Proposta Radicale 7 2022
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Recensioni

L’atroce destino di una “fimmina” calabrese

di Gualtiero Donati

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L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene

di Valter Vecellio

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L’atroce destino di una “fimmina” calabrese

L’atroce destino di una “fimmina” calabrese

di Gualtiero Donati

Suggestioni che possono sembrare arbitrarie e tuttavia si intrecciano, annodano. Il dialogo tra il capo mafia Mariano Arena e il capitano Bellodi ne “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia: “Lei ha assicurato a sua figlia un avvenire di ricchezza…ma non so se sua figlia riuscirebbe a giustificare quel che lei ha fatto per assicurargliela, questa ricchezza…So che per ora si trova in un collegio di Losanna: costosissimo, famoso… Immagino lei se la ritroverà davanti molto cambiata: ingentilita, pietosa verso tutto ciò che lei disprezza, rispettosa verso tutto ciò che lei non rispetta…”, dice Bellodi; e il mafioso, rabbioso, che ha subito intuito, compreso: “Lasci stare mia figlia”. E poi, più rassicurare se stesso che il carabiniere: “Mia figlia è come me”. Perché lo sa: non è così.

Felicia Bartolotta, siciliana di Cinisi, paese come dicono frasi degne di ghigliottina, “ad alta densità mafiosa”, regno del “Zu Tano”: quel Gaetano Badalamenti avversario dei “corleonesi” e che per sfuggire alla mattanza varca l’oceano, approda negli Stati Uniti, infine morirà nel penitenziario di Devens nel Massachusetts. Tra i suoi mille crimini, l’aver ordinato l’eliminazione di Peppino Impastato, un ragazzo che fonda una radio, “Radio Aut”, e da quei microfoni spara a zero contro di lui e la mafia. Luigi, il padre, è lui pure un mafioso; ripudia il figlio, ne accetta la condanna a morte. La madre Felicia, quando il figlio viene trovato morto ammazzato, sarà una delle più implacabili accusatrici di Badalamenti e del suo mondo mafioso. Peppino lo uccidono il 9 maggio 1978, lo stesso giorno in cui viene trovato morto Aldo Moro. Badalamenti viene riconosciuto colpevole (e condannato) per quel delitto nel 2002. Felicia fa in tempo a vedere quel verdetto, muore due anni dopo. 

Nella strage di via D’Amelio muoiono in sei: Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. In realtà, le vittime sono sette. Rita Atria è una ragazza di 17 anni, di Partanna, vicino Trapani. In paese si fronteggiano gli Accardo e gli Ingoia, in pochi mesi una ventina di morti ammazzati; tra quei morti anche il padre di Rita e il fratello Nicola. La madre di Rita le intima mille volte di non immischiarsi negli affari della cosca, non deve fare domande, cercare risposte. Lei invece ascolta e vede. Capisce, ricorda. Un giorno racconta a Borsellino quello che sa di quei clan impenetrabili, gli fornisce le chiavi di lettura per conoscere equilibri e gerarchie; collabora con la giustizia, per la famiglia è un’infame, la ripudiano. Quando Borsellino viene ucciso anche Rita comincia a morire. Quel giudice per lei è il padre che non ha mai avuto; precipita in una depressione da cui non si solleva più. Si lancia dalla finestra del quarto piano dell’appartamento romano in cui ha trovato rifugio. C’è l’ultimo oltraggio: la madre con un martello spacca la tomba di Rita, distrugge la fotografia di quella figlia che ha infangato l’onore della famiglia.   

Vincenzina Marchese: figlia di mafiosi di rango, comandano a corso dei Mille a Palermo. Sposa un big della Cosa Nostra: Leoluca Bagarella, braccio destro di Totò Riina. È pienamente immersa nel mondo mafioso, cosciente, consapevole; non è colpevole di nessun crimine, ma vive nella monade mafiosa sapendo di farlo. A un certo punto scatta qualcosa: il non riuscire a portare a termine un paio di gravidanze; l’orrore per i delitti commessi dal marito (tra gli altri, la crudele prigionia durata mesi e mesi del piccolo Giuseppe De Matteo, poi strangolato e il corpo sciolto nell’acido)… fatto è che la donna si uccide, il suo corpo non sarà mai trovato, sepolto chissà dove. Uno dei fratelli di Vincenzina collabora con la giustizia, la legge di mafia esige che il parente, sia pure acquisito, di un “infame” sia lui stesso inaffidabile; chissà che Vincenzina non abbia voluto risparmiare l’”imbarazzo” all’amato-odiato marito, e per questo si sia uccisa …

Chissà quante altre fosche e tenebrose storie di mafia si potrebbero raccontare, quante donne nel silenzio, appartate, si dilaniano, soffrono, preda di sentimenti che non possono esternare… Accanto ad altre storie: di donne di mafia e camorra pienamente inserite nell’organizzazione criminale, capaci alla bisogna, di prendere il posto dei loro compagni, più abili, determinate, feroci di loro… Se ne ricaverebbe un Pantheon stupefacente, capace di ammaliare per la straordinarietà di ogni storia, per le implicazioni e i molteplici significati.

Di questa “galleria” fa parte Lea Garofalo, “una fimmina calabrese”, come dice il titolo del libro che Paolo De Chiara le ha dedicato: la donna che “sfidò la ‘ndrangheta”.

Lea nasce a Petilia Policastro, provincia di Crotone. Ad appena nove mesi rimane orfana del padre, saranno il fratello di Lea, Floriano, e lo zio, che pagherà con la vita, a portare avanti la vendetta. Lea cresce in una famiglia ‘ndranghetista: la nonna le insegna che “il sangue si lava con il sangue”. Si innamora di un altro ‘ndranghetista, Carlo Cosco: un farabutto che vede in lei solo lo strumento per scalare il potere all’interno delle cosche. Lo segue a Milano, dove la ‘ndrangheta si è insediata da tempo. I Cosco gestiscono un lucroso traffico di droga. Lea rimane incinta, nasce Denise. La donna non più vuole sapere del suo ambiente d’origine, soprattutto vuole che la figlia abbia una vita normale. Il clan non glielo consente. A questo punto il passo estremo: Lea decide di collaborare con la giustizia e beneficiare delle protezioni che questo status prevede. Inizia un “periodo in salita”, come afferma Denise intervistata da Carlo Lucarelli: madre e figlia hanno altre identità, non vivono a lungo nello stesso paese: Ascoli Piceno, Fabriano, Udine, Firenze e Boiano, vicino a Campobasso.

Una quantità di vicissitudini registrate con dolente partecipazione da De Chiara. I Cosco perseguitano Lea, la vogliono, va “lavato” un intollerabile sfregio, temono quello che può rivelare. E lo Stato, le sue articolazioni, non sanno, non vogliono difendere la donna, che alla fine viene rapita, torturata, uccisa, il corpo bruciato, quello che ne resta sepolto in un terreno vicino Monza.

È un vero e proprio calvario quello che vive la figlia Denise, prima di vedere il padre e i suoi complici condannati per il delitto della madre; da allora vive sotto protezione, nel più completo anonimato. Lea Garofalo per lo Stato non è una vittima di mafia: per “problemi burocratici” non è stato applicato durante il processo l’aggravante di associazione a delinquere di stampo mafioso. Durante tutto il processo si è parlato di ‘ndrangheta, ma alla fine la ‘ndrangheta non è stata chiamata con il suo vero nome. L’amara soddisfazione, oggi, dei funerali civili e pubblici, e il “riposo” al cimitero Monumentale di Milano.

Una giovane madre disperata”, la definisce Di Paola. Una ragazza che chiede inutilmente aiuto: “Ha urlato la sua disperazione. Nessuno ha sentito, nessuno ha mosso un dito”.

Non mancano, nel libro, passaggi inquietanti, al di là della terrificante storia principale. Si vada per esempio a pag.55. Lea racconta quello che sa, “è una delle prime donne che scavalca questo muro, che mette tutto quello che sa nelle mani dei magistrati…”. Viene ascoltata “in presenza di un maresciallo e di un legale assegnatomi, mi dissero che bisognava aspettare di trovare un magistrato che non fosse corrotto…”. Rileggere, per favore: “aspettare di trovare un magistrato che non fosse corrotto…”.

Ancora, a pag.85: “La donna in vita non è mai stata ritenuta credibile. Da nessuno. Solo dopo la sua morte hanno utilizzato le sue dichiarazioni…”.

Il resto leggetelo: un libro, letteralmente “istruttivo”, uno squarcio che illumina un mondo “a parte”, con logiche, codici e leggi “altre”. Saccheggio dalla post fazione di Cesare Giuzzi: “Lea e Denise sono entrambe donne vittime di mafia. Ribelli, solitarie, sole contro la più grande e vergognosa oscenità d’Italia: una falsa virtù intrisa di potere, menzogna, falso onore e rispetto chiamata ‘ndrangheta”.  

Paolo De Chiara

Una fimmina calabrese – Bonfirraro

L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene

L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene

di Valter Vecellio

Ci vuole un gran coraggio per scrivere un libro come “L’inganno” di Alessandro Barbano. Ci vuole un gran coraggio a pubblicarlo (se ne renda il giusto merito alla Marsilio, la cui collana di saggi sta diventando qualcosa di imprescindibile).

Non è un libro di “errori”, ma di “orrori” giudiziari, consumati “in nome del popolo italiano”. Si può ben immaginare con quanta amarezza si rammenta un passaggio di un libro “infantile” come il “Pinocchio” di Collodi: quando il burattino si trova a dover fare i conti con il giudice di Acchiappacirulli: innocente, quindi paghi. Mica tanto “infantile”, se andate a pagina 153 e seguenti. Nella Calabria del procuratore Nicola Gratteri “non mancano le assoluzioni di massa di persone portate a giudizio, e spesso arrestate, da innocenti”. Errare è umano, si dirà; umani sono anche i magistrati, sicuro. Però, senza accusare nessuno d’essere diabolico, si resta perplessi di fronte alla quantità ripetuta di casi. Lo scrittore Mimmo Gangemi (di cui si consiglia la lettura di tutti i suoi numerosi libri), si è posto la domanda di quanti siano. Leggiamo: “…Nel libro ‘Il caso Giustizia’, che però non ha mai visto la luce. La casa editrice che gliel’aveva commissionato, infatti, dopo aver letto il manoscritto, l’ha rispedito al mittente, considerando la tesi e le conclusioni dello scrittore calabrese troppo impegnative. In realtà Gangemi, che di formazione è ingegnere, ha compiuto un’operazione aritmetica, mettendo a confronto l’esito finale delle principali inchieste giudiziarie antimafia condotte in Calabria negli ultimi vent’anni. Il risultato è desolante: nei processi definiti appena il 42 per cento degli imputati portati a giudizio è stato condannato, meno della metà. Il restante 58 per cento è stato assolto, con una percentuale minima di prescrizioni. Vuol dire che più della metà degli imputati è stata processata indebitamente. Se l’analisi si sposta sulle principali maxi inchieste coordinate dal procuratore Gratteri nella regione, e conclusesi con un giudicato, il bilancio è addirittura da brividi. Inchiesta Marine, Platì 2003: 215 indagati, 121 in carcere, alla fine i condannati risulteranno solo 8. Inchiesta Circolo formato, Marina di Gioiosa 2011: 49 a giudizio, 27 condannati, 22 assolti. Inchiesta Saggezza, Vibo Valentia e Locride 2012_ 46 imputati, 19 condannati, 23 assolti. Inchiesta Ada, Melito Porto San Salvo 2013: 114 indagati di cui 65 arrestati, 43 condannati e 71 assolti. Inchiesta Metropolis, Africo e Marina di Gioiosa 2013: 25 indagati, 20 in custodia cautelare, 8 condannati e 17 assolti. Inchiesta Stige, Crotone 2018: 169 indagati e 104 per ora a giudizio con rito abbreviato, 66 condannati in primo grado”. Fin qui le inchieste del procuratore Gratteri censite da Gangemi, hanno collezionato 171 condanne su 553 persone portate a giudizio. Meno del 31 per cento. Significa che su tre persone finite nel mirino della sua azione penale due non meritavano il supplizio di un processo spesso lungo, costoso, doloroso. Il saldo di questo bilancio è parziale. Mancano gli esiti dell’ultimo blitz dell’agosto 2022 nel Cosentino con 202 indagati, e quelli del maxi processo Rinascita Scott, dopo il blitz scattato nel Vibonese nel 2019…

C’è una formula giudiziaria che suona ancora più odiosa della vecchia “insufficienza di prove” che lasciava sempre un dubbio; la formula è “il fatto non sussiste”. Come può essere, come può accadere, che investigatori, pubblici ministeri, GIP, GUP, giudici di vario titolo e grado dibattano, studino, discettino; e alla fine stabiliscano che “il fatto non sussiste”. Non c’è. Non c’è mai stato. Un qualcosa di terrificante. Si vada a pag.51 del libro di Barbano, la storia del presunto auto-salone dei signori Capra e Deturres; da manuale: un fatto che non sussiste è oggetto di una vera e propria odissea giudiziaria, con danni economici e psicologici irrisarcibili. Odissea ben concreta e reale, che sussiste provocando sconquassi e disastri. Capperi, se questi sussistono-

Libro inquietante. Per chi ancora ha fiducia nel diritto e nella giustizia, un incubo, e non si esagera.

Alessandro Barbano

L’Inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene – Marsilio

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