone, le più indifese, le più care, quelle che non hanno visto neppure la luce, e volessi rendere omaggio alla mia fede, cosa mi potrebbe trattenere dall’andare a spegnere quella vita infame e diabolica che riassume in sé tutta la forza e la capacità di ammazzare altre vite? Quella – cioè – di Pannella?
D’un tratto quelle lettere hanno quasi cessato di arrivare. È stata sufficiente questa ricerca del mio e del loro rigore; è bastato a fine gennaio ricordare i bambini vivi (quei 17 milioni) perché anche in quello strato di fanatizzati e di disperati entrasse forse la pietà o il dubbio. Forse non è più da quella parte che una mano può spegnere chi “bestemmia la vita”.
Compagni comunisti, andremo ad una lotta durissima, ma state attenti: quelli che avete assassinati e torturati, coloro che tanto a lungo ho nominato, li avete torturati ed assassinati soprattutto quando avete preteso da loro che bestemmiassero la verità, riconoscendo la fondatezza delle accuse per le quali li si sarebbe condannati a morte.
Dire che abbiamo insultato, noi non violenti, la Resistenza, dirlo in questo scontro politico: lo si faccia pure. Compagni radicali, io raccolgo, e per quello che mi sta personalmente a cuore, questa sfida nelle Radio radicali, nella televisione – decida il partito quando mandarmi – perché personalmente intendo rispondere fino in fondo delle bestemmie che mi si imputano, delle speranze nel socialismo e nella umanità non militare, nella organizzazione non militare, non centralista burocratica, di qualsiasi fase della rivoluzione socialista e quindi della vita di una donna e di un uomo che hanno nel cuore, nelle mani, nella testa questa speranza socialista. È tutto, compagni.
Si diceva ieri: forse ha recitato grandi pontificali; nulla di male. Io rispetto profondamente la religione e la religiosità, un po’ meno le confessioni e le loro organizzazioni.
Vorrei dire a Gigi De Marchi che sbaglia; vorrei dirglielo con tutta la fraternità militante che è nostra. Io chiedo che s’intervenga quest’anno per salvare almeno alcune centinaia di migliaia dei milioni di persone che stanno per essere ammazzate. L’ho sostenuto troppo a lungo, Gigi, perché tu possa d’un tratto avere lecitamente dei dubbi. Come per l’energia la prima risorsa è il risparmio energetico, per la vita la prima risorsa è il risparmio demografico. Ma non si possono dire insieme tutte le cose. Quando c’è da parlare contro il Patto di Varsavia, parli su questo, poi interverrai contro il Patto NATO e nella tua storia c’è unità; non deve esserci unità di pronunciamento di parole; fra l’altro, non è neanche possibile.
Quindi, quando c’è un radicale è chiaro che con la sua storia, la sua persona ed il suo volto dice che non si possono mettere al mondo in un paese il 90 per cento delle esistenze che non chiedono di venire al mondo, per poi assassinarle matematicamente all’indomani di fame e di stenti.
Sulla vita e lo sviluppo non essere chierici impotenti
Certo, se salviamo un milione di persone, questo costituirà un problema per il prossimo anno, perché ci saranno più bocche da sfamare, oltre a quelle nate regolarmente. Come puoi pensare, Gigi, che non me ne renda conto? Ma il problema è un altro.
Piuttosto che continuare, come tu hai fatto, a ripetere le tue ragioni, voglio ancorarmi a fatti di massa immensi e all’interno di questi poi fare esplodere anche le mie e le tue ragioni. Altrimenti si diventa chierici della verità reichiana – e tu sai quanto io ci creda – chierici della verità sulla demografia e sui problemi dello sviluppo nel mondo; chierici che finiscono per celebrare, laddove il potere glielo consente, queste verità, che a questo punto diventano disarmate e fiore all’occhiello del potere: non suo elemento di crisi.
Lo stesso per il timore del carisma. Andiamoci piano. Intanto io ritengo che tutti i compagni che hanno questo problema siano loro i vecchi ed i veri pannellati, perché quelli che hanno bisogno di venire sempre qui a dire che non si è detto di no a Pannella, eccetera, sono proprio loro ad avere dei problemi. I compagni sono liberi di non avere il problema di aver detto di sì o di no. Siete voi che avete dei problemi con me, con il mio carisma o non carisma.
L’insulto continuo: popolo bue, anche se radicale; questo è il problema delle psicodinamiche di gruppo, ma noi abbiamo una garanzia nel nostro essere laici: nel laicismo è definitivamente separato il giudizio dalla sentenza e la sentenza dalla violenza. Il laico sa che giudicare è doveroso, perché il giudizio non è più sentenza ed anzi è quello che si deve all’altro come collaborazione; non è più annuncio di morte. Il giudizio per il laico – Antonello Trombadori, Amendola, eccetera – non è una sentenza.
Per un laico libertario la sentenza deve essere armata della verità che c’è nel proprio interno e non della spada della cosiddetta giustizia della spada dello Stato o del partito.
Poi ci sono i carismi. È un altro problema della società socialista. C’è un compagno che si trova arricchito dalla fiducia degli altri privilegiato dal silenzio, dalla attesa alle 2.40 di quest’oggi privilegiato dalla richiesta di superare un po’ se stesso ogni volta, di riflettere. A questo punto sono un po’ la voce di tutti; in questa psicodinamica siamo un po’ la voce di tutti; un certo silenzio crea le parole di chi parla, tanto è vero che se c’è un brusio, chi parla dirà altre parole; non potrà concentrarsi. Se volete, è un mistero, come tutto quello che nobilmente è teatro. Ho sempre affermato che la democrazia è agorà, è piazza, è peripatetica; il dialogo, il marciapiedi, eccetera. L’ho affermato, ripetuto, ne sono convinto. È la dimensione uomo. Non voglio né il solare di un certo tipo né tanto meno il nucleare perché voglio riacquistare la dimensione del comune, della libertà, dell’autogestione; la dimensione umana, in cui sia possibile parlare al proprio congresso regionale o comunale e fregarsene di quello nazionale, perché a poco poco, in questo caso, la nazione non rappresenterà più niente.
Questo è il cammino verso cui dobbiamo tendere. Un compagno prima mi diceva che non sono paternalista perché non ho paura di vincere e di andare in maggioranza; mi ha fatto piacere, perché la cosa peggiore è quella appunto di chi costituendosi in più forte riconosce agli altri l’essere più deboli e lascia andare, li “comprende”, non propone, non si oppone. Questo sarebbe paternalismo. Ma noi, grazie ancora a Gigi De Marchi, troppo a lungo abbiamo (ho) riflettuto negli anni in cui era importante, sulla mediazione reichiana, su quanto c’è di rischio nell’esser “folla”. Ma compagni, c’è una differenza: noi siamo cresciuti quantitativamente e qualitativamente qui; e quanto ne vedo! Ciascuno di noi, attraverso le indegnità che gli venivano attribuite giustamente, ha vissuto ricerche, parole, tentativi, carezze, pensieri che fanno sì che l’identità di tanti di noi sia reale, forte, insopprimibile. È questa un’assemblea, è una “ecclesia” di vere persone, più che altrove. C’è certo sempre qualcosa di “folla”, di repressione in ciascuno di noi, che si traduce in bisogno di potere, come per chiunque è impotente o nei suoi perimetri di impotenza; e sicuramente c’è del piacere nel parlarvi, non solo dell’amore, nello stare insieme; c’è sicuramente l’inquinamento che è in qualche misura anche potere: il problema è cosa, in tutto questo, facciamo deperire o cosa crescere nel nostro stare insieme.
Io credo, compagne e compagni, che stiamo facendo deperire la violenza che è in noi e quindi il socialismo, per quello che sta in noi, un pochino sta andando avanti.
(Intervento del 2 aprile 1979, trascrizione non rivista dall’autore)