di Valter Vecellio
Prezioso volumetto, Gioverà ricordare, Meminisse iuvabit di Daniele Olschki, quarta generazione della storica e gloriosa casa editrice Leo S. Olschki: ne ha diretto l’ufficio editoriale, dal 2011 Amministratore Delegato. La senatrice Liliana Segre, che firma la prefazione, lo definisce “un palinsesto di storie personali, famigliari, ma anche culturali e politiche”. Esattamente.
L’autore confida che sulla sua scrivania giaceva da tempo un fascicolo di corrispondenze che il nonno Aldo aveva intitolato: “Meminisse iuvabit”, “gioverà ricordare”.
Ricordare in particolare “il buio dei giorni” del 1938, l’anno delle infami leggi razziali: “il baratro della ragione in cui precipitammo in quegli anni”; gli Olschki e migliaia di altri italiani colpevoli solo di essere quello che erano.
Con penna felice e “leggera” Daniele racconta del bisnonno Samuele: prussiano di origine, si stabilisce a Firenze, antiquario ed editore raffinato, allaccia fruttuosi rapporti con due magnati americani, Henry Walters e Pierpont Morgan; in breve è il punto di riferimento di studiosi e intellettuali: “favoloso principe dei bibliofili, l’amico di imperatori e di re, i Morgan e gli Acton, di D’Annunzio e di Rilke”, ricorda un giovanissimo Vittore Branca.
Un felice attivismo che procura visibilità ma anche “attacchi velenosi che ricordano nella pretestuosità e nel lessico quelli subiti nell’immediato anteguerra…”. Un giornale fascista, La Tribuna, lo definisce “editore tedesco polacco ebreo elvetizzato durante la guerra”, che “non opera nell’interesse della cultura nazionale”.
Si arriva così al 1938, quella che Liliana Segre definisce “la discesa agli inferi”. La cittadinanza viene revocata; i fascisti vogliono che denunci gli autori e i collaboratori ebrei; si impone la sostituzione del nome della casa editrice con altro “ariano”, seguono sequestri, confische, censure. Infine, è costretto a rifugiarsi in Svizzera, dove nel 1940 muore.
Con l’8 settembre 1943 gli eredi rientrano in possesso della casa editrice, ma l’Odissea è tutt’altro che conclusa: “Tutto quanto sfuggito sotto il peso delle leggi razziali verrà spazzato via dalle mine tedesche”. La libreria su Lungarno Corsini viene distrutta, perduto anche il famoso villino liberty crocevia di studiosi e intellettuali: “Tutto andò perduto e solo la sorte e la forte determinazione a ripartire dalle macerie permisero alle successive generazioni di tenere in vita, a far giungere fino a oggi il progetto che Leo Samuele Olschki avviò nel 1886”.
Una feroce storia di antisemitismo. “Ricordare è necessario. Un dovere morale, storico, politico, civile”, annota Segre. È un passato che non passa; che spesso si rinnova in un presente che fa temere per il futuro.
Daniele Olschki
Gioverà ricordare – Olschki editore
di Va.Ve.
È tra le sue più belle, l’intervista di Giampiero Mughini a Leonardo Sciascia pubblicata nel fascicolo del dicembre 1978 di Mondoperaio. “Cosa stai leggendo?”, chiede Mughini. E Sciascia: “Stendhal”; si entra così nel mondo dello scrittore: Stendhal, John Dos Passos, Leo Longanesi, Ignazio Silone, Manuel Azana… un mondo dove non può mancare Vitaliano Brancati: da rileggere, riscoprire: “parla alla nostra inquietudine. Un ruolo e un peso che non gli sono stati adeguatamente riconosciuti. Per me è lo scrittore più importante di quella generazione formatasi tra il 1930 e il 1940”.
Sciascia di Racalmuto, paese arroccato nell’agrigentino; Brancati di Pachino, nel siracusano; e insegna al magistrale che Sciascia frequenta da studente: “Mi appariva come il mito vivente dello scrittore…ero lettore dell’“Omnibus” di Longanesi. Su quella rivista apparivano le sue ‘Lettere da Caltanissetta’. Descrivevano la vita reale di Caltanissetta, quella che osservavo tutti i giorni…”. I due poi si conosceranno di persona a Roma, attraverso un altro scrittore, il calabrese Mario La Cava.
Di Brancati Sciascia traccia un nitido ritratto: “lo scrittore che meglio ha rappresentato le due commedie italiane, del fascismo e dell’erotismo in rapporto tra loro e come a specchio di un paese in cui il rispetto della vita privata e delle idee di ciascuno e di tutti, il senso della libertà individuale, sono assolutamente ignoti. Il fascismo e l’erotismo però sono anche, nel nostro paese, tragedia: ma Brancati ne registrava le manifestazioni comiche e coinvolgeva nel comico anche le situazioni tragiche”.
Ha appena 47 anni quando Brancati si ricovera a Torino per farsi asportare una cisti dermoide benigna; il cuore non regge l’anestesia; è il 25 settembre del 1954 quando muore: settant’anni fa.
Lo conosciamo, Brancati, quale autore di Don Giovanni in Sicilia; Il bell’Antonio; Paolo il caldo; racconti tragicomici di impotenza sessuale e ossessioni erotiche ma anche lucide, impietose analisi dei costumi politici e culturali di quegli anni. Ma non va ignorato il suo lavoro di sceneggiatore per registi come Luigi Zampa (Signori, in carrozza!; L’arte di arrangiarsi; Anni difficili), Mario Monicelli (Guardie e ladri), Roberto Rossellini (Dov’è la libertà; Viaggio in Italia). Protagonista di un clamoroso caso di censura: nel 1952 viene vietato un suo dramma, La governante; tratta un caso di omosessualità femminile. Vicenda da cui ricava un sapido pamphlet, Ritorno alla censura, attualissimo.
Nel 1952 partecipa a Parigi a un congresso dell’Associazione per la libertà della Cultura di Silone e Nicola Chiaromonte. La sua “lectio”, pubblicata nel fascicoletto n.10 (Le due dittature) è una lucida “orazione” contro ogni dittatura, sia di destra che di sinistra. Sembra scritta per l’oggi.
Curioso, ma non sorprendente, che un personaggio come Brancati, così ricco, con un percorso umano e intellettuale anche tormentato (questo tormento, il continuo rovello cui si sottopone è parte del suo fascino), sia stato così poco indagato, e – diciamolo pure – dolosamente ignorato.
Si deve perciò essere grati a Salvatore Vullo, autore di un rigoroso Vitaliano Brancati, una sorta di prezioso baedeker per scoprire e riscoprire questo grande scrittore. Vullo ripercorre momenti cruciali e drammatici della nostra storia recente che segnano profondamente Brancati e con lui almeno un paio di generazioni: il fascismo, quello vero; la tragedia guerra; il crollo della dittatura, la conquista della libertà, le tante speranze tradite. Brancati da giovane è infatuato dal fascismo (si rilegga, nel quarto volume della monumentale opera di Renzo De Felice su Mussolini, la visita di Brancati al Duce a palazzo Venezia nel 1931). Poi, la maturata avversione, l’auto-esilio in Sicilia, il ritorno a Roma; e non mancano i passaggi di intima tenerezza, un “privato” che aiuta a comprendere il personaggio e le sue sfaccettature. Come in punta di piedi, Vullo “indaga” anche sul lungo rapporto d’amore con la giovane Anna Proclemer, i tormenti, le passioni, importanti quanto la sua produzione letteraria, per comprendere l’uomo che emerge nella sua grandezza e fragile, tenera umanità.
I due si incontrano a Roma nell’inverno del ’41. Lui scrittore affermato, lei studentessa che inizia a far teatro. Vitaliano la invita a una rappresentazione di Stravinskij, per tutta la sera non stacca gli occhi da lei, dalle sue mani. Venti giorni dopo la prima di tante lettere: “Le cose, almeno da parte mia, stanno così…mi sembra letteralmente d’impazzire. Non so lavorare, m’affumico il cervello con la pipa, passeggio, la notte, intorno al mio letto, faccio penosi calcoli con le dita, a tutti domando la stessa cosa; mi sono rimasti solamente due pensieri: uno scintillante come il sole, e uno nero come la morte. Il primo è che tu sei la più dolce, bella, intelligente, candida ragazza del mondo, e il secondo che sei tanto giovane, e io no”. Anna è lacerata tra il desiderio di affermarsi come attrice, la vita che sogna, e l’attrazione per lo scrittore che le si strugge dinanzi. Cederà solo nel 1946. L’anno prima è stata in Sicilia per girare un film, condivide l’estate con Vitaliano, tra le vie di Catania “magica e astratta”. Si sente “felicissima, infelicissima, confusa, turbata”. Hanno trascorso molte notti passeggiando per la città: le parla di poesia, di musica, di Keats, Leopardi, Chopin, Bellini. Le scrive: “Nessuno ama la felicità quanto me e nessuno ne è meno adatto. Mi manchi in modo intollerabile”.
Poi la separazione, anche se un legame resta, non solo perché hanno una figlia, Antonia. Anna è con lui quando Brancati si ricovera per l’intervento che gli sarà fatale.
Nel 1994 lei gli scrive una “lettera”: “Più di quarant’anni che non ci sei più. La tua assenza si è fatta via via più accorante, ‘tumultuosa’. Non ho cessato di rimpiangerti. Mi sei mancato ogni giorno. Ogni ora…Mi manchi terribilmente”.
A Vullo la nostra gratitudine per averci dato una buona occasione per “recuperare” uno scrittore dotato di una vena umoristica e amara simile a quella di un Ennio Flaiano o un Giuseppe Berto: cui la cultura e tutti noi dobbiamo più di qualcosa.
Salvatore Vullo
Vitaliano Brancati – Morrone editore